FESTINA LENTE

Centro Internazionale di Ricerca Storico-Artistica

Collana di Studi della Commissione Ricerca

diretta da Stefano Colonna Ph.D.

 

 

 

IL MONDO VIRTUALE

DI GIULIO CAMILLO

 

 

 

 

 

A cura di

 

Viviana Normando

Natascia Moroni

 

 

Roma, Università degli Studi "La Sapienza", 15 maggio 1997

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INDICE

 

 

 

Maurizio Calvesi

Teatro o anfiteatro ?

 

Corrado Bologna

"Virtualità" e "circolo virtuoso" nell’interpretazione del Theatro di Giulio Camillo

 

Stefano Colonna

Il mondo virtuale di Giulio Camillo: storia e progetto

 

Gaia Cremonesi

L’evoluzione del mito dall’Antichità al Rinascimento

 

Angela Cianfarini

La decorazione del Palazzo del Cardinale Capodiferro in Roma: affinità tematiche e concettuali con L'Idea del Theatro di Giulio Camillo ed il programma iconografico del Castello di Fontainebleau

 

Viviana Normando

Pandora afflition di cose in Giulio Camillo e il Rinascimento

 

Natascia Moroni

Giasone ed il dono del Vello d’oro

 

Alessandra Di Croce

Le fanciulle di Giulio Camillo, l'Occasio e i Hieroglyphica di Valeriano

 

Barbara Gilone

Le Tre Grazie camilliane: un'iconografia insolita nella Storia dell'Arte

 

Nicoletta Maggi

Giunone sospesa: un'immagine tra erudizione e geroglifico

 

Luana Nardi

Dall’assenza di acutezza di ingegno ai primordi della civiltà, un ponte: il furto di Prometheo

 

Ursula Benvenuti

Prometeo: dal furto del fuoco a Signore degli anelli. Memorie tra simboli, metafore ed immagini

 

Claudia Quintieri

Dafne dall'iconografia classica a simbolo del boschivo

 

Caterina Bracaglia

L’Allegoria della Prudenza di Tiziano nel Teatro di Giulio Camillo

 

Valentina Bruschi

Le Erinni / Eumenidi divinità della vendetta e della benevolenza: Furie in Camillo

 

Debora Vagnoni

Itinerario di sapienza e conoscenza virtuale nel "Teatro della memoria" di Giulio Camillo

 

Laura Cherubini

Giordano Bruno e Giulio Camillo tra pratica mnemonica e tecnica retorica

 

STEFANO LARICCIA

Rinascimento digitale prossimo venturo

 

GUIDO SANDONA'

Internet e l'Europa della cultura

 

RICERCHE IN CORSO

 

PIERO MEOGROSSI

Il Teatro di Alvise Cornaro

 

Caterina Volpi

Giulio Camillo e Pirro Ligorio

 

 

Teatro o anfiteatro ?

 

 

di Maurizio Calvesi

 

"Il secolo XVIII lo ricordava ancora, con una certa condiscendenza, ma poi scomparve e solo in anni recenti qualcuno ha ricominciato a parlare di Giulio Camillo": così scriveva Frances A. Yates nel suo fortunato The Art of Memory del 1966, presto tradotto in italiano (Einaudi 1972). Che un atleta della memoria come Giulio Camillo, famoso ai suoi tempi, sia stato profondamente dimenticato nel nostro secolo, è un paradosso solo verbale. Infatti la cultura dell'ermetismo è stata due volte uccisa: una prima volta nei suoi contenuti, ad opera del pensiero moderno; ma potremmo dire che oggi, ad opera del trend massificante, è la cultura tout court che rischia di soccombere.

Posti così in angolo ai nostri giorni, gli studi di umanità recuperano tuttavia dall'isolamento un interesse per la loro storia e le loro radici; ed eccoci, sia pure in pochi, a parlare di nuovo di Giulio Camillo, dopo un distacco che rende però difficile la stessa comprensione del suo messaggio.

Questa pubblicazione contiene i dati di un progetto di ricerca sul testo camilliano, affidato alle forze più giovani dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università "La Sapienza": nome quest'ultimo che evoca, alle origini una concezione del sapere tutt'altro che estranea, proprio, alla visione di Giulio Camillo, il cui sogno era di "unificare cose, parole e arti in una enciclopedia del sapere" (G. Stabile); visione integrale e pluridisciplinare, ma dove anche l'immaginazione e il mito svolgono un ruolo attivo, chiamando in causa l'arte della rappresentazione come momento conoscitivo.

Ci si propone di risalire a quel mondo di immagini che del Teatro costituiscono l'ossatura, ricercandone le iconografie attuate in pittura, nonché le testimonianze delle fonti, con l'assistenza, oltre che degli storici dell'arte, di un esperto camilliano del valore di Corrado Bologna.

A cominciare dalla forma materiale del Teatro, alla cui costituzione anche fisica sappiamo che l'autore attese. Forma vitruviana secondo la Yates. "Abbiamo sentito alcuni contemporanei di Camillo descrivere la sua opera come un anfiteatro" - scrive la studiosa - ma è invece "certo che egli pensava al teatro romano, quale è descritto da Vitruvio, il quale "dice che nell'auditorium del teatro i posti a sedere sono tagliati da sette passaggi". "Il teatro della memoria di Camillo - continua la Yates - è comunque una distorsione del piano del teatro reale di Vitruvio. Ad ognuno dei sette passaggi vi sono sette cancelli o porte (…). Che non vi fossero posti a sedere per spettatori fra queste enormi porte di corsia decorate a profusione non ha importanza, perché nel Teatro di Camillo la funzione normale del teatro è rovesciata: non c'è pubblico seduto nelle gradinate a guardare il dramma della scena (…). Camillo non menziona mai la scena, che ho perciò tralasciato nella pianta. In un teatro normale, del tipo descritto da Vitruvio, il retro della scena, il frons scenae, aveva cinque porte decorate attraverso le quali gli attori entravano e uscivano; Camillo trasferisce l'idea delle porte decorate dal frons scenae alle immaginarie porte decorate delle corsie dell'auditorium, che dovevano rendere impossibile a un pubblico di trovarvi posto; utilizza dunque la pianta di un teatro reale, quello classico descritto da Vitruvio, ma adattandolo a scopi mnemonici".

In realtà, è possibile che la fonte di Giulio Camillo fosse un'altra, fonte di fondamentale importanza per l'iconologia rinascimentale e per la formazione di una filosofia o poetica della natura ancora nell'ambito del Rinascimento (filosofia cui lo stesso Camillo appartiene), anche se per solito trascurata dagli studiosi a causa del difficile linguaggio nonché di un'errata attribuzione che rinviava a un oscuro frate domenicano: intendo l'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, signore di Palestrina, personaggio di spicco nella Roma di Alessandro VI e lodato dai suoi contemporanei come emulo di Virgilio e di Cicerone, profondamente legato alla cultura antiquaria, mitografica ed ermetica dell'urbe intorno all'Accademia di Pomponio Leto. Formatosi a Venezia proprio negli anni dell'apparizione, in quella città, del Polifilo, e subito dopo venuto a Roma, Camillo doveva ben conoscere l'opera del Colonna.

Nel romanzo, Polifilo incontra verso la fine del primo libro uno "amphiteatro" di straordinaria bellezza, più egregio del "romano Colosseo" o del "veronense theatro"; esso circonda un edificio cupolato di forma eptagonale all'esterno e circolare all'interno, sede del sacro fonte di Venere; è sorretto da colonne "in numero de septe", ciascuna delle quali reca alla sua sommità "una aruleta et di supra excitata una imagine di planita cum il suo appropriato attributo": le sette immagini dei pianeti si susseguono a partire dal "falcifero Saturno" fino alla "Noctiluca Cynthia", ovvero Luna.

Nel Teatro camilliano, le immagini dei sette pianeti, dalla Luna a Saturno, connotano le sette porte e le sette colonne: "ciascun pianeta in figura humana sarà dipinto sopra la porta della a lui destinata colonna". "Questo settenario è numero perfetto - scrive Giulio Camillo - perciochè contiene l'uno e l'altro sesso". "Le colonne descritte da Polifilo, sono divise in due gruppi di tre: le prime tre recano un "foemello sexo", le seconde la figura di un fanciullo mentre la mediana mostra uno "puerulo hermaphrodito".

Probabilmente Giulio Camillo ha fuso l'immagine del tempietto o ciborio (descritto nell'Hypnerotomachia) con l'anfiteatro che lo contiene. E' dunque verosimile che il suo Teatro avesse realmente, come riportano i contemporanei, la forma circolare di un anfiteatro ("Dicono che quest'uomo ha costruito un certo anfiteatro"… Zwichen 1532; "Viglio è stato nell'anfiteatro", lettera di Viglio ad Erasmo; "sta costruendo un anfiteatro per il re", Bording, 1534).

Come testimonia Giovanni Sturm, Camillo voleva creare un'immagine del cosmo. I sette governatori ovvero i sette pianeti, dice Camillo con le parole di Pimandro, "circulis mundum sensibilem complectuntur". "Complectuntur", cioè abbracciano, circondano.

Come del resto vediamo nel Polifilo. Il tempietto o ciborio già descritto ospita infatti Venere, che per il Colonna è la dea genitrice per eccellenza, è la Natura, è la Terra. Le allegorie di Venere come Terra-Natura sono più d'una nel romanzo e anche in questo caso l'allegoria si ripete, con la forma rotonda all'interno (come già il Tempio di Venere Physizoa, ispirato dalla descrizione ovidiana del tempio di Vesta) e con la presenza dei pianeti che le fanno corona.

Il Teatro di Giulio Camillo intende rispondere, come scrive lui stesso, all'interrogativo di Ermete Trismegisto: "Elementa naturae unde manarunt ? ".

Peraltro il tempietto di Venere nel Polifilo, oltre che alle immagini dei pianeti sopra a ciascuna delle sette colonne, reca alla base i dodici segni dello zodiaco, che con i pianeti influenzano le vicende terrene. Anche quest'ultimo dettaglio ha un certo riscontro in Giulio Camillo, che chiama spesso in causa i dodici segni zodiacali e li rappresenta al quinto livello del Teatro, associandoli alle parti del corpo umano. Egli mette appunto in relazione le "cose inferiori" con quelle "superiori" e si propone il "conoscer di alto le cose basse". "Et è ben ragione, che sì come parlando delle cose inferiori, la loro natura i sette pianeti ci rappresenta, secondo questa a quella e quella a quell'altro è sottoposta (…). Et a voler bene intender queste cose inferiori, è necessario di ascendere alle superiori".

Molte delle figure mitologiche presenti nel Teatro camilliano ricorrono anche, come naturale, nel Polifilo: tra cui Pasiphae (alla quale si intitola il quinto livello) che si congiunge con il toro e genera il Minotauro. Questa favola non si incontra che raramente nella pittura rinascimentale, ma è presente nel Polifilo: "La petulca Pasiphae succensa del infame amore et mentiente nella machina lignea ascosta et obturata et il robusto tauro sopra il non cognosciuto coito lasciviante. Et poscia il Minotauro di monstrosa effigie nel laborioso et devio labyrintho incluso et incarcerato".

Nell'antro di Saturno del Teatro compare, tra le altre, l'immagine di "tre capi, di lupo, di leone et di cane, che secondo Macrobio significa le tre parti del Tempo". E' proprio il Colonna a rievocare per primo questa descrizione di Macrobio, cui è dedicata una xilografia del romanzo.

La figura dell'antro, "il quale noi chiamiamo l'antro homerico", connota il terzo grado del Teatro: è appunto l'antro delle ninfe descritto da Omero nell'Odissea. Ma perché Camillo dà un significato simbolico all'antro di Omero ? A questo antro, Porfirio dedicò un'opera (De Antro Nympharum), che Camillo dovette conoscere. Nell'antro di Omero, "sono crateri ed anfore di pietra, dove le api serbano il miele", mentre le Ninfe "tessono stoffe color porpora". Tale descrizione, sostiene Porfirio, deve avere un significato allegorico e questo "monumento si scoprirà pieno dell'antica saggezza": l'antro è un simbolo della materia che forma il mondo, sta a significare che il mondo viene dalla materia, mentre le ninfe sono un simbolo dell'anima.

La spiegazione che Porfirio dà differisce da quella di Camillo (secondo cui la tessitura delle ninfe e il lavorio delle api significa "le cose miste ed elementate": "adunque dopo la materia prima noi non veggiamo che Dio creasse nuova materia, ma della prima formò tutte le cose, le quali noi chiamiamo miste ed elementate"); è però probabile che l'interpretazione di Camillo sia stata sollecitata dal testo di Porfirio, come conferma, nel grado di Pasiphe, la presenza di una "fanciulla scendente per lo Cancro", che "significa l'anima scender dal cielo, la entrata sua nel corpo". Questa immagine rimanda ancora all'antro omerico, che contempla due porte di cui "l'una che scende verso Borea è per gli uomini", e soprattutto al commento di Porfirio: secondo "coloro dunque che parlano delle cose divine ponevano essere due questi ingressi: Cancro e Capricorno; e Platone parla di due bocche. Di queste, il Cancro è quella per cui le anime discendono, ed il Capricorno quella per cui ascendono. Ma il Cancro è settentrionale e atto alla discesa, mentre il Capricorno è meridionale e atto alla ascesa. E le parti del Settentrione sono proprie alle anime che discendono verso la generazione".

Per quanto infine riguarda la classificazione del Teatro camilliano come "teatro della memoria", credo che occorra usare cautela. "La visione -scrive la Yates- è deliberatamente inserita entro la cornice dell'arte classica della memoria, e si serve della tradizionale terminologia menmonica; (…) assolve alla funzione di un sistema mnemonico classico per oratori". Non saprei però fino a qual punto la principale finalità di Camillo fosse quella di offrire un supporto all'esercizio della memoria, comunemente intesa; penso piuttosto, semmai, all'esercizio della memoria in senso platonico, come anamnesi e conoscenza; e probabilmente come momento del "ritorno": una memoria - contemplazione, che consente all'anima di ripercorrere a ritroso il processo dell'emanazione, ricongiungendosi alla propria origine: "… così de' pianeti parlando - scrive Camillo- ci ritornino alla mente quei principi donde quelli hanno avuto la loro virtù".

In ultima analisi, continuare a definire "Teatro della memoria" quello di Giulio Camillo potrebbe sembrare riduttivo, o ambiguo. Ho preferito pensare, in precedenti riflessioni su Camillo, che il suo fosse sostanzialmente un "teatro della Sapienza" e il fondamentale ritrovamento operato da Corrado Bologna, del testo così intitolato (Theatro della Sapientia), è un'indicazione da tenere prioritariamente presente. Naturalmente rinvio agli scritti dello stesso Bologna, e a quelli di Lina Bolzoni e del Rossi, per un approfondimento dei caratteri del Teatro camilliano, ben più articolato di queste mie sommarie indicazioni.

Ma se quello di Giulio Camillo è un "Teatro della Sapienza", sarà utile tener presente anche il testo di Heinrich Khunrath, apparso nel 1602 (e forse già nel 1598) con il titolo, proprio, di Amphitheatrum Sapientiae Aeternae. "Vieni o Khunrath - scriveva Jean Seussius in un suo encomio dell'opera- a prendere posto nel tuo teatro che, grazie al fuoco celeste e al tuo genio, ci mostra attraverso il divino specchio della Sapienza i misteri del Macrocosmo e del Microcosmo". Anche l'Anfiteatro del Khunrath si articola in sette gradi e, sebbene sia opera profondamente diversa da quella di Giulio Camillo, è verosimile tuttavia che l'abbia assunta inizialmente come modello. Confermandone così l'originale struttura di anfiteatro, ovvero cosmicamente circolare. La forma circolare torna in molte delle tavole del trattato del Khunrath.

 

 

 

"Virtualità" e "circolo virtuoso" nell’interpretazione del Theatro di Giulio Camillo

 

 

di Corrado Bologna

 

Flaubert descrive, da qualche parte, l'invincibile "potenza dell'idea fissa". Emana un fascino indiscreto, ombroso e vischioso, la dipendenza totale di un individuo, mente e corpo, dal quid ossessivo che si appropria con frenesia diabolica della sua anima, insediandosi nel luogo segreto in cui si generano e si sviluppano le immagini e le idee ad esse collegate. Un quid che è comunque difficile definire: progetto, tic, ideologia, mania, perversione… Invade, domina, possiede, sostiene, condiziona, travolge.

L'idea fissa può crescere, irrobustirsi, farsi totalitaria, articolarsi in sistema culturale, diventare un universo. Giulio Camillo, umanista ormai nuovamente celebre dopo secoli di sostanziale disinteresse, costruì la propria esistenza intorno all'idea fissa di un sistema totalizzante, un theatro capace di visualizzare l'intero scibile nella forma di rete di relazioni analogiche fra immagini mentali, indotte dall'esercizio interiore e fondate sullo schema dell'allegoria.

Erano gli anni d'Ignazio di Loyola e dei suoi Esercizi spirituali (la cui redazione fu probabilmente influenzata, a Parigi e poi a Venezia, dal progetto camilliano). Ma anche di Michelangelo e di Sebastiano del Piombo, del Pontormo e del Rosso Fiorentino, del cardinale Reginald Pole e del vescovo Gian Matteo Giberti, di Vittoria Colonna e di Marcantonio Flaminio, del frate francescano e cabalista Francesco Zorzi e del giovane pittore Tiziano Vecellio: tutti lacerati, presto o tardi, da affini turbamenti e tentazioni che diremo appunto "spirituali"; tutti bruciati da un identico ardore interpretativo, riconducibile al desiderio di apprendere l'ars misteriosa, difficile, elitaria, della transcodifica di cose e parole in immagini e idee, classificabili e quindi recuperabili, grazie alla "composizione" di "luoghi" mnemonici artificiali.

Per tutti Camillo lavorò strenuamente, la vita intera. Il disegno era di dar corpo ad un'idea fissa di straordinaria energia: costruire una macchina ermeneutica, un condensatore-trasformatore di conoscenza virtuale, attraverso la mirabile potenza metamorfica del quale l'uomo riuscisse a replicare l'intero universo, riordinandolo e traducendolo in un reticolo di parole, immagini, idee, relazioni, collegamenti. Così, nel restituire "ordine all'ordine" e nel raggiungere le "radici delle idee" mediante una "transmutatione" insieme alchimistica, retorica, psicologica, spirituale, Camillo progettava di dominare la "materia prima" del cosmo, e così di operare una mutazione radicale, nel contempo dell'"esterno" e dell'"interno", del "mondo" e di "sé".

Da umanista dell'età che seguì i Filippo Brunelleschi, i Leon Battista Alberti, i Donato Bramante dalle armoniose simmetrie pitagoriche, e precedette i Giordano Bruno, i Tommaso Campanella, i Paolo Sarpi e gli altri scettici attenti (così nel prologo del Candelaio) alla "mutazione" universale, Giulio Camillo chiamò theatro quel suo meraviglioso, ambiguo strumento ontologico e metamorfico, macchina dell'anima onnipotente, che voleva comunque abbastanza forte da mutare la struttura dell'universo agendo su quella della mente umana.

Camillo assunse a modello del suo Theatro l'anfiteatro descritto da Vitruvio nel suo trattato sull'architettura, riscoperto e illustrato a Parigi e a Roma da Giovanni da Verona, detto Fra Giocondo, il quale sull'armonia di quello spazio fortemente visualizzato aveva cercato di strologare le misure del mondo insieme con Guillaume Budé (più tardi ambasciatore di Francesco I presso Leone X), Raffaello Sanzio, Fabio Calvo ed Angelo Colocci. Nel Theatro Camillo volle disporre materialmente (ma nel contempo, e soprattutto, mentalmente!) parole e immagini, libri e quadri allegorici raffiguranti divinità ed eroi della mitologia classica, mirando ad imperniare il rinnovamento spirituale della realtà su di essi, usati alla maniera delle imagines agentes di Marsilio Ficino e degli altri neoplatonici di metà Quattrocento.

