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Roma 1630
Il Tronfo del pennello
Roma, Villa Medici
Francesca De Marco
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 1994, n. 12 (19 dicembre 1994)
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Si sta