Nato come Anfiteatro, il Theatro divenne così anche Enciclopedia e Galleria, Studiolo dipinto e Libro illustrato. Ci sono prove (che Lina Bolzoni e io stesso abbiamo lungamente esaminato in studi specifici) di questa metamorfosi nel tempo e di questa plasticità permanente del modello stesso della "macchina" camilliana. Soprattutto ossessiona Camillo l'idea fissa della mens fenestrata, o animus fabrefactus: in questi termini egli pensava il Theatro e ne parlava allegorizzando (lo attesta la lettera inviata ad Erasmo da un avversario, Viglio Zwichem). Voleva "edificare" (giacché sta scritto che littera occidit, mentre spiritus aedificat) un "animo artificiato" ricostruito dalle fondamenta tramite un'attenta manipolazione delle immagini meditative (negli stessi anni Ignazio insiste sulla vista de la imaginación e sulla composición viendo el lugar), una "mente dotata di finestre" attraverso cui poter gettare lo sguardo all'interno, proiettandovi e plasmandovi immagini interiormente "composte" sulla base di quelle esibite nel Libro-Galleria-Anfiteatro "reale".

Di questa fascinosa, originalissima e quindi poco e male compresa architettura concettuale/spaziale s'è illustrata altrove la complessità. Uno dei problemi centrali ancora bisognosi di approfondimento è la corrispondenza fra quel Libro-Galleria-Anfiteatro "reale", concretizzato da Camillo, parrebbe, con il coinvolgimento di pittori e forse anche architetti amici, e l'altro Libro-Galleria-Anfiteatro tutto "mentale", faticosa meta dell'aspra procedura iniziatica sottesa all'opus del Theatro (cui s'è accennato) insieme alchimistico, retorico, psicologico, spirituale.

Una lunga serie di ricerche avviate anni fa, a partire dal rinvenimento di un manoscritto dell'Ur-Text del Theatro, per ora la testimonianza più antica del lavorìo camilliano, mi ha permesso di ipotizzare che l'iconografia-base dello splendido décor fissato da grandi artisti italiani nella Galerie François I del Castello di Fontainebleau, negli anni '30 e '40 del Cinquecento, possa raccordarsi, in maniera tuttora ombrosa e da precisare, alla stesura del Theatro-Libro (l'impostazione del problema e le prime tracce indiziarie della sua articolazione sono esposte in un mio studio in corso di stampa nella Miscellanea dedicata al 70Ý anniversario di Gennaro Savarese, maestro di questo campo di indagine). I sondaggi d'avvio sono stati fruttuosi: e un recente, autonomo intervento sulla rivista del "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes" a firma di Sylvie Béguin, nota specialista dell'ambito pittorico-manieristico, sembra dar conferma dall'esterno alla mia idea.

Invitato da Stefano Colonna (entusiastico, fattivo collaboratore di Maurizio Calvesi e colto connoisseur in proprio della cultura ermetico-sincretistica manifestatasi fra Quattro e Cinquecento nell'Italia fortemente ispirata alle dottrine neoplatoniche) ad illustrare sinteticamente in un paio di seminari lo schema dell'ipotesi e i tracciati possibili per la sua verifica, ho trovato nella scuola romana di Storia dell'arte moderna una humus fecondissima e una larga, generosa disponibilità al dialogo scientifico, tutt'altro che "divulgativa" o "dilettantesca", con i "dilettanti" e i "non addetti ai lavori" (quale io sono).

Ne nasce questo libretto "di servizio" tenacemente voluto dal Colonna, curato con passione e intelligenza, e nel quale mi piace rispecchiarmi, con spirito che oso pensare Camillo avrebbe condiviso, come nel disegno provvisorio d'un percorso ancor tutto da coprire, nella mappa per ora virtuale di un'approssimazione all'Isola del Tesoro.

Almeno un paio di volte ho scritto, qui sopra, l'aggettivo "virtuale": la prima per definire la consistenza della macchina-mente-libro-galleria di Camillo; la seconda, ora, per far cenno all'ottimizzazione del lavoro di ricerca. Mi domando spesso, per gioco, che "forma" avrebbe assunto il Theatro se Camillo avesse avuto a disposizione un computer, uno strumento capace di collegare a distanza, nella virtualità dell'ambiente elettronico, gli infiniti nodi delle "reti" concettuali identificate nello scibile. Lui dovette far ricorso ai quadri epistemologici del suo tempo, che gli offrivano l'allegorismo e l'ermetismo come supremo supporto culturale per il fine che s'era prefisso: ma l'idea di virtualità è sempre sullo sfondo del suo ragionamento, e delle stesse operazioni che la mens fenestrata e l'animus fabrefactus compiono, nelle pagine del Theatro.

Noi lettori del 2000, immersi nella cultura dell'immagine ed ora in quella del virtuale, siamo in grado di cogliere nel progetto camilliano molti elementi che gli esegeti precedenti non erano giunti a comprendere. Si tratterà di attivare, fra la nostra lettura del (quasi) XXI secolo e la scrittura del XVI, un circolo virtuoso, un Zirkel im Verstehen filologicamente corretto, deontologicamente preservato dalla viziosità dell'attualizzazione per un verso, delle proiezioni à rebours per un altro.

Sono fiducioso che nella prospettiva ancora vergine della ricerca sull'influsso esercitato dal Camillo sull'impianto iconografico e sulle singole scelte pittoriche dei Primaticcio, dei Rosso, dei Luca Penni, dei Niccolò dell'Abate (il cui figlio, anch'egli disegnatore e pittore a Fontainebleau, ebbe nome -prezioso dettaglio!- Giulio Camillo), il virtuoso connubio tra filologi e storici dell'arte possa giovare a ben intendere in profondo la virtualità del Theatro camilliano.

 

 

 

Il mondo virtuale di Giulio Camillo: storia e progetto.

 

 

di Stefano Colonna

 

Storia

Se si legge l'Idea del Theatro con la stessa metodologia usata da Giulio Camillo per comporre l'opera, i diversi ed apparentemente contrastanti piani di lettura offerti, si rivelano in realtà molto chiari e distinti, come facenti parte di un unico, demiurgico, tentativo di ri-costruzione del mondo che non ha, a livello teoretico, tutta quella carica magico-eversiva che gli è stata talvolta attribuita.

In particolare, la ridondante e quasi ossessiva volontà di ribadire ed ostentare la necessità del segreto, manifestata nel primo grado del Theatro, è, ipso facto, paradossale. Infatti un segreto viene mantenuto nascondendo anche e soprattutto la volontà stessa di nasconderlo. Usando lo strumento dialettico camilliano della litote e del procedimento a contrario, l'apparente contraddizione si risolve, invece, in un invito pubblico ed esplicito ad apprezzare e comprendere la necessità e verità dei principi primi che sono alla portata di tutti gli occhi che sanno vedere le cosiddette "cause latenti", le cause nascoste, quelle stesse, per esempio, che Sant'Agostino evoca per far comprendere le ragioni, appunto, nascoste, e quindi apparentemente incomprensibili, del comportamento della ribattezzata Fortuna-Provvidenza.

Nell'argomentare filosofico dell'Idea del Theatro ricorre una volontà "politica" nel confronto-scontro con i "peripatetici", nella confutazione serrata delle loro teorie viziate di incompletezza perché incapaci di ripercorrere, a ritroso e nella sua interezza, il percorso cognitivo-creativo che è alla base del mondo reale e simbolico . Così arringa il Camillo: " […] Per le quali ragioni possiamo ben considerare il torto che hanno i peripatetici, negando le idee, et dicendo gli universali procedere a posteriori, non a priori, et ciò è perciochè la divina sapienza va dimostrando loro l'ombra et i panni talhor di sé, ma'l viso nascondendo". I peripatetici, negando l'esistenza a priori degli universali, si precludono la vera conoscenza del mondo: chiara, evidente testimonianza di ciò è nel "divino nascondimento", in quello che potremmo chiamare "il segreto di Dio", che non può essere comunicato a chi non può capire, gli aristotelici, appunto, che non vedono le cause nascoste, i principi primi.

Ma questo segreto non va comunicato agli aristotelici proprio perché questi non possono capire e non perché il segreto di Dio è tale. Il "segreto di Dio" infatti corrisponde alle cause prime, le quali sono a loro volta latenti, nascoste in quanto a priori e non in quanto segrete. Il "segreto di Dio", dunque, è tale solo per gli aristotelici e non per i neoplatonici.

Una citazione decontestualizzata del richiamo del Camillo alla segretezza può indurre ad un'interpretazione in senso magico-esoterico; ma l'invito alla segretezza formulato nell'introduzione dell'Idea del Theatro è soprattutto, a livello teoretico, una metafora del ripudio dell'ignoranza o, viceversa, un invito alla Sapienza. Appare allora chiaro il senso ultimo di Theatro della Sapienza che il Calvesi ha acutamente intuito e sottolineato e il Bologna ampiamente e filologicamente dimostrato, ritrovando addirittura l'Ur-text camilliano dal titolo omonimo.

Questa posizione metodologica ed epistemologica è senza dubbio fondamentale per apprezzare il valore simbolico di una larga parte della produzione d'immagini del Rinascimento, la cui interpretazione allegorica non è ancora accettata dalla critica moderna nella sua interezza. Un atteggiamento moderno, ma di radice "aristotelica", che nega ancora oggi la dimostrabilità scientifica dei significati latenti dell'immagine, precludendo così alla ricerca l'apertura di nuove frontiere.

Nessuno ancora, per fortuna, dubita del fatto che Tiziano abbia lavorato con Giulio Camillo.

 

Progetto

La virtus etimologicamente evocata dal titolo Il mondo virtuale di Giulio Camillo richiama dunque la potenza, il mondo delle idee, il virtuale contrapposto, ma anche presupposto del reale. Il virtuale come matrice, idea prima, a priori.

Oggi il termine "virtuale" ha nell'uso comune e tecnologico, ben altro valore. Anzi, assume attualmente un significato spesso negativo. La ricomprensione della fondante epistemologica del pensiero camilliano potrebbe trasformare il pensiero "ad oggetti", object oriented (Stefano Lariccia), ancora erede di un ormai insufficiente strutturalismo, in un pensiero "per soggetti", che rinnoverebbe i contenuti e i metodi della moderna ricerca umanistica, anche e soprattutto in chiave europea (Guido Sandonà).

La corretta comprensione storica del "mondo virtuale di Giulio Camillo", con la riacquisizione di tutto lo spessore temporale che questo processo comporta, viene proposta anche come un tentativo di "umanizzare" in senso rinascimentale e sapienziale-cognitivo il nuovo sistema della comunicazione e della cultura che si sta creando intorno al cosiddetto "Internet".

La netta distinzione tra "storia" e "progetto" è funzionale, ed è stata proposta seguendo l'invito di Corrado Bologna a definire chiaramente e in un modo filologicamente corretto la dimensione del confronto tra due ben diversi oggetti di studio.

La comprensione di un episodio particolarmente significativo della storia può essere, nella migliore delle ipotesi, valido strumento per una ricerca aperta alle reali esigenze del mondo contemporaneo, sempre che questo abbia occhi per vedere.

 

 

L’evoluzione del mito dall’Antichità al Rinascimento

 

di Gaia Cremonesi

 

Grazie all’umanesimo, il cui inizio viene attribuito a Petrarca e il cui carattere fondamentale fu il ritorno agli antichi e il culto del mondo classico, ebbe luogo una rottura con il medioevo che fu apertamente proclamata dagli stessi umanisti. Infatti questi ultimi vedevano nei secoli che li separavano dall’antichità, un’epoca di oscurità e barbarie, colpevole di avere adulterato l’ideale classico di umanità e di cultura, al quale occorreva invece tornare per assumerlo come modello. Così fra il Trecento e Quattrocento, gli umanisti, attraverso appassionate ricerche delle biblioteche d’Europa, riportarono alla luce testi classici che il medioevo aveva ignorato o conosciuto solo in modo indiretto.

Questo rinnovato interesse per l’antichità portò anche alla rinascita del platonismo il cui più illustre esponente fu Marsilio Ficino, che fu fondatore, a Firenze, dell’Accademia neoplatonica, sostenuta dai Medici e alla quale appartenevano gli esponenti più in vista della cultura del tempo. Nei circoli di questa accademia gli antichi venivano imitati ossequiosamente: vi fu infatti una ripresa dell’uso del latino classico non alterato dalla scolastica. Gli eruditi usarono nomi latini e mostrarono un vivissimo interesse per la mitologia come mezzo per celare significati profondi comprensibili solo ad iniziati.

Ma vi è una differenza profonda tra il significato attribuito ai "misteri" dagli antichi e dai neoplatonici del Rinascimento perchè nell’arco dei tempi vi fu un’evoluzione nel significato dato alla parola "misteri".

Il primo, ed originario, significato fu esemplificato dalle feste di Eleusi e fu un rito popolare di iniziazione. Ma questo tipo di rito lasciava perplessi ed indignati i filosofi, che consideravano le feste buone solo per il volgo. Platone per conto suo, invece di sconfessare qualsiasi rapporto di parentela tra la sua filosofia e tali riti, dichiarava che la filosofia era essa stessa un’iniziazione mistica anche se di tipo diverso, la quale attraverso una ricerca consapevole, conseguiva per pochi eletti ciò che i misteri somministravano al volgo attraverso una stimolazione delle loro emozioni.

I misteri cultuali furono così sostituiti dai cosiddetti "misteri letterari" (1), quindi da un uso figurativo di parole e immagini tratte dai riti popolari e trasferite per l'occasione alle discipline intellettuali della discussione e della meditazione filosofica. Questo è un momento molto importante perchè da adesso in poi i misteri pagani entrano a fare parte della "sfera della filosofia". Grazie a Plotino, che si occupò della messa a sistema della teoria di Platone, fu adottata una terminologia rituale per sostenere e stimolare l’esercizio dell’intelligenza e questa tecnica si dimostrò un’esercizio straordinariamente utile come finzione, ma finì con il trarre in inganno i filosofi del platonismo tardo in una reviviscenza della magia, delle pratiche della teurgia e della cabala. Tutte queste stregonerie incompatibili in apparenza con l’esercizio della dialettica, vennero infatti gradualmente riammesse come ancelle della filosofia; ben presto però alzarono la testa e divennero sue padrone.

Nella letteratura trasmessa al Rinascimento queste fasi erano già intimamente mischiate e quindi l’uso che facevano dei "misteri degli antichi" veniva loro da una falsa interpretazione storica, infatti i primitivi culti misterici venivano visti attraverso gli occhi dei filosofi platonici i quali li avevano già farciti di "misteri letterari" saltando quindi Platone e Plotino. Questa "errata" interpretazione è da attribuirsi principalmente alla natura delle fonti utilizzate che risalivano alla tarda antichità se non al Medioevo, perchè solo in un periodo tardo i misteri erano stati messi per iscritto, e questo fattore contribuì notevolmente a contaminare la rivelazione pagana con elementi biblici.

Infatti grazie alla ripresa di questo "sincretismo tardo antico", i neoplatonici riuscirono a colmare il divario che esisteva tra cultura classica (laica) e cultura religiosa, attestando la profonda religiosità delle culture pre-cristiane. Le tematiche tradizionali ereditate dal medioevo furono soppiantate da temi mitologici che venivano però reinterpretati, facendosi carico di celare messaggi complessi. Infatti molte delle opere d’arte di questo periodo furono concepite per iniziati. Esempi di questo linguaggio allegorico e nascosto possono essere trovati per la prima volta nei quadri di Botticelli e soprattutto nelle opere di Michelangelo.

 

(1) Festugèr, in E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, 1985 (ed. or. 1958), p. 13.

 

 

 

 

La decorazione del Palazzo del Cardinale Capodiferro in Roma: affinità tematiche e concettuali con L'Idea del Theatro di Giulio Camillo ed il programma iconografico del Castello di Fontainebleau

 

 

di Angela Cianfarini

 

Considerando i dimostrati e stringenti rapporti tra gli artisti del Rinascimento e l'opera di Giulio Camillo, si propone in questa sede un'interpretazione e confronto tra le tematiche espresse nell'Idea del Theatro e il Palazzo del Cardinal Capodiferro a Roma, prendendo in esame le decorazioni presenti sia in facciata e nel cortile, sia all'interno degli undici ambienti del Piano Nobile. Per ciascuno di essi, infatti, è possibile compiere stringenti rapporti iconografici e tematici con i testi del Delminio, le decorazioni nella reggia di Fontainebleau, secondo l'indicazione di Corrado Bologna, e persino con talune xilografie polifilesche.

Girolamo Capodiferro, letterato e mecenate della cerchia illuminata della famiglia Farnese(1), frequentò fin dalla giovinezza il Cardinale Alessandro e più tardi la corte di Paolo III. Di spirito tollerante ed aperto, simpatizzò con gli ambienti spiritualeggianti dell'Oratorio del Divino Amore, tra i cui membri si annoveravano i Cardinali Jacopo Sadoleto (il quale, nel 1544 chiese ed ottenne la sua nomina al cardinalato col titolo di San Giorgio in Velabro(2)), Reginald Pole, Marcello Cervini, Alfonso Carafa; e personalità come Vittoria Colonna (moglie del Marchese del Vasto, Ferrante d'Avalos, il cui cugino Alfonso, orfano, venne amorosamente allevato da lei, divenendo negli anni '40, il destinatario del volume di Camillo) e ancora, Egidio da Viterbo e Michelangelo, particolarmente apprezzato dal Capodiferro(3).

Il Cardinale rivestì un ruolo essenziale nel mantenimento dei rapporti con il mondo francese, ricevendo più volte l'incarico di Nunzio (maggio-giugno 1541/marzo 1543; ancora tra febbraio-aprile 1544) e di Legato (25 febbraio 1547; maggio-ottobre 1550 e 1553) e frequentando il fertile ambiente culturale delle corti di Francesco I ed Enrico II. Già praticato anche dal Delminio, particolarmente tra il 1530 ed il 1538, presso il Collège Royal, ove s'incontrò con l'èlite intellettuale e religiosa di Francia: il Budè, il Du Bellay e Lèfevre d'Etaples, tra gli altri, la cui <<esperienza evangelica, così permeata di motivi platonici ed ermetizzanti, potè sicuramente attrarlo(4)>>. Con il che viene a sfiorarsi anche la problematica dell'ortodossia delminiana.

Tra il dicembre 1541 ed il gennaio 1542 ed ancora nel marzo 1543 ed il settembre-ottobre 1547, Girolamo risiedette anche a Fontainebleau(5), ove dal 1535 circa, erano in corso i lavori di decorazione del Castello reale, cui potè assistere e da cui s'ispirò, come vedremo, durante l'abbellimento della propria residenza romana.

A lui si dovette inoltre il matrimonio, celebrato nel 1552, tra il minore dei nipoti di Paolo III Farnese, Orazio e la figlia naturale di Enrico II, Diana; a ricordo di tale avvenimento, i loro emblemi, la mezzaluna di Diana-Selene ed il giglio farnesiano, vennero poi apposti a decorazione del soffitto della Sala delle Quattro Stagioni dell'Appartamento(6).

L'edificio, realizzato dall'architetto Baronino da Casale Monferrato (noto anche come Palazzo Spada dal nome del compratore seicentesco, il Cardinale Bernardino Spada ed oggi sede del Consiglio di Stato) venne eretto alla metà del XVI secolo e decorato all'esterno ed all'interno, da sculture, stucchi e pitture di carattere mitologico e profano presentati secondo una lettura di spiccato sapore neo-platonico, retaggio sia degli studi giovanili che, appunto, dei soggiorni transalpini del committente.

L'analisi iconografica ed iconologica dei temi illustrati nell'ornamentazione dell'intero edificio porta alla conclusione che essi rispecchino fedelmente basilari concetti umanistici e che percorrendo le Sale che compongono l'Appartamento Nobile ci s'inoltri in una sorta di percorso iniziatico dell'anima attraverso la celebrazione degli episodi d'Amore, di Virtù e della 'Politica', fino a giungere ai principi primi ed incorruttibili(7).

Si può ora rilevare come la maggior parte di questi soggetti siano comuni alla decorazione della Galleria parigina ed allo spirito che la pervade ed alcuni siano trattati anche nell' Idea del Theatro camilliano.

Per ragioni di brevità si analizzeranno in questo intervento soltanto alcuni aspetti concernenti il Corridoio degli Stucchi, ambiente posto tra il corridoio seicentesco della Meridiana e la sala di Callisto. Esso venne realizzato nei primi anni '50 dal plasticatore e pittore piacentino Giulio Mazzoni ed un èquipe di collaboratori francesi(8) venendo a risultare sicuramente influenzato dalle decorazioni della Galleria di Francesco I, sia nella struttura architettonica, piuttosto stretta e lunga 13. 65 mt., che nell'ornamentazione.

Il soffitto accoglie, in successione, la celebrazione di tre episodi mitologici attorniati da riquadri con flora e fauna simbolica; sulle pareti laterali si trovano sei immagini (9) allegoriche di Virtù in olio su calce inquadrate da telamoni in stucco; sopra l'ingresso della sala di Callisto è collocata l'immagine di Danae cui doveva probabilmente corrispondere specularmente e sull'altro lato breve del corridoio, quella persa di Semele, così come accadeva anche nella Galleria realizzata dal Primaticcio (10).

Esaminando più dettagliatamente le figurazioni sulla volta ed iniziando dall'entrata della 'Meridiana', è visibile il riquadro con la morte di Adone, presente anche tra le decorazioni francesi. Esso viene inteso qui, secondo la lettura platonica e plotiniana (11), come simbolo dell'elemento terra e dell'anima umana non ancora elevata al di sopra del 'ficiniano' amor rerum.

Segue il ratto di Ganimede assimilato all'elemento aria, ripreso dall'iconografia michelangiolesca dello stesso tema sviluppato per Tommaso Cavalieri; al disegno originale è stato aggiunta la figura di un cane come si ritrova anche in alcune stampe del Beatricetto, dell'Alciati e del Bocchi. L'episodio è interpretabile come sublimazione dell'amore divino che attrae tutto a sè.

L'ultima è l'immagine di Narciso-acqua che si specchia nella fonte alla presenza di due personaggi rappresentanti Eco e Nemesi, così come riportato anche nel Narciso composto da Luigi Alamanni, poeta al servizio di Francesco I ed Enrico II in Francia dal 1535 c. a. ed in rapporti epistolari tra gli altri, con Renata di Francia e Vittoria Colonna(12). La scena è leggibile come la celebrazione dell'amor sui, ossia la presa di coscienza del sè rispetto al mondo. Camillo nel suo Theatro pone questa immagine nel settore dedicato a Venere e precisamente, nell'Antro, in Pasifae e nei Talari con un significato che parte dalla Bellezza mortale e passeggera, transita per le ''delettationi'' veneree e attraverso la capacità di ''far bello e far innamorare'', giunge all'''arte dei belletti''(13).

Come già accennato, la decorazione dello spazio collocato sopra alla porta che immette nella sala dedicata a Callisto presenta l'immagine della Danae che riceve su di sè la pioggia d'oro fecondatrice, figurativamente simile al prototipo tizianesco per Ottavio Farnese (1545/6), oggi conservato nella Galleria di Capodimonte, a sua volta ripreso da quella del Primaticcio per la Galleria di Fontainebleau; soggetto re-interpretato 'cristianamente' dagli esegeti medioevali e rinascimentali (ad esempio Egidio da Viterbo(14)), come immagine della Vergine fecondata dallo Spirito Santo. La giovane è colta nel momento in cui riceve il beneficio di un dono divino, in sostanziale concordanza con quanto ne scrive Camillo trattandone nell'Antro, Pasifae e Talari di Giove ove il mito è assimilato ai concetti di ''buona fortuna ed abondanza o richezza'' (15).

Anche le rappresentazioni parietali possono essere lette seguendo l'accettata interpretazione, cui può senz'altro ricollegarsi anche il contenuto delle opere contemporanee del Camillo e di Charles de Bouvelles.

Nei due perduti quadri iniziali affrontati e sostituiti a partire dalla seconda metà del XVI sec. c.a. con rappresentazioni di eroine dell'antichità (16), erano probabilmente raffigurati episodi relativi alla corporeità dell'essere umano, alla sua 'nutrizione e riproduzione', assimilabile al grado del Convivio delminiano formato dagli 'elementi semplici'.

Continuando sulla sinistra, segue la raffigurazione di un angelo tibicino, cui può legarsi l'origine divina dell'anima, esterna perciò alla sostanza del corpo (17), idealmente riconducibile al quinto grado di Pasifae, luogo-emblema dell'unione dell'anima con il corpo; dirimpetto, sulla destra, è l'immagine della Conoscenza che calpesta l'Ignoranza, tematicamente vicina alla scena del Francesco I che scaccia i Vizi e allusione al passaggio dalla sfera sensibile a quella razionale. Affianca il personaggio principale una seconda donna dal mantello aperto a mostrarne la nudità. Essa risulta quasi una letterale allusione al concetto della 'Ragione figlia della Natura', razionale anch'essa a suo modo, espresso nel Liber de Sapiente da uno dei massimi rappresentanti del Neo-platonismo francese, il citato Charles de Bouvelles. Sullo sfondo del medesimo riquadro sono i simboli delle arti 'costruttive' che imitano la Natura, una sorta di esemplificazione visiva e generale dei gradi dei Talari di Mercurio, ove Delminio tratta delle discipline naturali dell'uomo e di quello successivo di Prometeo, ossia il settore delle attività umane più complesse.

Ancora sulla sinistra viene proposta l'immagine della Giustizia, dotata di scimitarra, bilancia e delle tavole mosaiche, proposta qui quale summa morale delle virtù. Le si oppone sulla parete di destra, l'allegoria della Veritas filia Temporum e scoperta dalla Ragione; ossia della Verità ''propria ed immanente'' nell'anima, raggiungibile solo nel tempo, con somma applicazione. E mutevole, così come lo sono le vesti sempre inadatte della Diana nell'invenzione camilliana del secondo e settimo gradino del settore a lei dedicato, a simbolo della mutevolezza e rigenerazione delle cose in natura.

L'ultima personificazione sulla destra è quella dell'Anima umana, intesa anche come Temperanza, intenta a conoscersi ed a 'temperare', appunto, la propria natura riguardando nello specchio che le porge la Prudenza sia sè stessa che le 'forme prime' dei principi generali, attraverso i quali può raggiungere la perfezione. S'innesta perciò una catena di reminiscenze ed 'archetipi' platonici, che renderebbero, secondo la ricostruzione del Neppi, lo ''specchio della Prudenza (...) specchio della memoria'' (18).

Infine, sulla sinistra, si perviene all'estremo grado della perfezione e l'anima, ormai divenuta essa stessa sapiente, viene incoronata e addita verso l'alto a mostrare l'amore divino, riverberandosi plotinicamente nell'Uno.

Si conclude qui perciò il cammino di purificazione ed ascesi compiuto attraverso il Corridoio degli Stucchi, elevandosi attraverso vari livelli di 'Bellezza': la terrena con Adone, quella sublimata di Ganimede e quella assoluta di Narciso.

Continuando sinteticamente i raffronti negli altri ambienti, parigini e romani, si può rilevare che, ad esempio, nella Camera della Duchessa d'Etaples si narrano le vicende di Alessandro Magno, come accade nell'omonima Sala del palazzo cardinalizio; nella Galleria d'Ulisse sono illustrate, tra l'altro, scene di battaglia tra Romani e Sabini, similmente a quanto accade nella Sala dei Fasti Romulei; l'Apartèment des Bains è decorato in parte con la storia di Callisto, mentre in Palazzo Capodiferro, al mito viene dedicato un intero ambiente ed ugualmente accade per le vicende di Amore e Psiche. Si possono proseguire i confronti ed i numerosi riscontri per le successive Sale, come appare altresì possibile effettuare raffronti tra i suddetti soggetti con alcuni di quelli già trattati da Giulio Camillo ne L'Idea del Theatro. Quali primi esempi possono citarsi: Danae, Pandora, Hymeneo e l'Elephant Fleurdalysè, per quanto riguarda Fontainebleau; o i miti di Proteo, Narciso ed Endimione per il Palazzo romano. La comune matrice culturale emerge quindi chiaramente nei personaggi evocati in maniera da invitare all'approfondimento della ricerca intrapresa.

 

NOTE

(1) Nato a Roma nel 1502 da Alfonso Recanati, avvocato concistoriale napoletano e Bernardina Capodiferro, romana; cfr. almeno Ciacconio A., Vitae et res gestae Pontificum Romanorum et S. R. E. Cardinalium, III, Roma, 1677, col. 706; e Fragnito G., Vox Capodiferro Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975.

(2) La lettera è anche riportata in Aubery A., Histoire generale des Cardinaux, IV, Paris MDCXLVII, p. 126.

(3) Si veda Boissard J. J., Romanae Urbis Topographiae et Antiquitatum, Francoforte 1597, p. 38 e ss.

(4) Vasoli C., Filosofia e Religione nella cultura del Rinascimento, Napoli 1985, p. 282/283.

(5) Si veda Neppi L., Palazzo Spada, Roma 1975, nota 16, p. 53 e Lestocquoy J., Acta Nuntiaturae Gallicae: Correspondence des Nonces en France: Capodiferro, Dandino et Guidiccione, 1541-1546, III, Roma-Parigi 1963, ove sono ricordate: una lettera di Girolamo, spedita da Fontainebleau al Card. Farnese e datata al 4 gennaio 1542, ed altre missive indirizzate allo stesso, da parte del segretario del Capodiferro, Giovanni Stanchini, di nuovo da F. Altre sue comunicazioni indirizzate ai ''D.D. legati'', risalgono al 1547 proveniendo ''ex Fontebellaquae'', S. Merkle, Concilium Tridentinum, I, Friburgo MCMI, p. 705.

(6) Quod factum (il matrimonio, cioè) est opera R.mi D. Card. Capitisferrei apud illum regem nuper legati destinati, ibidem, cit., p. 667.

(7) Neppi L., Palazzo, cit.; Vicini M. L./Cioffetta S., Di alcuni temi Ovidiani nel piano nobile del Palazzo Capodiferro: iconografia e significato, in Bollettino D'arte 1991, 70, pp. 105-119.

(8) Neppi L., Palazzo, cit., pp. 53, 54 e 54, nota 20.

(9) In realtà le scene dovevano essere otto, ma in seguito all'apertura di una scala di collegamento al mezzanino alla fine del Cinquecento, sotto la proprietà della famiglia Mignanelli, una parte di quelle originali si è persa, venendo poi sostituita dalle rappresentazioni in olio su tela delle virtuose figure femminili di Lucrezia, Sofonisba e Cleopatra, cfr. ibid., cit., p. 53.

(10) Ibid., cit., p. 74.

(11) Si veda Neppi L., Palazzo, cit., p. 73 e ss.

(12) cfr. Fontana B., Renata di Francia, duchessa di Ferrara, Roma MDCCCLXXXXIII, p. 128.

(13) Camillo G., L'Idea, cit., pp. 96/7.

(14) Neppi L., Palazzo, cit., p. 62.

(15) Camillo G., L'Idea, cit., pp. 105, 107/108; Neppi L., Palazzo, cit., pp. 73/74.

(16) v. supra, nota 13.

(17) Cfr. Camillo G., L'Idea, cit., p. 63 e ss.

(18) Neppi L., Palazzo, cit., pp. 72/73.

 

 

 

Pandora afflition di cose in Giulio Camillo e il Rinascimento

 

 

di Viviana Normando

 

Non c’è mito più noto di quello di Pandora, ma forse nemmeno più equivocato. Così esordivano Erwin e Dora Panofsky nell’unico testo, Il vaso di Pandora del 1958, interamente dedicato alla favola della bella fanciulla.

Sono tre le versioni del mito, più di frequente, valutate dagli studiosi: la prima, descritta da Esiodo (1), vede Pandora inviata sulla terra come punizione di Zeus nei confronti di Prometeo e degli uomini, bellissima, dotata di tutte le arti per ingannare il genere umano e, una volta sposa di Epimeteo, libera di far uscire dal suo vaso mali d’ogni sorta, quali la morte, la vecchiaia, l’infelicità eccetto il timor del futuro che rimarrà in fondo al pìthos; la seconda, sostenuta da Panofsky, Schopenhauer, Babrius, Macedonio di Tessalonica (2), nasce dall’idea che sia un uomo, probabilmente Epimeteo, ad aprire il vaso contenente i beni con tutte le virtù fuorchè la speranza che rimane sul bordo (3); la terza presuppone (4) l’ambiguità del nome greco di Pandora, cioè, colei che dà tutti i doni, dono di tutti gli dei agli uomini oppure colei che riceve o prende doni da tutti, per cui la fanciulla sarebbe un bene ed un male allo stesso tempo, introducendo i mali nel mondo e, quale prima donna, mito da cui nasce l’idea del matrimonio su cui si fonda la civiltà. Di lei, tra gli autori latini, ne fanno menzione Plinio, Igino, Fulgenzio, Porfirio e Tertulliano; tra gli scrittori greci è citata da Gregorio di Nazianzo e da Origene, come pure narrano di lei Goethe e Boccaccio (5).

Anche Giulio Camillo Delminio riferisce di Pandora: nel terzo grado, nell’antro, viene nominata tra le sette immagini dell’antro di Saturno e come Pandora afflition di cose; nel quinto grado, in Pasiphe, Pandora malvagia fortuna, infelicità, ignobilità, povertà, infamia, infermità, non ottener desiderio; nel sesto grado, nei talari, è Pandora dar tribulationi (6).

Nel Rinascimento sono diversi gli artisti che hanno rappresentato, in modo diretto o non dichiarato, il mito di Pandora, con riferimento al concetto funesto della dea che, senza dubbio, Camillo riprende da Esiodo e che, pertanto, potremmo definire esiodeo-camilliano. Panofsky nel suo Vaso di Pandora menziona, a illustrazione di un buffo emblema delle Symbolicae Quaestiones, un’incisione di Giulio Bonasone, dal titolo Miseria Honorata. Si è spesso parlato di un’affinità tra tale poema di Achille Bocchi, ripreso negli Emblemata del Bonasone, e il Teatro Camilliano che viene qui confermata. Nell’incisione, dal vaso escono due diavoli e sei serpenti in procinto di aggredire il povero Epimeteo, piccolo di contro ad una grande statua sotto cui si legge la scritta Roma, dedicata al destinatario dell’emblema, l’amico del Bonasone, Marcantonio Flaminio, impegnato a Roma in un’importante carica di curia (7).

Rosso Fiorentino è uno dei pittori che riprende il tema camilliano di Pandora: ne è testimonianza un disegno, secondo Panofsky databile al 1530 o poco più tardi, in cui la donna viene rappresentata con il suo pìthos, da cui fuoriescono i mali che si concretizzano nelle persone che le stanno intorno atterrite. Il disegno, nota Panofsky, è preparatorio di un affresco del Rosso L’Ignoranza cacciata a Fontainebleau, dove il pittore ha lavorato dal 1532 al 1539 (8). Uguale il gesto di terrore delle braccia rivolte verso l’alto nell’uomo che fugge, stessa la foga compositiva: le figure, bendate, allegorie dei vizi e dell’ignoranza, qui, si agitano non intorno a Pandora ma a Francesco I, al quale è dedicata la Galleria. Dall’indifferente ironia di Pandora nel disegno, si passa alla consapevole determinazione dell’imperatore nel combattere i mali del mondo. Lo stesso componimento tumultuoso, poi, si può notare in un altro disegno della Pietà della scuola di Fontainebleau, probabile illustrazione preparatoria di un’opera del Rosso al Louvre, dove medesime sono le braccia alzate ed in cui, al centro della composizione, il Cristo si impone con ai piedi un vaso scoperto (9). Lo stesso tema dei mali della fanciulla con il vaso lo troviamo, secondo Panofsky, in tre marchi tipografici adottati dall’editore parigino Gilles Gorbin, attivo a Parigi dal 1555 al 1586.

Nella Galleria di Fontainebleau, dunque, non compare esplicitamente Pandora. Tuttavia l’eco del suo mito si intravede in colei che tutti sono soliti denominare Danae. La fanciulla realizzata dal Rosso, in collaborazione con il Primaticcio, distesa, con atteggiamento ironico tipico di taluni personaggi dell’autore (ironia già osservata nel disegno del 1530), guarda un’anziana donna che evita, preoccupata, di far prendere un vaso ad un amorino. E’stato esaurientemente dichiarato come tale Danae di Fontainebleau sia la fonte iconografica della Danae di Tiziano (10), in cui vige la stessa scena della vecchia, quale simbolo di bassezza morale, che tenta di allontanare Cupido dal vaso contenente, secondo il mito di Danae, la pioggia d’oro ovvero Zeus che ha l’unico intento di fecondare la fanciulla. Qui Danae ha sul volto, consenziente, un velo di sarcasmo nel guardare la nutrice che tenta di non far toccare il vaso che racchiude il male. Osservando, poi, un dipinto di Jean Cousin del 1538, ritroviamo la medesima fanciulla coricata, appoggiata da un lato su di un teschio, dall’altro su di un vaso, priva dello sfondo di cui erano protagonisti la vecchia e l’amorino, con l’aggiunta della scritta Eva Prima Pandora. Ugualmente adagiata è colei che Panofsky, nel Vaso di Pandora, definisce la trasposizione scultorea del quadro del Cousin, cioè, la coeva Danae di Benvenuto Cellini, la quale, come pure la Danae di Palazzo Spada a Roma, è sdraiata su di un vaso, risultando iconograficamente identica a come si mostrava la Pandora della Miseria Honorata degli Emblemata. Potremmo, quindi, essere di fronte ad un sincretismo dei due miti di cui la risultante è l’immagine di una Danae-Pandora. E’ da notare come J. Cousin per la sua Eva Prima Pandora riprenda il motivo del teschio e del vaso da Tiziano, grande amico, secondo Corrado Bologna (11) del Camillo. Il quadro in questione è La Maddalena Penitente del 1535 nonchè delle versioni successive, in cui la donna si pente dei peccati commessi, impegnandosi a non essere schiava dei mali terreni e della povertà d’animo. Il tema del vaso come male non è raro in Tiziano: mi riferisco, ad esempio, a Bacco e Arianna del 1523, al Baccanale del 1518-19, a Diana e Atteone del 1556-59 dove al centro della scena il pithos è sempre presente, in terra o in mano ad uno dei personaggi in primo piano.

Pandora in Camillo viene, poi, menzionata come malvagia fortuna. Si osservi, a questo proposito, l’emblema di Theodore De Bray Emblème de la fortune del 1593, in cui una bella fanciulla, adornata di vari monili, si presenta con la mano destra occupata da una sorta di bisaccia e di serpente attorcigliato mentre con la mano sinistra sorregge un vaso; ella divide la composizione in due parti uguali: sullo sfondo una nave è inghiottita dalle acque mentre sul lato opposto due barche navigano vicino alla riva dove due signorotti dell’epoca passeggiano tranquillamente. Qui Pandora, come suggerisce il titolo, è l’allegoria della fortuna che può presentarsi favorevole o contraria. La nave che affonda, dietro la fanciulla che tiene il vaso, è l’immagine allegorica della malvagia fortuna, come dimostra un confronto proposto da Sjlvia Pressoyre, con l’emblema di J.Cousin, Fortuna Naufraga, che coincide, a sua volta, con il veliero nel paesaggio di un’opera di Lorenzo Lotto del 1508 (12). La Pressoyre ha notato l’imbarcazione del Cousin nel Coperto allegorico del ritratto di Bernardo de’ Rossi, oggi alla National Gallery di Washington, di cui il De Bray riprende lo schema della tavoletta, con la divisione del negativo e del positivo. Considerando l’emblema e l’opera, possiamo rilevare che al posto della fanciulla, si erge un tronco spezzato con lo stemma del Cardinale. Nel coperto per il de’ Rossi è in primo piano sulla destra, di fronte alla nave che si intravede di scorcio, un satiro ebbro ed eccitato che guarda, avido, dentro un vaso; dall’altro lato un bambino si dedica alla musica e agli strumenti di misura con un monte sullo sfondo, dove un piccolo angelo ascende la montagna illuminata dalla luce della conoscenza o dalla luce divina. Qui si vuole indicare - scrive A. Gentili (13) - Il contrasto tra la Virtus, nel putto alle prese con oggetti di scienza ed arte, e la voluptas, nel satiro giacente su un terreno morbido e erboso, che sottolinea come sia comodo e piacevole abbandonarsi alla voluttà. Dunque il Cardinale ha scelto il suo iter giusto e razionale, lontano dal vaso, dai mali e lungi da quell’ottener desiderio a cui allude Camillo nonchè già Origene, citando il vaso come piacere funesto al pari del rosso pomo di Eva. Non è un caso, poi, che la Pressoyre, descrivendo l’emblema del De Bray, sostenga che è la fortuna demoniaca e malvagia ad essere rappresentata di contro alla Provvidenza divina, intendendo come la buona fortuna sia una prerogativa della Provvidenza. Si può concludere che nel coperto del de’ Rossi, il Cardinale si allontana da una fortuna malevola, da un destino funesto, insidiato dai mali terreni, per avvicinarsi razionalmente ad un destino retto ed ascendere alla luce della Provvidenza. In base a questa possibile versione non solo al fine del significato è importante lo scudo ma anche il vaso come male che riecheggia la camilliana Pandora.

Nel Rinascimento, a seguito di un errore di Erasmo da Rotterdam (14), il pìthos di Pandora è stato trasformato in una pisside o piccolo vasetto. Ed è così che la fanciulla già tanto ambigua prima del Cinquecento, è diventata ancora più equivoca, venendo confusa con Psiche. L’errore di Erasmo è comprensibile per l’analogia narrativa ed iconografica dei due miti, evidente, ad esempio, nel disegno di C. A. Teunissen (15) o nel Trionfo di Psiche di Raffaele Volpato alla Farnesina.

Pandora, dopo essere stata assente nella tradizione medievale, ricompare, attinente all’idea esiodea- camilliana, nei ruoli di Psiche, di Fortuna, di Povertà, di Eva. Presumibilmente, nella sua versatilità, il fatto che il suo vaso, o pisside, sia stato equiparato, fin dai tempi antichi, al frutto proibito costituisce l’eterno fascino del suo mito.

 

Note e Bibliografia

1 Esiodo, vv. 57-101 da Le Opere e i giorni.

2 Artur Schopenhauer in Parerga und Paralipomena, cfr. 200, Mythologische Betrachtungen; cit. Panosfky, favola 54 di Babrius, p.4 Il vaso di Pandora, riedito da 1958 da Einaudi nel 1992; Macedonio di Tessalonica in Anthologia Palatina, X, epigramma n. 71.

3 A questo proposito si può notare un incisione negli Emblemata, II, di Giulio Bonasone Epimeteo apre il vaso di Pandora da cui escono le virtù, p. 114, fig. 193; riportato da Panosfky, Torino, ed. Einaudi, p. 88, fig.39.

4 L’ambiguità di Pandora, quale dea del bene e del male, è notata da Piero Pucci in Il mito di Pandora in Esiodo, in Il mito greco, pp. 201-228. Si veda, inoltre, l’incisione di Giulio Bonasone in Emblemata, I, p.26, fig.191, in Panosfky, ed. Einaudi p. 57, fig.27.

5 Plinio, Naturalis Historia, XXXVI, 5, 4; Igino, Fabulae, 142; Fulgenzio, Mythologiae, 46, 82; Porphyrionis Commentarii in Horatium, a cura di S. Mayer, Leipzig 1874, p.7; Tertulliano, De corona militis, VII, in Patrologia Latina, vol. II, col. 84; Gregorio Nazianzieno, Adversus mulieris se nimis ornantes, II, pp. 115 ss., in Patrologia Graeca, vol. XXXVII, col. 891; Origene, in Originis Adamanris, Basel 1536, p. 642; Goethe, Studi relativi all’interpretazione di Pandora, in Paulys Real-Encyclopaedie, vol. XVIII.

6 Giulio Camillo, L’Idea del Theatro, a cura di Lina Bolzoni, Palermo, 1991.

7 Panosfky, op. cit., p.67 da Emblemata.

8 Dall’Ignoranza cacciata del Rosso hanno preso spunto per le loro incisioni Renè Boyvin L’Ignoranza cacciata in Il rosso Fiorentino e Antonio Fantuzzi per The Enlighteument of Francis I in Art in Fontanebleau.

9 David Franklin, Rosso in Italy, Pietà (incisione), p. 182, fig.145; Pietà (affresco).

10 Augusto Gentili, Da Tiziano a Tiziano. Mito e allegoria nella cultura veneziana del Cinquecento, in ID., Il mito nell’opera tarda di Tiziano, Milano 1980, p. 108.

11 C. Bologna in Esercizi di memoria, p. 447 da H.E. Wethey, The paintings of Titian, London 1969-1975, scrive Bologna: "Fino al 600 in Spagna, nella collezione dell’imperatore spagnolo a Venezia, D. H. De Mendoza si trovava un libro, il più straordinario forse della storia editoriale, contenente insieme al testo del Theatro camilliano ben 201 acquarelli di Tiziano, amico di Camillo".

12 Sylvia Pressoyre, L’emblème du Naufrage à la Galerie Francis Ier, in Art in Fontainebleau p. 130.

13 A.Gentili, I Giardini di contemplazione. Lorenzo Lotto 1503/12 con la collaborazione di M. Lattanzi e F. Polignano, Roma del 1985, p. 84. Id., Da Tiziano a Tiziano. Mito e allegoria della cultura veneziana del Cinquecento, in Il giorgionismo e il primo Tiziano, Milano 1980, pp. 49-53 di Virtus e voluptas.

14 Cit. Panofsky in Vaso di Pandora, p. 17 da Erasmo da Rotterdam, Adagiorum Chialiades tres, I, CCXXXIII, 1508.

15 Disegno di C. A. Teunissen, in Panofsky, Psiche di fronte a Persefone, ed. Einaudi, p. 24; la statua Il trionfo di Psiche di Adrian De Vries al Louvre (Panosfky, op. cit., p.21); L’Apoteosi di Psiche di Raffaele Volpato alla Farnesina, dove Psiche risulta iconograficamente identica alle rappresentazioni di Pandora, ritratta nella sua discesa verso gli uomini.

 

 

 

 

Giasone ed il dono del Vello d’oro

 

 

di Natascia Moroni

 

La leggenda del Vello d’oro e dell’impresa di Giasone, subisce, dopo la fioritura in terra ellenica, diverse contaminazioni, in particolare con miti astrologici d’origine orientale, probabilmente egizi, ed indoeuropei.

La vicenda del montone Crisomallo, dal vello d’oro, sacrificato per riconoscenza agli dei da Frisso, è alla base della "nascita", per gli antichi, della costellazione dell’Ariete. Questa, precedente tutte le altre costellazioni dello zodiaco e foriera di primavera, fondamentale per la fertilità dei campi e la buona riuscita dei raccolti di tutto l’anno, in quanto "prima" , diviene per conseguenza, simbolo estremo del potere regale.

In quest’ottica quindi, la conquista del Vello, appeso ad una quercia e protetto da un enorme serpente che non conosce sonno, da parte di Giasone, e più in generale l’intero mito, assumono molteplici significati. All’interno del racconto stesso, Giasone conquisterà per lo zio Pelia, ma poi in realtà per sé, una legittimazione del potere regale che effettivamente questi non ha (egli è infatti illegittimo fratello di Esone e quindi usurpatore del trono di Iolco) e di fatto, sarà proprio con intenti celebrativi e legittimisti che la rappresentazione di tale mito ricomparirà successivamente nell’arte.

Dall’antichità classica al Medioevo , l’utilizzo iconografico del mito arriva fino al Rinascimento e lo supera . Nel 1663 poi, il primo Prix de Rome è vinto proprio da un dipinto che, attraverso il tema di Giasone, esalta le azioni eroiche del re Luigi XIV. La Conquista del Vello d’oro di Pierre Monier, propone il mito di Giasone come antico prototipo di valore e coraggio; del resto, un commentatore d’Ovidio contemporaneo all’artista, Pierre du Ryer, nella sua moralizzazione delle Metamorfosi, interpreta tale mito come allegoria di virtù, e vede nel vello in particolare, un simbolo d’onore e gloria.

In effetti il dono dell’ariete dal vello d’oro da parte di Mercurio a Elle e Frisso, agli uomini, viene, come il divino Camillo scrive, nella mistica philosophia e alchemicamente, interpretato come dono della deificazione, come trasformazione alchemica nel divino, nell’oro, nell’incorruttibile. D’altronde, Giasone, nel suo viaggio con gli Argonauti, attraverserebbe con le sue peripezie, le fasi di purificazione per arrivare, attraverso la magia-opus alchemico di Medea, all’oro, splendido simbolo di purezza e immortalità, perenne motivo di lotta per il genere umano.

 

 

 

 

Le fanciulle di Giulio Camillo, l'Occasio e i Hieroglyphica di Valeriano

 

di Alessandra Di Croce

 

"La fanciulla co’ capelli levati verso il cielo, così é finta da noi percioché l’uomo secondo Platone, é arbore rivolto, ché l’arbore ha le radici all’ingiù et l’uomo le ha all’insù. (...) sì come l’arbore per le radici sue tira a sé l’humor nutritivo della terra, così la barba et i capelli del nostro huomo interiore tiri la rugiada, cioè l’humor vivificante, da gli influssi de’ sopracelesti canali, onde ne segue tutto il vigore."

 

L’immagine della fanciulla coi capelli levati, che la Bolzoni definisce dotta e misteriosa variazione dell’iconografia della Fortuna/Occasione, potrebbe forse avere tutt’altra origine rimandando anche ad un diverso ambito di significati; a ben guardare, l’unica somiglianza tra la Fortuna e l’inedita iconografia camilliana, é data dai capelli, somiglianza che peraltro non mi sembra poi così calzante: a fronte della generica frase di Camillo, capelli levati verso il cielo, l’Occasione é precisamente caratterizzata dal ciuffo fluttuante con cui solo la si può afferrare, ma anche dai piedi alati che poggiano su di una palla, simbolo di estrema instabilità, o da una nave in balia di un mare tempestoso, che nel nostro caso non compaiono. La figura camilliana é invece piuttosto avara di attributi specifici, e sembra insistere soprattutto sul dettaglio dei capelli, la cui importanza é sottolineata anche da rimandi alla Scrittura; essi sono per l’uomo come le radici per gli alberi, (e non a caso Camillo riprende la metafora platonica per cui l’uomo è albero capovolto con le radici rivolte verso l’alto), i canali tramite cui passa il nutrimento, simbolicamente rappresentato dalla rugiada, "cioè l’humor vivificante" proveniente dai sopracelesti ruscelli.

Mi sembra quindi che gli unici elementi a disposizione per un’analisi dell’oscura iconografia siano i capelli e la rugiada, entrambi presenti nella tradizione ed ampiamente utilizzati: già in Orapollo il cielo stillante rugiada era il geroglifico dell’educazione, e successivamente il Ripa utilizzerà la medesima immagine a significare la Dottrina: " il cadere dal cielo gran quantità di rugiada, nota , come racconta Oro Apolline, la dottrina perché, come essa intenerisce le piante giovani, et le vecchie indura, così la dottrina gl’ingegni pieghevoli con il proprio consenso arricchisce di se stessa, et altri ignoranti di natura lascia in disparte". I capelli rimandano genericamente al rapporto uomo/Dio: se Origene e Girolamo ci spiegano che sono metaforicamente parti dell’anima, tratti dello "huomo interiore", Valeriano nei suoi Hieroglyphica dice che i capelli sono i pensieri dell’anima e se è scritto "capillos capitis nostri numeratos esse", ciò vuol dire che tutti i nostri pensieri sono conosciuti e scoperti a Dio .

Siamo insomma in un circuito di significati, educazione/dottrina/rapporto col divino, ben lontani dall’ambigua valenza positiva/negativa dell’infida dea bendata; tanto più che la misteriosa fanciulla simboleggia nel Theatro camilliano, dove nulla è casuale, il vigore, la forza, sia fisica che spirituale, e la verità. Si può allora ricordare che è proprio la forza morale e spirituale, che l’uomo conquista grazie ad un faticoso percorso educativo e di studio, insieme alla prudenza, a permettergli di resistere alle false lusinghe ed ai subitanei rovesci della Fortuna; così infatti Marsilio Ficino, in un’epistola a Giovanni Rucellai viro clarissimo, esorta: "buono è combattere colla fortuna coll’armi della prudenzia, pazienza e magnanimità; meglio è fugire tale guerra. Tutto questo faremo, se s’accorda in noi potienza, sapienza e voluntà". Mi sembra quindi che la Fortuna, demone prima che divinità, poco abbia in comune con la nostra fanciulla dai capelli levati, iconograficamente, ma soprattutto a livello di significato e che non sia corretto ipotizzare uno stretto rapporto fra le due figure; forse è più giusto pensare ad una costruzione ex novo del Camillo, nata in tutt’altra sfera di idee e concetti.

Assieme alla fanciulla coi capelli levati, Camillo finge anche una fanciulla con i capelli tagliati, a significare "tutte le cose opposite, e cioè deboli"’ .

E’ poi da sottolineare che entrambe le immagini camilliane, piuttosto rare, vengono riutilizzate tali e quali e con il medesimo significato da Celio Augusto Curione, nei due libri di geroglifici aggiunti all’edizione del 1567 degli Hieroglyphica del Valeriano, da lui curata: "Virgo capillos habens erectos; Virgo abscissis capillis, imbecillitas et mors".

Ma ciò che ritengo effettivamente notevole è che le due figure femminili vengano spiegate con frasi che ricalcano perfettamente il testo dell’ Idea del Theatro, tanto da far supporre una conoscenza diretta del libro di Camillo da parte del Curione, che pur avendo vissuto in Svizzera (essendo il padre fuggito dall’Italia per motivi religiosi), venne in Italia e si fermò a Bologna dove perfezionò gli studi umanistici, negli anni a cavallo del 1558.

 

 

 

 

Le Tre Grazie camilliane: un'iconografia insolita nella Storia dell'Arte

 

 

di Barbara Gilone

 

Nell’antro di Giove era contenuta l’immagine delle Tre Grazie le quali, ci raccontava Camillo..."erano dagli antichi talmente dipinte che l’una teneva il viso nascosto, et questa significava il beneficio del dante che non dee esser palesato da colui che lo dà. L’altra il mostrava tutto, et significa il ricevitor del beneficio, a cui si appartiene di mostrare il viso, cioè palesar la grazia ricevuta. La terza. parte ne asconde et parte ne mostra, et significa il beneficio compensato, mostrando il ricevuto et celando il dato ..."

E’ questa una iconografia abbastanza insolita nella Storia dell’Arte dove siamo abituati a vedere le Tre Grazie unite in una danza che ne mostra una di spalle e le altre due rivolte verso lo spettatore.

Riguardo a ciò che afferma Camillo, sugli antichi che erano soliti raffigurare le Tre Grazie nel modo da lui descritto, la Bolzoni, curatrice dell’Idea del Theatro del Camillo stesso, nota che tale iconografia, secondo Lu Beery Wenneker non trova riscontro nell’antichità classica, sembra invece basarsi solo sulla tradizione letteraria, come ad esempio Seneca nel De Beneficiis e indica infine come immagine più vicina all’iconografia proposta dal Camillo quella delle Tre Grazie dipinte dal Correggio a Parma per la Camera di San Paolo.

Ad un’analisi più attenta risulterebbe più attinente la raffigurazione che di questo tema fece il Romanino nel Palazzo del Buonconsiglio a Trento (1531-1532), in una lunetta della Loggia dei Leoni dove le Tre Grazie, sedute su una balaustra si tengono per mano e una tiene il viso nascosto, l’altra mostra tutto il viso e la terza in parte lo nasconde e in parte lo mostra.

Le Tre Grazie erano tutte nude e non essendo raffigurate secondo la tradizionale composizione, non rispondevano a quel principio di venustà classica più volte disatteso dal Romanino nel suo ciclo.

Il committente Bernardo Cles criticò infatti alcune figure create dalla fantasia dell’artista non solo per la mancanza di proporzioni o per la sconvenienza di alcuni nudi ma anche per la novità iconografica introdotta nel Carro di Fetonte trainato da tre cavalli anzichè dai quattro tradizionali.

Sappiamo inoltre che Romanino fu lasciato libero di ideare ed eseguire questo ciclo sia per la continua lontananza dell’arcivescovo, impegnato in attività diplomatiche per gli Asburgo, sia perchè riuscì a portar via al Dosso la commissione per la decorazione della loggia, facendo mutare idea all’esigente cardinale sul tipo di raffigurazione da eseguire.

Dunque anche l’insolita iconografia delle Grazie, così fedelmente rispondente alla descrizione del Camillo, potrebbe essere un’ideazione del Romanino, come d'altra parte dello stesso arcivescovo di Trento: il quale, per i suoi studi e le sue amicizie, avrebbe potuto più facilmente avvicinare le idee dell'inventore del Teatro della Sapienza.

Cles infatti compì gli studi di Retorica tra il 1504 e 1511 all’Università di Bologna in un ambiente che rifletteva gran parte del mondo di allora, sia per i personaggi importanti che vi si potevano incontrare sia per la ricca circolazione di idee. Preme ricordare inoltre che anche Giulio Camillo intorno agli anni ‘20 insegnò retorica probabilmente a Bologna o Ferrara.

Tornando a Bernardo Cles, sempre negli anni universitari potè stabilire amicizie e crearsi una fitta trama di relazioni epistolari con uomini di primo piano. Abbiamo infatti lettere dell’Aretino che gli chiede notizie sul proseguimento dei lavori del "Magno Palazzo" o quella in data 15 novembre 1534 di ringraziamento per un prestito di denaro e il dono di alcune medaglie con l’effigie del Cles. Quest’ultimo fu comunque una figura eminente sul piano religioso e politico nell’Europa della prima metà del ‘500, ricoprì molte cariche diplomatiche per la casata degli Asburgo a cui si legò sempre più dopo l’elezione di Carlo V da lui sostenuta. Infine anche Erasmo da Rotterdam non esitò a farsi aiutare dal Cles nel discernimento degli eventi politici.

Questi spunti possono a nostro avviso essere oggetto di ulteriori ricerche sui rapporti di Giulio Camillo con il Cles e sulla connessione dell’opera del Romanino con l’idea del Teatro della Sapienza.

 

 

 

Giunone sospesa: un'immagine tra erudizione e geroglifico

 

di Nicoletta Maggi

La figura di Giunone sospesa si trova nell’Idea del Teatro di Giulio Camillo nella colonna di Giove in quattro diversi gradi. Non è casuale il fatto che sia abbinata a questo pianeta, sia per le parentele cosmogoniche tra le due divinità, sia nella lettura astrologica di Giove inteso come pianeta bonario e tranquillo. Quello che interessa è che questa è una immagine un po’ anomala, poco sfruttata sia nell’arte che nella letteratura.

Giunone, punita da Giove, è sospesa tra cielo e terra con due incudini legate ai piedi, ma la causa della punizione varia a seconda delle tradizioni. Per la maggior parte di esse il castigo va ricondotto alla gelosia di Giunone nei confronti del suo poco fedele sposo. Per vendetta, infatti, Giunone parteggiò per i Giganti quando questi ultimi decisero di combattere contro gli dei dell’Olimpo per riscattare i Titani dall’incatenamento voluto da Giove. Il re degli dei punì Giunone per l’affronto appendendola al soffitto dell’Olimpo. Sempre per gelosia Giunone s’accanì contro Eracle, figlio dell’adulterio di Giove. Quando la dea rovesciò la nave dell’eroe che ritornava dalla conquista di Troia, accorse in aiuto del figlio e la castigò. Un’ultima versione, infine, che si discosta un po’ dalle altre, vede Giunone, insieme con Poseidone ed Apollo, nel tentativo di usurpare il re degli dei del suo potere. Ma quando Giove riuscì a liberarsi dai nodi che lo tenevano legato al suo letto, scatenò la sua ira ed appese Giunone tra cielo e terra come monito contro i tentativi di congiura. Questa è la versione omerica della punizione (Iliade, XV 17-20). Il ricorso ad una versione così antica è molto interessante. E’ infatti in un clima di fortissima erudizione che Giulio Camillo scrive la sua opera e ancor di più è interessante scoprire attraverso quale canale riesca a risalire ad Omero.

Tutte le interpretazioni del passo omerico, sia nell’antichità che nel rinascimento, lo spiegano, non come un ammonimento contro quella disdicevole condotta, ma come un allegoria cosmogonica, che esprime l’equazione Giunone = Aria. E’ una tradizione che si discosta da quella più ampia dei carri trionfali delle grandi rappresentazioni in cui Giunone è spesso affiancata da un pavone con elementi aerei o magari dalle sue ninfe. Qui siamo incanalati in una visione molto più ermetica, di difficile fruibilità, che arriva a Giulio Camillo attraverso le letture di Cornuto, Eraclito Pontico, Pseudo Plutarco, Gyraldus, Pierio Valeriano, che concordano nello spiegare Giunone con l’elemento Aria, le catene d’oro che la tengono sospesa (che equivarrebbero alle stelle del cielo) all’elemento Fuoco e le due incudini con i due più pesanti elementi: l’Acqua e la Terra.

Non è un caso infatti che la nostra Giunone sospesa appaia nel Theatro per la prima volta nel grado del Convivio, che secondo il paragone con la Genesi si identifica con il primo giorno della creazione in cui il Caos si divide nei quattro elementi semplici. Sono presenti infatti sempre nel Convivio, ma in diverse colonne, anche gli altri elementi e rispettivamente: l’Acqua sotto la Luna, il Fuoco sotto Marte e la Terra sotto Saturno.

Ad ogni modo una rappresentazione figurativa che include i quattro elementi e in cui l’Aria è personificata da Giunone sospesa esiste: si trova nel Convento di S. Paolo a Parma, nella parete est della Camera della Badessa, affrescata dal Correggio tra il 1518-19. Camillo in quegli anni insegnava retorica tra Bologna e Reggio Emilia; si può quindi avanzare una solida ipotesi che abbia visto l’affresco e ciò costituirebbe un passaggio importante verso la scelta di un’immagine così poco sfruttata e di grossa valenza ermetica.

Un altro riscontro iconografico si può trovare nei Hieroglyphica del già citato Valeriano. Sotto la voce "Incudine" viene qui infatti ripreso il passo omerico della punizione di Giunone, con una xilografia. Ma è in una appendice al testo di Valeriano che troviamo l’immagine più aderente alla descrizione che Camillo fa del mito: il De Trattati de’ Ieroglifici di Celio Augusto Curione. In una xilografia di questo testo appare il particolare di un piede più ritirato dell’altro per la differenza di peso tra l’Acqua e la Terra. L’illustratore pensò bene di non raffigurare la pietra attaccata al piede sollevato, che significa l’Acqua, nascondendo il piede della gamba rialzata dietro l’altra gamba. Questa mi pare sia, comunque, la rappresentazione figurativa che maggiormente si confà alla descrizione camilliana del mito, in cui il particolare della gamba, stando alle ricerche fino ad oggi da me condotte, appare per la prima volta. Si stringe quindi un nodo tra Giulio Camillo e l’interpretazione geroglifica del mito, che attraverso il canale dell’erudizione ermetica lo ha condotto fino ad Omero.

 

 

 

Prometheo simbolo di tutte le arti in Giulio Camillo

 

 

di Luana Nardi

 

Prometheo è il titano che osò sfidare gli dei, rubando il fuoco celeste. Per questo fu legato ad un monte e liberato solo grazie alla clemenza di Giove. Narrato così il mito si risolverebbe in poche considerazioni. In realtà, fin dall’antichità il mito è stato variamente interpretato. Esiodo vede in Prometheo il distruttore dello stato iniziale di felicità; nel Protagora di Platone troviamo la storia di Prometheo così come ci viene riportata in Camillo. Prometheo è presente nell’opera di questo filosofo, sotto due aspetti: legato ad un monte con un anello al dito; come simbolo di tutte le arti. Mentre la tradizione classica riporta, su vasi attici e laconici, Prometheo torturato dall’aquila o liberato da Ercole, nel mondo latino prende piede l’idea del Titano creatore di uomini. Ovidio apre le Metamorfosi con questa immagine. Nel mondo greco-romano del I sec. d. C. il mito è visto come una sorta di "Genesi secondo i Gentili". Il Sarcofago Capitolino combina in sè: l’episodio del furto del fuoco, la liberazione di Prometheo e l’atto della creazione secondo il dualistico concetto platonico di corpo e anima. Nel XIV secolo Prometheo animatore di uomini appare in illustrazioni dell’Ovide Moralisé: in un manoscritto del 1400 ca. della biblioteca Nazionale di Parigi, la Creazione è rappresentata in quattro scene e Prometheo è in atto di animare Adamo mentre Dio crea il mondo.

Questa fusione biblico-mitologica corrisponde alla morale interpretazione che vede in Prometheo una prefigurazione del vero Dio. Boccaccio nel Genealogia deorum gentilium distingue due Prometheo: il Dio in sè e il re assiro che imparò l’astrologia nella solitudine del monte Caucaso e poi la insegnò al suo popolo. Come Boccaccio vede in Prometheo l’esperienza spirituale del sapiente, così De Bovelles nel Liber de Sapiente (1509), usa il mito per spiegare il processo mediante il quale la natura umana passa attraverso gli stati di: essere, vivere, sentire, intelligere. In Achille Bocchi il significato filosofico muta in simbolo religioso. Nelle Symbolicae Quaestiones, il Bocchi menziona Prometheo come esempio della conoscenza acquistata attraverso l’illuminazione della fede, come simbolo di rapimento mistico. Questa suprema idealizzazione del mito, è però confinata in un contesto filosofico-umanistico. Nelle fonti popolari il pio Prometheo è sostituito da Prometheo arrogante astrologo. Nell’edizione illustrata del 1531 dell’Emblematum Liber di Alciati, Prometheo è rappresentato a terra torturato dall’aquila. Due pannelli di cassone di Pietro di Cosimo illustrano il mito in tutte le sue sfaccettature: dalla creazione dell’uomo, all’ascesa in cielo sotto la guida di Minerva, nel pannello di Monaco; dal furto del fuoco, alla tortura in quello di Strasburgo. Un’alta intensità espressiva è contenuta in un disegno del Parmigianino, oggi a New York, dove il Titano al centro della composizione raggiunge simultaneamente con un braccio il carro del sole e con l’altro trasferisce lo spirito animatore sull’uomo, modellato a sua immagine. In un affresco eseguito nel ‘500 da Giambattista Zelotti a Vicenza nello studiolo di Palazzo Valmarana, Prometheo è assistito da Minerva, in atto di animare l’uomo. In un altro palazzo, questa volta a Siena, in palazzo Bindi-Segardi, troviamo Prometheo formatore di uomini. La scena all’interno di un tondo racchiuso nel pennacchio della volta, è in una sala affrescata dal Beccafumi tra il 1524 e il ‘25 circa. Sempre nel XVI secolo un testo del Cartari Immagini dei Dei degli antichi, suggerisce un’interessante comparazione tra Prometheo e gli artisti: Prometheo ascende al cielo con l’aiuto di Minerva al fine di prendere il fuoco necessario alle arti. Come padre di tutte le Arti, Prometheo è rappresentato in atto di ricevere doni dalla Natura, da Francesco Morandini nel 1570, nello studiolo di Francesco de’ Medici in Palazzo Vecchio.

Molto forte fu anche l’influenza della rappresentazione della tortura, nel XVI secolo. E' del 1540 il soffitto del Seminario Arcivescovile di Ferrara, dipinto dal Garofalo: qui Prometheo è sulla spiaggia compianto da Oceano. Risale al 1558 un’incisione di Sebastiano de Valentinis di Udine, dove il Titano è in atto di subire la propria tortura con un’eroica esaltazione da visionario. Il mito è ricorrente anche nella Libreria Marciana di Venezia, opera della bottega del Sansovino. Prometheo è qui rappresentato in senso negativo come principale causa dei mali della Terra.

L’immagine di Prometheo con un anello al dito, simbolo di gratitudine, come viene descritta da Camillo, è molto rara. Plinio nella Naturalis Historia cita Prometheo come colui che insegnò agli uomini ad indossare anelli. Nel Liber Chronicarum di Hartman Schedel (1493) Prometheo tiene in mano un anello con una grossa pietra. Di particolare rilievo è il fatto che Pierio Valeriano nei Hieroglyphica menzioni Prometheo come simbolo di gratitudine, se indossa un anello. La xilografia corrispondente mostra un gigante in atto di afferrare fulmini di luce. Un’immagine molto significativa è quella di un Savio dipinto da Giuseppe della Porta nella Libreria Marciana: si tratta di un orientale con una statua abbozzata. Ivanoff vi riconosce Prometheo come astrologo assiro che avrebbe plasmato il primo uomo e insegnato l’uso del fuoco. A destra del dipinto è riconoscibile un cerchio: essendo Prometheo inventore dell’anello, questo diventa un ulteriore emblema del Titano al pari della statua. In Fontainebleau, nella Galleria di Francesco I, Prometheo è presente nell’affresco rappresentante l’eterna giovinezza persa dagli uomini, in atto di rubare il fuoco al carro del sole, opera di Rosso Fiorentino ed assistenti (1535-40). La favola risale a Nicandro.

 

 

 

 

Prometeo: dal furto del fuoco a Signore degli anelli.

Memorie tra simboli, metafore ed immagini

 

 

di Ursula Benvenuti

 

Se come disse Anassagora "Tutto è in tutto", pur analizzando un singolo tassello di un insieme si potrebbe raggiungere una totale conoscenza o parte di essa. Prendendo in considerazione il mito di Prometeo ed il suo sviluppo nelle varie epoche, è stato possibile sperimentare un tentativo di comprensione dell’immaginario simbolico e figurativo del Theatro di Giulio Camillo. E’ una figura della mitologia greca, figlio del titano Giapeto. Creò il primo uomo con l’argilla, rubò il fuoco agli dei per donarlo all’umanità e fu per questo punito da Giove che lo fece incatenare ad una roccia del monte Caucaso, dove ogni giorno un’aquila gli rodeva il fegato. Venne poi liberato da Ercole. Il mito fu variamente interpretato già al tempo di Eschilo, dove si vedeva nel fuoco non l’elemento naturale ma la scintilla della sapienza divina; gli autori cristiani interpretarono il mito come una prefigurazione del Salvatore e della sua opera di redenzione: il supplizio di Prometeo legato alla roccia anticipava la Crocifissione. Per Giulio Camillo, che assegna al mito tutto il settimo grado del teatro, rappresenta il simbolo delle arti, poiché la facella accesa manifesta la scintilla dell’ispirazione. Una delle tante chiavi di lettura per l’interpretazione di questo concetto è riscontrabile nel Protagora di Platone. Svariate furono le rappresentazioni figurative del mito di Prometeo, prima e dopo la pubblicazione dell’Idea del Theatro: da Piero di Cosimo al Rosso Fiorentino di Fontainebleau nella "Fontana della giovinezza", allo Zelotti di Palazzo Valmarana a Vicenza; da ricordare inoltre la confusione di attribuzione per la similarità formale tra Tizio e Prometeo in Tiziano e Michelangelo. Tra alchimismo, neoplatonismo, cabalismo e teologismo è interessante notare come nel quinto grado dell’Idea del Theatro si presenti anche una versione piuttosto rara del nostro mito; Prometeo come inventore dell’anello. E’ un tipo di simbologia già affrontata nella Naturalis Historia da Plinio e ripresa poi nel Liber Chronicarum del 1493 da Hartman Schedel, dove in entrambi i casi la divinità possiede l’attributo del cerchio. Pietro Valeriano invece, menziona Prometeo nei suoi Hieroglyphica intorno al 1556, come simbolo del pentimento divino o se indossa un anello, come emblema di gratitudine. Nello stesso modo viene interpretato da Giulio Camillo nel sesto grado del teatro sotto i talari. Un’immagine nella Libreria Sansovino a Venezia di Giuseppe della Porta detto il Salviati. E’ la figura di un orientale con accanto una statua abbozzata e con un cerchio sulla destra posato al suolo. Secondo il concetto evemerista medievale, Prometeo sarebbe stato un personaggio storico realmente vissuto, per l’appunto un astrologo assiro; ma anche "Signore degli anelli", il che avrebbe dovuto spiegare il mito del suo incatenamento sulla cima del Caucaso. A questo punto si può riportare la concezione di Boccaccio secondo la quale i Prometei sarebbero stati due:

- il primo e vero potente Dio che produsse l’uomo dal fango della terra;

- il figlio del re Giapeto che, per amore degli studi di astrologia andò in Assiria dove portò i costumi degli uomini civili.

Forse l’abbozzo della statua nell’immagine, rappresenta appunto l’uomo primitivo prima di avere il dono della ragione da Minerva.

Già nelle Metamorfosi di Ovidio il marmo era emblema di Prometeo. Interessante e doveroso è anche aprire una parentesi sulla vita dell’artista preso in considerazione. Il Salviati infatti non fu soltanto un pittore tosco-veneto, ma anche un rinomato astrologo fra gli scienziati di Padova e Venezia. Si occupò inoltre di problemi teorici e matematici. Fu forse solo un ponte, forse un tramite della cerchia filosofica in cui gravitava il Camillo, ... o solo una coincidenza ...

 

Bibliografia:

  1. H. Roscher, Ausfurliches Lexicon der griechischen und romischer Mythologie.

K. Kerenij, Gli Dei ed eroi della Grecia, Milano 1989.

Artemis, Lexicon Iconographicum Mithologie classicae, Zurigo - Monaco 1987.

E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino 1975.

N. Ivanoff, Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del cinquecento, "Emporium" 69 (1963) pp. 51-58.

O. Raggio, The Myth of Prometheus, Journal of Warburg Institute 21 (1958) pp. 44-62.

AA. VV., Giuseppe Salviati: Pittore e Matematico, "Arte Veneta" XXX (1976) pp. 219-224.

 

 

 

Dafne nell'iconografia classica a simbolo del boschivo

 

 

di Claudia Quintieri

 

Al nome della ninfa Dafne immediatamente si affianca nella memoria quello del dio Apollo: perché loro sono i protagonisti di una storia d’amore dal finale tragico e affascinante, immortalata dalla famosa e splendida statua del Bernini.

Tutto ebbe origine da una disputa fra l’orgoglioso Apollo e il più pungente Cupido. Quest’ultimo offeso dal primo riguardo le sue capacità di arciere volle dimostrare il suo potere scagliando la freccia dorata e appuntita dell’amore su Apollo e la freccia dell’odio, spuntata e carica di piombo, su Dafne, provocando i due effetti contrari. Ma, ancora prima volle ferire Apollo con queste parole: "Febo, il tuo arco può trafiggere ogni forma di vita, ma sarà il mio a colpire te, e se tutti gli altri esseri si piegano davanti al tuo nume, tanto maggiore sarà la mia gloria della tua". In Apollo nasce un grande amore non corrisposto e nonostante ciò il dio decide di soddisfare comunque il suo desiderio. Respinto si mette all’inseguimento della fanciulla per i boschi, ma quando è sul punto di raggiungerla Dafne disperata invoca l’aiuto del padre Peneo o, secondo una diversa tradizione, di Gea, di cui era sacerdotessa e forse figlia. A questo punto la ninfa si trasforma in alloro sotto gli occhi impotenti di Apollo.

Nel frattempo vi è anche un episodio intermedio in cui il giovane Leucippo si invaghisce di Dafne e per avvicinarsi a lei si traveste da donna, forse sotto maligno consiglio di Apollo, mischiandosi alle compagne della ninfa. Queste decidono di fare i loro riti nude, lo scoprono e lo uccidono.

Altre fonti e tradizioni riportano leggende diverse .

Alloro è ciò che rimane di Dafne e "alloro" è il significato del nome Dafne. Questa pianta diviene così un attributo della figura di Apollo che vi ricorreva, come simbolo dell’ispirazione poetica e della gloria, per intrecciare corone che poneva sui capelli e farne dono ai suoi fedelissimi, tra i quali, lo ricordiamo, si annoverano i più importanti imperatori.

L’iconografia classica del mito si ritrova in diversi esempi romani fra cui alcuni affreschi pompeiani. In questa è presente Dafne che, mentre scappa inseguita da Apollo, si trasforma in alloro alzando al cielo le mani già diventate ramoscelli; oppure fra i due si intromette la presenza di Peneo che spiega ad Apollo l’accaduto.

La versione testuale che viene maggiormente ripresa nel rinascimento è quella raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, che durante il medioevo subisce diverse interpretazioni in chiave moralizzata. Dafne diventa pianta della castità perché fugge le insidie dell’amore; simbolo della verginità, perché figlia di un dio fluviale, è un temperamento freddo. L’alloro rappresenterà la virtù di Dafne. A proposito, possiamo citare il Trionfo della pudicizia, sonetto del Petrarca in cui l’alloro assume l’accezione relativa a Dafne come simbolo di virtù e castità; e mentre Laura si impersonificherà in Dafne, il lauro rappresenterà la poesia del Petrarca.

Nella storia dell’arte Dafne come virtù sublimata sarà presente nelle lotte moraleggianti fra vizio e virtù di cui troviamo esempio negli affreschi del Mantegna e del Perugino per la villa di Isabella d’Este.

Altri esempi rinascimentali del mito possono essere: l’affresco di Bernardino Luini Apollo e Dafne per la villa della Pelucca (1521-1523): sulla sinistra compare Dafne per metà trasformata in albero, mentre Apollo sdraiato su di un prato a destra ascolta Peneo che esce dalle acque del fiume che separa i due protagonisti della vicenda. Oppure un particolare de La Calunnia di Apelle di Botticelli (1494 -1495), dove sono presenti solo Apollo e Dafne in un rilievo sulla seconda colonna a destra del portico fittizio.

Nell’ambiente culturale veneziano fra 1400 e 1500 i racconti delle Metamorfosi ovidiane vengono a rappresentare un’età mitica fuori dal tempo storico. Nell’ambito artistico veneziano l’iconografia del nostro mito cambia, sebbene l’immagine conservi il nucleo tradizionale.

La rappresentazione diventa più complessa, anche se segue alla lettera il racconto ovidiano, in un dipinto del 1515 di un pittore veneto sconosciuto. Sulla destra troviamo l’immagine tipica di Apollo che insegue Dafne, mentre sulla sinistra, quasi ad equilibrare il primo piano, vi è Apollo che uccide il serpente; in secondo piano c’è un accenno alla contesa fra Apollo e Cupido e non lontano dal fiume si trova Peneo. Sullo sfondo sopra il fiume la raffigurazione di una città dovrebbe rappresentare, in contrapposizione con il primo piano , il contrasto fra storia e mito. Questo dipinto riprende una incisione della prima edizione in volgare delle Metamorfosi di Ovidio, uscita nel 1497 a Venezia .

Tutti questi elementi, eccetto la contesa fra Apollo e Cupido, sono presenti in una illustrazione tratta da Le Trasformazioni di Ludovico Dolce, del 1568, solo che qui il significato del mito si orizzonta verso una visione più naturalistica. Vi è un grosso pitone simbolo di eccessiva umidità, come di essa sono simbolo le nuvole che incombono sulla scena, Peneo sotto forma di Dio fluviale versa da una brocca le proprie acque sulla terra e nella zona centrale sono presenti Apollo e Dafne.

Questa visione in chiave naturalistica del mito si può ricondurre alla descrizione della nascita del mondo naturale nel libro del Camillo, che si trova nel terzo grado: l’antro. Qui le acque vengono definite come "germinative virtù" che "producono" tutti gli animali sia acquatici che terrestri e "il tutto" sarà "come dir acqua solamente". Mentre nel capitolo precedente il Camillo, seguendo il pensiero neoplatonico, ci ha già spiegato che l’humor, o umidità, è fondamentale per la nascita del mondo, e che esistono vari tipi di humor nei vari livelli, fra cui quello terrestre. E, infine, ad avvalorare questa tesi è il paragrafo in cui Dafne nell’antro viene definita "regina delle umidità "senza le quali non crescerebbe nessuna pianta" .

Una incisione di datazione e autore ignoti, maestro I. B., riprende il naturalismo del Dolce, ma qui sono presenti solo Apollo e Dafne in un rigoglioso bosco. A proposito ricordiamo le parole dell’autore de L’Idea del Theatro che definiva Dafne "simbolo del boschivo". Nella composizione, in alto a destra, salta agli occhi una figura che sembra rappresentare la personificazione di una nuvola , una nuvola appare ben evidente nel cielo, per cui ritorna la simbologia della nuvola riferita all’umidità .

In un terza raffigurazione si può intravedere l’influenza del testo del Camillo: si tratta di una incisione di Liberale da Verona, attivo a Venezia dal 1488, dove sono presenti Apollo e Dafne in un giardino pieno di animali sia acquatici che terrestri, vicino ad un laghetto. Il Camillo aveva definito Dafne simbolo dei giardini e di tutte le arti intorno al legname, sotto il grado di Prometeo.

 

 

L’Allegoria della Prudenza di Tiziano nel Teatro di Giulio Camillo.

 

 

 

di Caterina Bracaglia

 

In quella complessa ed allegorica sede di conservazione del sapere universale che è l’Idea del Theatro, luogo privilegiato della memoria, Giulio Camillo ha posto, tra le tante immagini emblematiche e precisamente sotto l’antro di Saturno, una raffigurazione del Tempo che rimanda la mente ad un quadro di Tiziano del 1565: L’Allegoria della Prudenza.

Del fatto che Camillo, salutato come ‘Divino’ dai suoi illustri contemporanei, fosse notevolmente famoso ed ammirato con riverenza nel secolo XVI, non sembra avere dubbi Frances Yates, la quale riferisce come assodata la conoscenza tra Tiziano e Camillo, frequentatore quest’ultimo, dei circoli artistici e letterari di Venezia. Il quadro assume una anomala posizione all’interno dell’opera di Tiziano, la quale non è di natura così esoterica ed ambigua come in questo caso, definito da Panofsky: ‘unico quadro emblematico mai realizzato da Tiziano’. Esso rappresenta tre volti umani sovrastanti tre teste di animali; il suo significato simbolico e l’evoluzione iconografica sono stati descritti con precisione da Panofsky come una parafrasi visiva di una massima latina scritta sulla doppia triade di teste: ‘Ex praeterito / praesens prudenter agit / ni futuru(m) actionem deturpet’ (istruito dal passato, il presente agisce prudentemente, a meno che il futuro non ne rovini l’azione). Le tre parole: praeterito, praesens e futurum, sono poste rispettivamente sopra le teste del vecchio, dell’uomo maturo e del giovane. La triade umana è l’immagine simbolica della Prudenza, mentre la sottostante triade zoomorfa è la rappresentazione delle tre Forme del Tempo. Si tratta dell’Allegoria della Prudenza come saggia utilizzatrice del Tempo; infatti essa agisce ponderatamente nel presente, in quanto memore dell’insegnamento del passato e riguardosa nei confronti del futuro.

Le due immagini provengono da due tradizioni ben distinte; infatti la triade di volti umani ha un’evoluzione occidentale che ha il suo inizio testuale addirittura in Platone, e che si rintraccia, sia nell’arte che nella letteratura, lungo il Medioevo ed il Rinascimento.

Oltre agli esempi citati da Panofsky, vi sono le allegorie delle virtù affrescate da Giotto nella cappella padovana dell’Arena, che tra l’altro ricordano un’altra allegoria in Assisi. L’immagine femminile della Prudenza legge un libro e prende le misure con un compasso, mentre si guarda in uno specchio; ma ciò che ci interessa sono le sue tre facce delle quali solo due sono visibili: una di giovane donna e l’altra di vecchio barbuto, al fine di indicare che nel suo agire presente, la Prudenza non ignora nè il passato nè il futuro.

Sempre a Padova, nella cappella degli Eremitani, alcuni affreschi perduti del 1370 di Giusto Menabuoi descrivevano la Prudenza seduta in trono, sovrastante Sardanapalo; tutta l’immagine era circondata da iscrizioni che insistevano sulla Prudenza come saggia meditazione sulle tre forme del tempo. Sicuramente per Tiziano non si trattava di inalienabili fonti testuali, ma è interessante ricordare come Panofsky attribuisca un certo peso alla visione, da parte del pittore veneto, della cappella giottesca dell’Arena e di quella degli Eremitani, (anche se per quest’ultima riguardo gli affreschi di Mantegna).

Per quanto riguarda il ‘signum triceps’ zoomorfo, la tradizione è ben diversa: è orientale, e precisamente egiziana. Come tramanda Macrobio (V secolo), esso sembra provenire da una sorta di antico cerbero egiziano, compagno della divinità solare Serapide; le tre teste erano unite nel corpo di un quadrupede avvolto da un serpente (simbolo dell’eternità). Macrobio spiega l’immagine come le tre forme del tempo: il passato, la cui memoria è divorata; il presente, potente come un leone; ed il futuro, adulatore come un cane. Passando attraverso la mitografia medievale, di cui l’intervento del Petrarca non è da trascurare, il ‘signum triceps’ zoomorfo giunge fino al pieno Rinascimento, che come sempre restituisce all’antica allegoria la sua legittima immagine classica.

Riguardo ai riferimenti iconografici e testuali che più potevano avvicinarsi a Tiziano, ed individuati da Panofsky nell’Hypnerotomachia Polyphili del 1499 e nei Hieroglyphica di Pierio Valeriano, lo studioso afferma che il ‘signum triceps’ diventa simbolo non solo del Tempo, ma anche della Prudenza.

È mio avviso utile commentare meglio ciò che è descritto nel Polyphilo (Calvesi, pp. 194 e ss.): il signum triceps, avvolto da un ouroboros, è portato come trofeo nel corteo trionfale di Cupidine, ma poco prima ci sono due satiri sorreggenti due immagini a tre facce umane. Ciò che mi sembra interessante è la vicinanza tra il ‘tricipitium’ egiziano (Tempo) e le tre facce umane (Prudenza). Proseguendo lungo questo cammino, che rintraccia i tasselli di una tradizione iconografica e testuale precedente all’emblematico quadro tizianesco, direi che il più vicino suggerimento, sia temporale che spaziale, possa essere individuato nella Idea del Theatro; qui il simbolo temporale è descritto in tutta la filologica esattezza della fonte di Macrobio, attribuendo ad ognuno dei tre animali la sua valenza simbolica temporale.

A questo punto voglio ricordare la considerazione conclusiva di Panofsky, secondo la quale soltanto in Tiziano si verifica la combinazione delle due immagini allegoriche; in quest’ottica, i riferimenti più significativi che possiamo cogliere sono quelli dell’Hypnerotomachia Polyphili e del Theatro di Camillo; nel primo la vicinanza dei simboli è stringente, mentre la seconda opera è importante per la sua potente presenza nella cultura veneta del 1500, che sicuramente Tiziano conosceva e che potrebbe avergli suggerito il concepimento dell’allegoria. Rischierò di cadere nell’arbitrarietà riportando all’attenzione una frase della Idea del Theatro che segue immediatamente la descrizione della triade zoomorfa: ‘adunque questa imagine contenerà questi tre tempi saturnini et i loro appartenenti’, in cui se con ‘tempi saturnini’ si indicassere le tre teste di animali, con l’espressione ‘i loro appartenenti’, potrebbero essere suggeriti i tre volti umani appartenenti a quei tre tempi, proprio come nel quadro di Tiziano.

 

 

 

 

Le Furie. Erinni / Eumenidi

 

 

di Valentina Bruschi

 

"O Potenze ! Occhi d’incubo ! So che questo cerchio è vostro, voi, le prime a cui mi appoggio, in questo suolo".

Nell’ "Edipo a Colono" di Sofocle, Edipo, mendicante cieco, "camminatore inaridito", esule viandante mortificato e prossimo alla morte, "uomo vuoto, guscio d’Edipo", è giunto al termine del sofferente peregrinare, prossimo ormai a quel bosco sacro di Colono, consacrato alle antiche dee della terra, a Demetra ed alle Erinni, in cui si apre la fossa infera, che gli è stata vaticinata dall’oracolo e verso cui egli si protende bramando di affidarle la sua seconda apoteosi e l’ultimo riposo.

Le dee "occhi d’incubo", le venerate dal tremendo sguardo", sono le Erinni, più avanti definite "dee del profondo", le medesime che nelle "Eumenidi" di Eschilo, molteplici come le teste di Cerbero o i tre capi di Gerione, mostrano una natura persecutrice di "cagne" e velenosa di "serpenti": cagne cacciatrici e serpi dal morso velenoso per il braccato matricida Oreste. Come ha mostrato George Devereux, esse erano in origine lo spettro vendicatore che si materializzava ogni volta che un uomo versasse sangue di un parente o piuttosto, nella fase matriarcale della civiltà mediterranea, il sangue della madre: solo più avanti questi fantasmi della vendetta vennero ridefiniti come spiriti infernali, con una sorta di esistenza continuata nel tempo, ma del tutto inoperosi fino a quando non venivano rianimati e mobilitati da un fatto di sangue tra parenti (1).

Ma l’ambiguità di queste antichissime divinità telluriche non finisce qui. Trasformate in Eumenidi, a sanzione della vittoria del principio patriarcale nella religione e nella società ellenica, non accetteranno mai completamente l’idea che i figli non hanno il medesimo sangue della madre, teoria sostenuta dal radioso Apollo, il dio che nelle "Eumenidi" di Eschilo segna, il suggello di quel trionfo. Al coro che, sgomento, gli chiede come possa egli difendere il matricida Oreste, il terribile Dio di Delfi, Signore degli Oracoli e, da quel momento, Protettore dei Matricidi, sprezzantemente risponde: "Quella che madre appellasi, del figlio non è, non è generatrice: essa è del feto nutrice. É l’uomo soltanto generator: serba la donna a lui, come ospite suo, l’accolto germe, se un iddio nol diserta". Il Dio solare, fiero sostenitore del principio patriarcale e della violenza della ragion di Stato, al pari che coerente detrattore del principio matriarcale e delle ragioni della solidarietà e della tolleranza, trova un valido aiuto nella Pallade Atena, non a caso partorita dalla testa di Zeus, che convince le Erinni a trasformarsi in Eumenidi. "Benevoli" (questo significa Eumenidi) saranno chiamate con intento apotropaico, sostanzialmente per ingraziarsele e non incorrere nella loro collera, ma esse non cesseranno mai di essere Erinni nel profondo. Figlie di Gea, fecondata dal sangue di Urano mutilato, o della Notte, più vecchie di Zeus e di tutti gli dèi olimpici, esse risiedono nell'Erebo profondo, oltre la fatale "soglia di bronzo". Ed esattamente quello è il posto dove giunge Edipo, a Colono: "Quanto al posto preciso dove mette i piedi, è chiamato la soglia di bronzo". Luogo sacro, "inaccessibile, intoccabile, che appartiene alle dee spaventose, figlie della terra e del buio". Edipo, vivente oxymoron che racchiude la paradossale unione fra le tenebre e la luce, è spinto dalla luce della sapienza verso il regno delle tenebre, dove incontrerà quell’altro oxymoron che sono le Erinni / Eumenidi. Cieco, chiuso nell’oscurità che richiama oscurità sotterranea delle divinità infere, Edipo lascerà che il proprio corpo precipiti tra le buie spire della terra, ma sa che così facendo contribuirà ad arricchire il tesoro sapienzale custodito nelle profondità degli inferi. "Io sono qui per farvi un dono - dirà a Teseo, signore di Atene - me stesso. Carne intaccata, povero spettacolo: ma chiude un frutto in sé, più forte di bellezza vuota". Le Erinni / Eumenidi, divinità infere, fin dalle origini presentano, accanto ad un aspetto malefico, uno benefico, in quanto dispensatrici di prosperità e di fecondità. In loro nome Edipo, accolto tra le braccia delle Madri, a cui fa ritorno, come vello d’oro si promette tesoro sapienzale a quanti, sottraendosi alla luce violentatrice di Apollo sappiano imparare a guardare il non detto e il non nascosto che si cela ed è palese nel ventre oscuro della terra. Così le Erinni / Eumenidi assumono anche il significato di memoria della terra/memoria fissa.

Esse dapprima sono in numero indeterminato. Poi il loro numero si riduce a tre: Aletto, Tisifone, e Megera. Sono dee violente e temibili, che i Romani assimilarono alle loro Furie.

Numerose sono le raffigurazioni delle Erinni/Furie nelle pitture vascolari, dove le troviamo rappresentate come geni alati, i cui capelli sono intrecciati di serpenti e tengono in mano torce o fruste.

Alla fine del cinquecento troviamo un'accurata descrizione iconografica delle Erinni / Furie nell’ "Iconologia" di Cesare Ripa (stampata a Roma nel 1593): "Dante nell’Inferno dipinge le Furie, donne di bruttissimo aspetto, con vesti color di negro, macchiate di sangue, cinte con serpi, con capelli serpentini, con un ramo di cipresso in una mano, nell’altra con una tromba, dalla quale esce una fiamma, e fumo nero, e son finte dagli antichi Poeti, donne destinate a tormentare nell’Inferno l’anime dei malfattori" (2).

All’interno dell "Idea del Theatro" di Giulio Camillo le Furie occupano il grado più alto,  il settimo, e sono collocate nella serie di Marte, dio della guerra. Il settimo grado è quello posto sotto l’immagine di Prometeo ed è assegnato a tutte le arti, le scienze, la religione e la legge. Leggiamo nel testo di Giulio Camillo: "le furie infernali, per essere esecutrici delle pene, conteneranno il barigellato (3), cattura, carcere, tortura, supplicii" (4).

 

  1. G. Devereux, Il sogno delle Erinni, in G. Guidorizzi, Il sogno in Grecia, Bari, 1988.
  2. C. Ripa, Iconologia Milano 1992, p. 152
  3. * ufficio del capitano delle guardie.
  4. G. Camillo, L’Idea del Theatro, Palermo, 1991, p.176.

 

 

 

 

Itinerario di sapienza e conoscenza virtuale

nel "Teatro della memoria" di Giulio Camillo.

 

 

 

di Debora Vagnoni

 

In cosa consisteva, quel "teatro della memoria" che Giulio Camillo diffuse con grandi onori ma che non riuscì mai a realizzare ? Quali le premesse culturali e gli scopi ?

Concepito come un teatro ligneo, quindi come una realizzazione materiale di cui lo spettatore potesse avere cognizione diretta, il progetto di Camillo è in realtà assai più di una struttura architettonica. Esso si basa sull'idea antica di conservare le idee, le parole e le cose, tramite le immagini, e di ricordarle. Esistevano già sistemi per ricordare patrimoni vastissimi di conoscenza, tecniche per memorizzare idee tramite immagini, nella convinzione che la memoria visiva fosse più potente e duratura di quella concettuale.

A questa tradizione che aveva avuto grande fortuna nell'antichità classica e nel Medioevo, e che rischiava tuttavia di esaurirsi con l'avvento della stampa che avrebbe costituito già di per sé la visualizzazione necessaria alla memorizzazione di nozioni e testi, il rinascimentale Camillo aggiunse attraverso il sincretismo neoplatonico un nuovo significato che rivitalizzasse l'ars memoriae, rendendola una tipica espressione della ricerca sapienziale del Rinascimento.

Secondo la descrizione che ci giunge dai soli testi rimasti di questo progetto, l'Idea del Theatro e il Theatro della sapienthia, è possibile ricostruirne almeno teoricamente la struttura.

Quasi una sorta di anfiteatro, esso dispone la sua struttura circolare attorno all'ipotetico spettatore, il quale vede dispiegarsi davanti a sé sette porte, ognuna raffigurante immagini.

La pianta ricorda il teatro classico di Vitruvio, ma la sua fisionomia ascensionale è destinata ad altri significati: si parte infatti dalle immagini più note e riconoscibili, quali i sette pianeti, per progredire, verso una successione di immagini i cui nomi ricostruiscono la struttura dell'universo secondo la Cabala, che già Pico della Mirandola aveva contribuito a fondere con la dottrina neoplatonica. Queste immagini sono al tempo stesso cose e parole: esse hanno lo scopo di ricostruire tutto l'universo, di ricordarlo allo spettatore che nel suo percorso iniziatico ascende di grado in grado secondo il principio cabalistico, esse sono le cose.

Per il cabalista, l'alfabeto ebraico contiene il nome, o i nomi, di Dio. Nella rappresentazione dei segni, è quindi adombrata l'essenza divina dell'Ensoph, entità sacra che non può essere conosciuta da tutti ma richiede un processo di iniziazione.

La sapienza ebraica, la Torà, è allora come un grande corpus symbolicum, in cui è appunto rappresentata quella vita nascosta di Dio che la dottrina delle Sephiroth tenta di descrivere: ogni parola può diventare allora un simbolo, in quanto emanazione della profonda essenza di Dio.

Giulio Camillo basa appunto il suo sistema di memoria sulla convinzione che la rappresentazione progressiva del microcosmo nasconda dietro di sé l'essenza del macrocosmo, cioè di tutto l'universo.

Lo spettatore che ripercorra quel sistema di segni avrà accesso non solo alla conoscenza virtuale di essi, bensì al sistema combinatorio e di armonia che presiede l'intero progetto universale. E quelle immagini che guidano lo spettatore, l'eletto a tale percorso iniziatico, non sono semplici segni, bensì imagines agentes, parole che evocano le cose.

Dunque, alla base del progetto di Camillo, risiede il sogno rinascimentale di racchiudere in una rappresentazione visiva gli infiniti significati dell'universo, nella convinzione che i segni siano di per sé caratteri magici, con la facoltà cioè di coincidere con le cose stesse e con le inaccessibili armonie che governano l'universo.

E, non disgiunto da questo, il progetto di una memoria artificiale in cui le immagini mentali vengano razionalizzate in leggi, classificate e catalogate: un sistema che possa fornire un'organizzazione razionale a tutte le cose e a tutte le parole dell'universo.

E, sia pure con le dovute distinzioni, tenendo conto delle diversità di coordinate culturali, potremmo stabilire un'analogia con il concetto moderno di memoria artificiale della civiltà informatica, in cui si conserva l'intento di una memoria che, tramite leggi ed un'organizzazione sistematica, può comprendere sotto forma di immagini, ogni cosa e parola del mondo.

Certo, esse saranno molto diverse dalle imagines agentes del Camillo: nessun ordine armonioso preesiste al progetto di informatizzare il sapere, bensì lo scopo di funzionalizzare e rendere accessibile ciò che non è conoscibile direttamente.

Ma entrambi i sistemi usano la mediazione dell'immagine: si pensi all'uso dell'icona, rappresentazione visiva del contenuto del file, così come l'immagine del teatro camilliano è rappresentazione dei livelli successivi di conoscenza. Entrambi i sistemi sostituiscono alla conoscenza diretta delle cose, la conoscenza virtuale tramite parole e immagini. Entrambi dispongono di una logica combinatoria che consente di poter rappresentare secondo sistemi infiniti le infinite cose dell'universo.

Ma, al di là delle analogie, sarà utile riflettere sulla differenza fondamentale che ci separa nettamente dal sogno di Camillo: pensare cioè che il teatro della memoria perseguiva, pur nella sua difficile realizzabilità, un luminoso e vitale sogno umanistico, in cui scopo della conoscenza è pur sempre l'uomo. Come motivo di riflessione per la civiltà post-moderna che rischia di sostituire alle cose, le immagini di esse, laddove la conoscenza virtuale può diventare l'unico obiettivo di una riproduzione seriale già paventata da Benjamin: ecco allora che le parole dell'Idea del Theatro possono avere per noi contemporanei un senso nuovo e vitale:

"questa alta et incomparabile collocazione fa non solamente officio di conservarci le affidate cose, parole, et arte, che a man salva ad ogni nostro bisogno informati prima che le potremo trovare; ma ci dà anchor la vera sapienza, ne' fonti di quella venendo noi in cognition delle cose delle cagioni et non dalli effetti".

 

 

 

Giordano Bruno e Giulio Camillo tra pratica mnemonica e tecnica retorica

 

 

di Laura Cherubini

(Traduzione inedita di Laura Cherubini)

 

Cap IX

 

[da Giordano Bruno, De Imaginum, signorum idearum compositione, traduzione inedita di Laura Cherubini]

Altre ragioni e immagini di rappresentare e di dedurre alcune cose sono contenute in quelle parole che gli scavi Caldei hanno trovato nel tempio della nostra Mnemosine.

Tu riferisti le caratteristiche arcane degli dei e degli uomini in Egitto divenute note una volta attraverso le parole, per mezzo delle quali sotto la guida della natura le cose sensibili riescono ad essere meglio capite, di quelle che sono sottoposte al nostro modo di concepire. Per questo rimangono gli antichi misteri portati alla luce nei segni. Come la natura si manifesta attraverso il suo ordine e per mezzo di questi gli oracoli degli dei giunsero davanti agli occhi degli uomini. Dunque dove sta la cosa da significare con appropriata figura. E’ ammesso per il carro il carro e per il fuoco il fuoco; d’altra parte quando per se stesso non è connotato per la modulazione della voce, si aggiunga il miglior senso, la maggiore diligenza.

II. Così una cosa dissimile noterai attraverso un vocabolo simile di una cosa sensibile, infatti il tralcio di vite la vita, il cavallo richiama alla mente il giusto (1).

III. Le cose diverse si capiscono dalla parte intera purchè sia l’inizio delle cose. Raccomandano di concentrare uno solo intero da queste, come il Vecchio e colui che dà, significano saccheggiatore (2). E anche l’asino comunica l’assillo. L’oca (?) appare per l’inizio simile all’Asia dalla simile coda (3).

IV. Si nota il tutto di una parte, la rocca capitolina certamente mostra il capo marmoreo.

V. Chi abita vicino ci dà la patria, come la parola angelo diede Anglo.

Subito lo stesso Britanno contrassegna tutta la patria.

I gesti delle membra e l’abbigliamento, la toga e il cappuccio designano la Turca, l’Ebreo, il monaco e l’Arabo. Da ciò anche consegue che il proprio dà l’appropriato; poichè una lingua diversa vuole che il blasfemo sia messo in rilievo.

Segni precedenti mostrano chiaramente talvolta il futuro, così si deve condannare un delitto già noto. Così riconosciamo il compagno dal visibile che lo accompagna. Il salto dall’azione di colui che salta.

In determinate cose sono anche determinate cose notevoli. Come colleghiamo Giano dalla chiave e Marte dalla spada. Quindi una determinata circostanza riporterà il proprio tempo. Dai fiori Aprile, l’Autunno miserevole dalle uve, viene l’Inverno con le nevi, l’Estate è fornita di spighe, Colui che ha dona ciò che possiede, il Re il Regno, il ricco la forza delle sue ricchezze. L’invidioso l’invidia, il legislatore la legge e il genere dalla specie si coglie, come talvolta dal bue l’animale.

Chi agisce porta a compimento una cosa conosciuta che l’azione di per sé non potrebbe dare; l’invidioso l’invidia, lo stupro con inganno il famigerato adulterio. Una volta la diligenza dei Greci insegnò che i simulacri dovevano essere assegnati con parole adatte alle figure, perché dopo tenendo i beni acquisiti non sia impedito dall’agire; dai quali vedemmo certi Latini incautamente essere meno d’accordo, poiché mancavano di ogni ragione delle cause.

Il semplice varia dando il nome alle cose che mi stanno intorno e cioè tutto ciò che renderà composto dopo aver messo insieme una figura, persona, parola, caso, genere.

Per comprendere meglio questo capitolo ed il precedente, può essere utile ricordare alcune osservazioni che Cesare Vasoli fa per il De umbis idearum ed il Cantus Circeus. Per Vasoli la mnemotecnica del Bruno intende racchiudere nei limiti del proprio ordine l’architettura schematica dell’universo. Perciò l’ars dovrà subito stabilire una serie definita di soggetti primi (subjecta) corrispondenti ai luoghi della mnemotecnica tradizionale, di soggetti secondi o prossimi (adjecta) corrispondenti alle imagines e fissare esattamente quale sia l’organum o instrumentum di cui deve servirsi.

La trattazione dei subjecta e degli adjecta è svolta con una netta accentuazione dell’elemento fantastico, tanto che Vasoli propone un accostamento per noi estremamente interessante, con gli scrittori di emblemi e d’imprese. A proposito poi degli adjecta, "immagini che si aggiungono ai luoghi e diano loro più intensa vivacità e attrazione" Vasoli nota che:

"Si può bene assumere un’immagine che corrisponda pienamente all’oggetto significato (come l’immagine dello sgabello in ruolo dello sgabello reale); ma sarà ancor più conveniente raffigurare i concetti astratti mediante immagini concrete che assomigliano nel nome, in modo da rappresentare, ad esempio, il carattere astratto dell’uomo acquus, con l’immagine concreta del cavallo (equus), il cui nome ha lo stesso suono. Più facile e più consueta è poi la rappresentazione dell’astratto mediante un concreto che lo simboleggi direttamente, come nel caso di chi rappresenta Roma con l’immagine di un guerriero romano, o il monte con la raffigurazione di un montanaro; e non è neppure molto diverso l’artificio di legare un astratto ad un concreto mediante la somiglianza delle sole sillabe iniziali, sì che per indicare l’asyllum, si potrà ricorrere alle immagini più concrete dell’asynus e dell’aser.

Inoltre si può facilmente salire dall’antecedente a quello conseguente, da un concomitante all’altro, dall’accidente al soggetto e viceversa, oppure dal simbolo o geroglifico a ciò che esso simboleggia, dall’insegna a colui che ne è insignito, o ancora nell’abito a chi lo indossa solitamente.

Se questi sono, per così dire, dei nessi e delle relazioni psicologiche che si fondano su di un diretto rapporto simbolico (non lontano anche questo da quello illustrato in tanti esempi di letteratura impresistica) un altro metodo di memoria è scorto ugualmente in Bruno nel nesso di due immagini o di due concetti che si trovino sempre necessariamente contemporanei, come, per riferire i suoi esempi, i fiori e l’aprile".

Molto interessante è poi l’osservazione che Vasoli fa a proposito del legame tra tecnica mnemonica e pratica retorica e cita Giulio Camillo (4). Si confronti infatti, per esempio, questo brano della Topica del Camillo con questi due capitoli del Bruno. Camillo parla della differenza tra sineddoche e metonimia:

"... la sineddoche non usa un nome per un altro, come fa la metonimia, anzi non si parte quasi da sé medesima. Imperochè si pone uno per molti, come Romano per li Romani. Et la parte per il tutto, come per il tetto la casa, e’l genere per la specie, come il ferro per la spada, non fa partenza dal soggetto. Ma la Metonimia riceve un nome per un altro.

  1. Come l’inventore per il trovato, qual è Cerere per il grano.
  2. Et il possessor per il posseduto, qual è Vulcano per il fuoco.
  3. Et il continente per il contenuto, qual è il cielo per alcun Dio.
  4. Et la Cagione per l’effetto, qual è lo strale per la ferita.
  5. Et lo effetto per la cagione, Qual è l’orma per il piede.
  6. Et talhor attribuisce alla cagione l’accidente dell’effetto, come pallida morte."(5)

 

(1) C. Vasoli, Umanesimo e simbologia, p. 275.

(2) Ibid., pp. 285-6

(3) Ibid., p. 287

(4) Ibid., p. 287, n. 124

(5) G. Camillo, Opere, Venezia 1584, II, pp. 16-7.

 

 

 

Il Rinascimento digitale prossimo venturo

 

 

di Stefano Lariccia

 

Perchè credo che non sia del tutto irragionevole confrontare epoche così lontane come il Rinascimento e la costruzione dell’Unione Europea in questo scorcio di millennio? Perchè allora come ora cadono vecchi confini nelle classificazioni del sapere, cadono barriere artificiose tra diverse branche del sapere, si avvicendano le forme e i metodi del dialogo e della comunicazione scientifica.

In questa sede non tenterò altro che redigere una lista non ordinata di proposte di riflessione. Con termine degno di ben altra circostanza definiamo questa lista una collezione di aforismi sui temi del Rinascimento e della Informatica e didattica della Storia.

 

1932: il teorema di Gödel prova la impossibilità di esistenza di teorie auto-fondate. La matematica, e di conseguenza la fisica, e tutte le scienze naturali al seguito, non hanno basi logiche di certezza. Ciascun edificio teorico fonda la sua certificazione su un diverso sistema; lo si può definire soprastante o sottostante, comunque è ad un livello diverso. Ma nessun sistema teorico è fondante: al contrario tutti i sistemi sono interconnessi, come in una spirale infinita, o se preferite come in un anello di Möbius, come in una prospettiva di Escher o, ancora, se preferite come in un canone di Johan Sebastian Bach.

Questo fa sì che l’edificio della conoscenza contemporanea abbia in qualche modo cominciato a ricostruire le sue strutture su basi diverse. Ciò è avvenuto a partire dagli anni Trenta ma le conseguenze sul sistema della didattica hanno, specie nel nostro paese, tardato enormemente ad apparire. Nei sistemi universitari ad esempio è difficile riscontare ancora oggi una effettiva parità di credito tra le discipline storico-artistiche (humanities) e le scienze naturali. Mentre dovrebbe esser chiaro che è solo la capacità di applicare intuito e regole logico - scientifiche, assieme alla capacità di dichiarare i propri obbiettivi ed affrontarli, che può rendere autorevole e credibile una disciplina, una scuola, una materia.

Un esempio intrigante ci aiuta forse a spiegare questo concetto. Tim Berners Lee e Robert Calliau hanno lavorato ai Software Laboratories del Cern di Ginevra per vari anni senza troppo clamore. Un giorno, sul finire del 1991, Tim Berners Lee deposita alla IETF un RFC che definisce il protocollo WWW. Da quel giorno ad oggi Tim Berners Lee ha praticamente cambiato mestiere, cambiato stanza, cambiato edificio, cambiato continente (oggi lavora al MIT, a Boston); i fisici del Cern, ancora diligentemente assorti nel loro compito auto-assegnato di esplorazione dell’ universo sub-atomico, si sono poco o nulla scandalizzati del fatto che la loro comunità abbia partorito un topolino (il protocollo WWW) e che il topolino abbia partorito una montagna (il mondo virtuale del WWW). Oggi forse qualcuno storce il naso parlando del WWW come della nuova TV commerciale, ma al tempo stesso si fanno convegni, ancora tecnologicamente e cognitivamente interessanti, sulle nuove frontiere del WWW. Di questo mondo così parla Giuseppe Caravita: "Per capire cosa sta succedendo, e probabilmente succederà, su Internet non bastano le conoscenze esatte di logica informatica e ingegneria. Forse bisogna avere un occhio da biologo, o meglio da etologo, che scruta continuamente un vasto ecosistema, dove decine di migliaia di creature elettroniche nascono, muoiono o si sviluppano a seconda di leggi ancora da scoprire.".

Questo sembra essere il mondo della scienza e della tecnologia dopo Gödel.

Se, in simile modo, mutatis mutandis, un valente cervello italiano lavorasse ad un sistema che in qualche modo geniale riuscisse ad ottimizzare gli sforzi per la gestione dei nostri abbandonati Beni Culturali (miniera d’oro del nostro paese, tesoro nascosto da valorizzare) nessuno potrebbe e dovrebbe meravigliarsi in definitiva se il cervello sia stato allevato in un laboratorio di fisica, di chimica o in un Laboratorio di Informatica e Didattica della Storia e magari proprio nella ivi ospitata, istituenda, Scuola Speciale per l’applicazione dell’Informatica alla gestione dei Beni Culturali.

Ma un simile laboratorio esiste ? Ed esiste una Scuola Speciale per questi scopi ?

H&C (History & Computing) è un acronimo-logo nato ormai dieci anni fa. Esistono in giro per il mondo oggi numerosi rami nazionali della associazione omonima. Non esistono invece, almeno non in numero paragonabile, strumenti che rendano fruibili agli storici i benefici della attuale fase della rivoluzione tecnologica, posteriore a quella del personal computing e cioè quella che viene oggi perlopiù definita del network computing.

In un intervento al convegno annuale del 1992 della società H&C (S. Lariccia, L. Cajani 1994) ho sostenuto l'opportunità di utilizzare la rete con tutte le sue potenzialità come strumento didattico. A quei tempi proponevamo l'utilizzazione di Internet attraverso adeguati punti di accesso distribuiti nelle diverse sedi europee.

Oggi, grazie alla accresciuta sensibilizzazione nei confronti delle nuove opportunità offerte da Internet a qualsiasi attività di ricerca di documentazione e di editing, nasce questa rivista elettronica, integrata al WorldWideWeb (WWW).

Presso il dipartimento di Studi Storici di Roma, dove lavora l’autore di queste note, questo termine, History & Computing, è stato ripetutamente utilizzato, fin dalla sua prima comparsa nel lontano 1985, non senza provocare inizialmente una risposta carica di notevole scetticismo (almeno per quel che riguarda le sue implicazioni epistemologiche).

Le obiezioni più frequenti tendevano a: a) stigmatizzare l'uso della terminologia anglosassone; b) negare l'esistenza di una qualsiasi specificità alla intersezione delle discipline citate (l'informatica e la storia); c) negare la possibilità di esistenza di qualcosa di diverso dallo strumento informatico utilizzato ai fini della ricerca storica o dal contenuto "incidentalmente storico" utilizzato come materia nei propri test applicativi dagli informatici.

Anche il WorldWideWeb, tanto il termine che lo strumento informativo, hanno fatto la loro comparsa nel Dipartimento di Studi Storici davvero precocemente. Quando ancora nel 1990, due ricercatori del CERN, Tim Berners Lee e Robert Calliau, proposero l'implementazione di un protocollo, l' HyperText Transfer Protocol, per standardizzare la pletora di strumenti di ricerca di informazione sulla rete allora disponibili (Gopher, Wais, Archie, Veronica etc.) nel dipartimento di Studi Storici si stava sviluppando un semplicissimo strumento, che chiamavamo Locus Loci, per classificare e reperire le informazioni di tipo bibliografico a livello internazionale. Si trattava di un planisfero in cui erano registrati nomi e riferimenti testuali e iconografici "cliccabili" che portavano, una volta sollecitati, alla esecuzione di un semplice script che dava accesso automatico, in protocollo Telnet o Gopher, alle più grandi biblioteche del mondo. Può far sorridere questo tentativo di rivendicazione della lampadina da parte dell’inventore della candela a pedali, ma tant’è, lo cito esclusivamente per far comprendere come (mi pare) funziona la rapidissima circolazione delle idee nella attuale comunità scientifico tecnologica.

Lo strumento pragmatico, o il prototipo di tale strumento, riscosse qualche attenzione in più rispetto allo strumento linguistico. Si cominciava ad intravedere, nella sensibilità comune degli studiosi del dipartimento, l'intuizione della possibilità di un'evoluzione sostanziale delle metodologie per la raccolta delle informazioni, per lo meno nell'ambito dell'informazione bibliografica.

Per quanto riguardava però l'accettazione, come dato di fatto, di una nuova cultura del mezzo, e quindi di una nuova terminologia, di una nuova didattica, di nuove riflessioni metodologiche, nulla si era ancora svegliato.

Già alla prima comparsa di Mosaic (il primo Browser, o "scorritore", come si potrebbe tradurre, di pagine HTML, prodotto in America, nonostante che tutta la progettazione del protocollo HTML, del protocollo HTTP e della definizione delle URL fosse sostanzialmente frutto del lavoro di ricercatori europei) comprendemmo che il ritmo di crescita degli strumenti che ci potevano essere messi a disposizione dai centri di ricerca più specializzati nel mondo sarebbe stato sempre più accelerato; e sempre minore la possibilità di competere direttamente, da parte nostra, nella situazione di discreto isolamento, tipica per un verso, anche se assolutamente oltre alla media dall'altro, di un dipartimento italiano di studi umanistici, nello sviluppo di strumenti informatici con i nostri colleghi d'oltreoceano, e con quelli d'oltralpe, che tali e tante risorse avevano investito nel settore.

Cominciammo allora a dedicare sempre maggiore attenzione alle risorse disponibili sulla rete e alla loro integrazione piuttosto che al loro sviluppo ex-novo. Iniziammo dunque a considerare come utile esercizio didattico la ricerca degli strumenti adatti e la loro integrazione finalizzata alla soluzione dei problemi specifici del nostro ambiente di lavoro e di ricerca.

Oggi questo stile di fare informatica ha un nome tecnologico: ambiente di programmazione e sistemi operativi si definiscono oggi object oriented quando consentono un elevato livello di riutilizzo modulare di componenti. Il nostro bricolage informatico, che poteva sembrare semplice frutto di mancanza di fondi e di risorse di programmazione, è divenuto una filosofia avanzata dell’arte della programmazione.

Ma un'ipotesi opposta tendeva invece ad avvalorarsi con l'evolvere del nostro lavoro di servizio al dipartimento di Studi Storici e soprattutto con l'evolversi dello sviluppo di una didattica, sia pur di appoggio, per i laureandi del nostro dipartimento: l'ipotesi che la storia delle informazioni e della documentazione (e delle tecnologie adatte alla loro manipolazione) che abbiamo a disposizione è largamente "forgiata" da chi autonomamente, e non più su commessa formalizzata da parte dell' "editore" dell' istituzione "sorgente" o dell' "autore", come avveniva nel mondo dell'informatica anche solo fino a 5-10 anni orsono, produce nuovi strumenti e nuove potenzialità di analisi e di organizzazione del pensiero, e queste risorse mette infine a disposizione di editori ed emittenti di informazione (autori, editori, redattori, curatori, ricercatori) e conservatori di documentazione (biblioteche, archivi e istituzioni preposte alla conservazione).

Tra l'altro si dà il caso che, mentre il vecchio continente possiede la percentuale più vasta di quell'eredità che va, nel nostro paese, sotto il nome di beni culturali, o alternativamente di patrimonio artistico e culturale, il nuovo continente e le culture originarie dei paesi a forte sviluppo economico, mostrano sempre più dinamismo nel produrre innovazione e miglioramento nel settore delle tecnologie per il trattamento dell'informazione.

Con il risultato che nella vecchia Europa si potrebbe generare nel campo dei media per l'educazione e la formazione, così come è avvenuto per il mercato dell'audiovisivo di intrattenimento, un quasi - monopolio americano. Con l'aggravante che soggetti, argomenti, immagini, opere esposte sarebbero le "nostre".

Certo la cultura è per sua natura universale. Ma a noi che siamo capitati per sorte così vicini ai prodotti materiali di questa cultura dovrebbe ripugnare l'idea di essere gli ultimi a trarne profitto.

La domanda allora è: per quale misterioso motivo dovremmo rischiare di perdere l'occasione di partecipare a questa operazione creativa degli strumenti di base necessari alla ricerca nel campo delle discipline umanistiche e storiche ?

Siamo di fronte ad una scelta. Possiamo agire in modo tale che le risorse investite dalla industria culturale americana, ma anche giapponese, australiana, indocinese, non trovando competitori in grado di fare altrettanto sul "nostro" patrimonio culturale, ne traggano grandi profitti e grandi insegnamenti.

Oppure possiamo tentare di competere almeno nello sfruttamento di questo grande patrimonio universale, che per sorte, i nostri avi hanno prodotto, proprio nelle terre che oggi ci ospitano.

La cultura, è sempre più evidentemente universalistica ed ignora i confini. La tecnologia, figlia anch'essa in buona parte, al pari delle arti liberali, del Rinascimento italiano, ha avuto e continuerà ad avere in questa direzione un impulso straordinario inarrestabile e virtuoso.

Oggi gli sviluppi di quella cultura tecnologica, che ha avuto i suoi primi impulsi nell'Europa moderna, sono governati dall'altra metà del pianeta.

In queste condizioni non ci possiamo assolutamente più permettere di considerare la tecnologia come la figliastra nel nostro universo culturale. Neanche se fosse vero.

Perchè perdere tempo nel dibattito sulla maggiore o minore opportunità di "istituzionalizzazione" dell'area di studio chiamata in Europa History & Computing quando concretamente le ragioni per operare, al di là dei commenti, in questo settore sono del tutto evidenti ?

Secondo la maggior parte delle classificazioni epistemologiche tentate da pensatori (moderni e contemporanei) la Storia è disciplina agli antipodi della matematica e dell'informatica: la Storia ha a che fare con i fattori umani in massima misura. La storia è per eccellenza disciplina "diacronica" mentre la logica e la matematica sembrerebbero essere le arti del pensiero più distanti e più autonome dal tempo e dalle sue problematiche.

L'informatica è, in modo generico, ma per lo più acccettato, l'arte dell'applicazione della logica e della matematica ai metodologia del pensiero storico sarebbero dunque esempi di ibridazione di due euristiche che hanno tra di loro il massimo della non-parentela, il massimo della distanza epistemologica.

Non parlo di applicazioni strumentali: in quel caso siamo solamente nel campo generico delle applicazioni del pensiero matematico alla soluzione di problemi del mondo reale.

Come definire questo nuovo orizzonte di pensiero ? Certamente è troppo presto per definirle con sicurezza, forse è del tutto inutile inseguire definizioni. Come non notare una certa somiglianza con le nuove discipline che nascevano dalle rinnovate energie dedicate dall’uomo rinascimentale all’osservazione del cielo o più tardi alle osservazioni sulla storia naturale ?

Uno dei fattori più importanti del successo "mitologico" della rete delle reti ha a che fare con il concetto di condivisione di risorse. Le informazioni, gli algoritmi, i programmi i metodi sono oggi nella mentalità comune degli abitanti della rete, risorse da condividere. Come abitante del "ciberspazio" sono cosciente di godere indirettamente di innumerevoli vantaggi dalla messa in comune di mie ricchezze perchè ho la prova continua che il comportamento simmetrico del mio prossimo mi ripaga abbondantemente di ciò di cui mi sono privato. E questo fenomeno affonda le sue radici nella dinamica di alcuni diritti in rapida evoluzione: il diritto d’autore, il diritto alla privacy; la copertura dei diritti di possesso di marchi e brevetti.

Un altro fattore mitologico detonante per il successo della rete è stato il concetto di "sistema vivente": chi partecipa a qualche iniziativa sulla rete si rende conto di quanto sia importante il sentirsi parte attiva, pariteticamente a tanti altri, di una iniziativa. Di nuovo vediamo miscelarsi fattori di tipo psicologico, socio-comunicativo, socio-economico, ai fattori puramente tecno-economici.

Come potrebbe un matematico o un informatico puro comprendere appieno la portata di questi fenomeni così complessi? Non avrà bisogno di confrontare il suo sapere con quello di storici, giuristi, storici del diritto, economisti, sociologi, antropologi ? Lo stesso Tim Berners Lee è perfettamente cosciente di non avere "inventato" un bel niente. E’ stato lui ad "essere inventato" come il deus ex machina di Internet dopo che Internet era stata già realizzata in gran parte ed immaginata per una piccola parte.

Quando coltivo i miei pomodori nell’orto automatizzato dell’università di San Diego, e senza muovere un passo dalla mia scrivania mi accerto che questi siano ben umidi, e in caso di necessità li annaffio, oppure scambiando due chiacchiere con il "vicino" di orto che risiede fisicamente a Kyoto, o con la comune amica di Boston, ammetto di averli un po' trascurati, ringrazio delle cure gratuitamente ricevute da Anne o da Akiro; e quando alzando il braccio della telecamera mi godo la vista delle violette piantate poco accanto da Anne; in queste circostanze mi sento puramente orgoglioso di partecipare ad una comunità avanzata e anche se non mangerò mai io quei pomodori, so che la sperimentazione organizzativa, comunicativa, tecnologica darà i suoi frutti in direzioni che almeno in parte posso già concepire oggi.

O forse credete che solo la caccia ai bosoni e lo sbarco sulla Luna siano imprese degne di essere vissute?

Io credo che ci sia bisogno effettivamente di esplorare quelle regole del nuovo ecosistema che abbiamo ormai avviato e che vive ormai quasi di vita propria. Credo che ci si debba preparare a saper cogliere l’avvento di soggetti, di volontà virtuali autonome, così come già stiamo parlando di comunità con proprie regole e comportamenti, con caratteristiche specifiche di fronte ai comportamenti economici e di fronte al mercato. Non dovremmo attendere solo gli stimoli e le necessità del mercato per studiare questo nuovo ecosistema ed i suoi soggetti. E’ un passo critico molto importante per la Storia del nostro ecosistema fisico quello di aver generato un nuovo sistema del tutto astratto. Riusciranno gli storici e gli umanisti a cogliere per tempo questo passaggio ? Il destino della storia, in quanto fabbrica della memoria (effettuando la selezione tra ciò che deve essere ricordato e ciò che non merita di esserlo) e fabbrica del futuro, è intimamente legato a questa evoluzione. Essa può uscire rinvigorita come disciplina, dall’affrontare questi temi, come potrebbe assistere alla sua stessa morte.

Riuscirà un nuovo umanesimo di tipo rinascimentale, basato sulla unificazione-semplificazione dei processi di elaborazione e trasmissione del sapere basati sulle comunicazioni digitali, a rinascere?

Quello che probabilmente è il più grande filosofo del Quattrocento, Niccolò Cusano, in un testo molto significativo del 1433, a proposito del ritorno agli antichi, scriveva: "vediamo che tutti gl’ingegni d’oggi, anche i maggiori studiosi di tutte le arti liberali e meccaniche, ricercano le cose antiche, e con grande avidità, come se si potesse sperare che stia per concludersi un ciclo."

In verità un ciclo si chiudeva davvero: mutava l’albero del sapere, e quindi il rapporto fra le discipline; vivevano vita difficile i luoghi deputati della ricerca e dell’insegnamento, ossia l’università medievale, mentre nascevano nuovi tipi d’incontro e di collaborazione, e si delineavano nuove istituzioni per l’indagine e la trasmissione del sapere, spesso in ambiguo rapporto con le università. [...] In particolare nel campo delle scienze e della filosofia si assiste all’apertura di una nuova biblioteca di altissimo livello, destinata in breve tempo ad avere effetti rivoluzionari in molte discipline. [...]

E mentre si trasformano le biblioteche il vecchio assetto del sapere è sovvertito.

Avrà il lettore, come me, serie difficoltà ad evitare la tentazione semplicistica di interpretare e adattare ai nostri tempi la citazione sostituendo alla parola biblioteche la frase "le politiche editoriali e le raccolte ufficiali della documentazione scientifica" e la frase "una nuova biblioteca di altissimo livello" con il termine WorlWideWeb ?

 

 

 

Internet e l'Europa della cultura

 

 

Di Guido Sandonà

 

Le responsabilità della Comunità Europea in materia di politica culturale sono state definite soltanto del 1991, ben 35 anni dopo la fondazione della Comunità stessa.

Il Trattato Unico Europeo ha inserito ex art. G, par. 37, il Titolo IX, dedicato alla cultura. L’articolo 128 in esso contenuto afferma che la Comunità deve contribuire al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune. L'Unione Europea, favorendo la cooperazione tra Stati membri si pone l’obbiettivo di migliorare la conoscenza e la diffusione della cultura e della storia dei popoli europei. L'art. 128 incarica le Istituzioni di appoggiare ed integrare l’azione dei singoli governi nei settori riguardanti : la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea ; gli scambi culturali non commerciali ; la creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo.

Dopo più di 40 anni di tentativi integrazionisti, appare evidente che l’Europa, unita così come la idearono i Padri fondatori, potrà svilupparsi esclusivamente su una solida base culturale. Tutt’oggi l’Europa non riesce a procedere, né più velocemente né in maniera più convincente, proprio perché le politiche culturali della Comunità risultano marginali e poco profonde rispetto alle loro stesse potenzialità.

Analizzando più profondamente il concetto di cultura applicato al Vecchio Continente, si riscontra che non esiste una Europa monoculturale, ma diverse culture nazionali e regionali che, sono una ricchezza incomparabile ed in gran parte all’origine dei primati storici europei nelle arti e nelle scienze condividono in maniera più o meno diretta tradizioni e costumi e che seguono una naturale tendenza ad integrarsi da più di un secolo. La cultura europea appare variegata, sfaccettata, pluralistica non solo nel contenuto ma anche negli atteggiamenti. Nel contempo però gli elementi tradizionali di identificazione nazionale vanno scomparendo per internazionalizzarsi e frammentarsi; la lingua, la confessione religiosa o i caratteri etnici non bastano più a definire un "identità nazionale" in Europa. Una cosa è certa, da una parte l’Europa non è più la somma dei tratti caratteristici storici e culturali di singole nazioni, dall’altra un'Unione che sempre più appartiene ai suoi cittadini necessita di un linguaggio comune, elemento ben più importante della lingua.

Al dissolversi di questi inequivocabili elementi d’identificazione nazionale ha contribuito la sempre maggiore mobilità internazionale, ma soprattutto la globalizzazione della tecnologia dell’informazione.

Nell’era delle nuove tecnologie il problema della mancanza del linguaggio comune può essere risolto con uno stretto rapporto socio-culturale tra l’Europa e le reti telematiche. Interattività, multimedialità, rapidi ed economici scambi d’informazioni rappresentano una possibile via verso un’identità comune e una reciproca conoscenza.

In effetti lo sviluppo delle nuove tecnologie ha fornito un contributo non indifferente all’abbattimento delle barriere nazionali facilitando prima il commercio e molto più tardi lo scambio di informazioni .

La crescente pervasività della comunicazione tra computer collegati in rete (ovvero Internet) è stata definita da John Perry Barlow (uno dei fondatori della Electronic Frontier Foundation, un gruppo nato per difendere le libertà civili nel ciberspazio) come la più significativa scoperta tecnologica dopo la scoperta del fuoco.

Internet è la risorsa destinata, tramite il concetto di connettività e rete infrastrutturale, a trasportare la nuova rivoluzione del mondo industriale, in cui in ogni singolo utente riuscirà ad operare senza confini come un’azienda virtuale.

Avere introdotto una rete mondiale che coinvolge potenzialmente ogni individuo in qualsiasi parte del globo rappresenta una possibilità d interazione unica nel suo genere.

Poiché interazione all’interno dell’Unione Europea vuol dire principalmente integrazione, ovvero "unione sempre più stretta tra i popoli europei", le reti telematiche si rivelano - quali fonti privilegiate ed economiche di conoscenza reciproca - un ottima base per le politiche culturali delle Istituzioni.

Infatti il repentino sviluppo di Internet negli ultimi anni offre moltissime possibilità di scambi interculturali tra cittadini europei. Non è più necessario compiere dei costosi e impegnativi viaggi per conoscere le abitudini ed apprezzare le tradizioni dei nostri partners europei. Poiché ogni città d’Europa possiede il suo Website, "navigando" su Internet è possibile ottenere informazioni turistiche, sociali, politiche (insomma di qualsiasi genere) su ogni Stato membro.

Sul World Wide Web sono presenti diversi siti specializzati nelle questioni europee.

Evidentemente ogni Istituzione Comunitaria dispone di un proprio sito ufficiale.

Questo genere di Websites presenta un’impostazione divulgativa, basata principalmente sugli opuscoli informativi editi annualmente dall’Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee. Il merito dei "siti istituzionali" consiste nella semplicità e nella chiarezza delle informazioni, essi però difettano in qualità : è possibile conoscere il numero ed i nomi dei membri della Corte di Giustizia, ma non la loro formazione giuridico-politica. Ormai l’era dei "Web-vetrina" - termine tecnico per definire questo genere di siti - si è ormai chiusa. Il Web oggi si avvicina sempre più al paradigma televisivo, passando da un luogo virtuale in cui l’utente "cerca" ad un’interfaccia generale in cui l’utente ottiene informazioni sempre più dettagliate.

Chi vuole avere una visione generale e più qualificata dell’Europa, con i suoi problemi, la sua storia, le sue iniziative può far riferimento a Grande Place Europe (http ://www.eurplace.org) : sito Internet che prende il nome dalla famosa Grande Place di Bruxelles e si pone l’obbiettivo di rendere partecipi i cittadini della vita politica e culturale dell’Unione Europea. Il sito è di facile impostazione sia per la struttura a cassettiera ( ad ogni cassetto corrisponde un problema europeo !) sia perché presenta tre lingue ufficiali :inglese, francese e italiano (a differenza di molti altri siti Internet che utilizzano l’inglese o addirittura esclusivamente la lingua nazionale). Attraverso le sue pagine è possibile conoscere date di importanti convegni, altri indirizzi di siti Internet che trattano l’argomento europeo, rassegne stampa, articoli provenienti dai più importanti quotidiani degli Stati membri. E’ possibile inoltre avventurasi nelle politiche culturali e sociali della Comunità, conoscere i percorsi storici che hanno consento alla Comunità del Carbone e dell’Acciaio di diventare Unione Europea, aumentando di più del doppio i suoi membri. Grande Place Europe si propone infine come uno spazio pubblico e democratico d’informazione, furono telematico di dibattito e collegamento per tutti i cittadini d’Europa.

 

 

 

RICERCHE IN CORSO

 

di Piero Meogrossi

 

L'Arch. Piero Meogrossi propone riflessioni e confronti sull'esperienza del "Theatro a la maniera de li antichi" (Cornaro), sviluppata nel circolo culturale di Alvise Cornaro tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo in area veneta. Il tema, maturato al momento della scoperta della villa di Cornaro presso Codevigo (Padova) sviluppa le problematiche connesse al teatro a scena fissa incrociando le prime attività dei compagni di calza a Venezia con quel sodalizio in villa principalmente tra il Ruzante, Fra Giocondo e Cornaro. L'argomento testimonia forme, tempi e luoghi di un più ampio coinvolgimento di umanisti del tempo, tutti impegnati alla riscoperta dei codici classici per la rappresentazione della realtà attraverso il teatro.

 

 

di Caterina Volpi

Giulio Camillo e Pirro Ligorio

 

La ricerca analizza il reciproco influsso culturale tra gli scritti di Giulio Camillo e le invenzioni di Pirro Ligorio, prendendo in esame, il Casino di Pio IV e la divinità Mnemosyne, la Serie di Arazzi con le Storie di Ippolito per Alfonso II d'Este e la "Prefazione al trattato sugli dei" nel manoscritto di Napoli.

 

 

BTA - Bollettino Telematico dell'Arte

Ideato da Stefano Colonna Ph.D. e promosso dal Prof. Maurizio Calvesi, il BTA - Bollettino Telematico dell'Arte è un prototipo sperimentale di rivista telematica d'arte curato e creato dagli studenti dell'Istituto di Storia dell'Arte Medievale e Moderna dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" con la partecipazione dei docenti e di altri collaboratori.

Il BTA è afferente all'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università "La Sapienza"; gli articoli e le idee espresse nel BTA non rispecchiano posizioni ufficiali dell'Istituto stesso, ma soltanto la personale, singola e libera opinione dei rispettivi autori.

Il BTA è patrocinato e registrato come dominio Internet dall'Associazione FESTINA LENTE Centro Internazionale di Ricerca Storico-Artistica.

BTA@mclink.it (e-mail)

http://www.bta.it (indirizzo ufficiale)

http://www.uniroma1.it/bta (indirizzo ufficiale)

http://www.let.uniroma1.it/bta (il primo indirizzo Internet)

 

ARTE ON LINE

Ideato da Stefano Colonna Ph.D. e promosso dalla Prof.ssa Simonetta Lux, Arte on line è un network inter-universitario storico-artistico fondato e presentato il 17 maggio 1995 nel Convegno Arte on line. Per un network inter-universitario nell'Aula Magna del Rettorato dell'Università degli Studi della Tuscia con il patrocinio della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali e le adesioni del Prof. Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, Rettore dell'Università della Tuscia di Viterbo; del Prof. Roberto Mercuri, Preside della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali; del Prof. Giorgio Manacorda, Preside della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne e della Prof.ssa Carla Granati, Presidente di "Italia Nostra" sezione di Viterbo e inoltre delle Associazioni Culturali FESTINA LENTE CIRSA, Italia Nostra, L.H.O.O.K., Liber Liber, Project Two.

Attualmente aderiscono al network la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell'Università della Tuscia di Viterbo e il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma.

 

FESTINA LENTE CIRSA

Fondata dalla Prof.ssa Maria Filippone, dalla dr.ssa Caterina Tripodi e dal Rag. Aldo Antonio De Lorenzis il 21 aprile 1995, FESTINA LENTE Centro Internazionale di Ricerca Storico-Artistica è un'Associazione Culturale senza fini di lucro il cui scopo consiste nel promovere la "conoscenza, valorizzazione e tutela dell'Arte e dei Beni Culturali a livello nazionale ed internazionale, con particolare riferimento alla formazione dei giovani; la promozione della ricerca scientifica nel settore dell'Arte, della Storia dell'Arte e dei Beni Culturali; la diffusione dei contenuti della ricerca con tutti i mezzi e i modi possibili e con particolare attenzione per la sperimentazione di nuove tecnologie di comunicazione":

http://www.mclink.it/assoc/festinalente

 

 

 

COMITATO SCIENTIFICO

MAURIZIO CALVESI Ordinario di Storia dell'Arte Moderna - Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

CORRADO BOLOGNA Preside Facoltà di Lettere - Università degli Studi di Chieti

CLAUDIA CIERI VIA Cattedra di Iconografia e Iconologia - Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

VERA FORTUNATI, Cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna - Università degli Studi di Bologna

ARTURO CARLO QUINTAVALLE Direttore Istituto di Storia dell'Arte - Università degli Studi di Parma

BIANCA TAVASSI LA GRECA Cattedra di Letteratura Artistica - Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

 

COORDINATORE COMMISSIONE RICERCA FESTINA LENTE CIRSA

STEFANO COLONNA Dottore di Ricerca Università degli Studi di Bologna

 

DELEGATA e RESPONSABILE PROGETTO CAMILLO

VIVIANA NORMANDO Studentessa Istituto di Storia dell'Arte e giornalista pubblicista

 

VICE-DELEGATA e VICE-RESPONSABILE PROGETTO CAMILLO

NATASCIA MORONI Studentessa Istituto di Storia dell'Arte

 

COORDINAMENTO INDAGINE MITOGRAFICA

ANGELA CIANFARINI Storica dell'Arte

 

RICOSTRUZIONE DEL TEATRO DI GIULIO CAMILLO

LORENZO ROMANI

 

TRADUZIONI IN LINGUA INGLESE PER LA VERSIONE ON-LINE

VALENTINA BRUSCHI, GAIA CREMONESI, FRANCESCA ROMANA ORLANDO

 

UFFICIO STAMPA

FRANCESCA ROMANA ORLANDO

 

GRAFICA

GIANNI FALLACARA

 

 

 

 

FESTINA LENTE

Centro Internazionale di Ricerca Storico-Artistica

Segreteria automatica attività: 06-36308996

 

SIA - Sistema Informativo di Ateneo de "La Sapienza"

 

LIBER LIBER Associazione Culturale senza fini di lucro.

 

 

BTA - Bollettino Telematico dell'Arte

http://www.bta.it

si ringrazia Nice srl per l'ospitalità Web concessa

BTA@mclink.it

 

 

RINGRAZIAMENTI SPECIALI PROGETTO CAMILLO

 

Al professor Maurizio Calvesi per la prima idea.

 

Ai firmatari del progetto.

 

Ai collaboratori del BTA - Bollettino Telematico dell'Arte.

 

Ai soci di FESTINA LENTE - Centro Internazionale di Ricerca Storico-Artistica.

 

Allo staff dell'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" per la validissima e fondamentale collaborazione.

 

Alle dottoresse Veronica Briganti, Eva De Lorenzis e Rosanna Scippacercola, per l'impegno dimostrato nell'attività didattica dedicata al progetto.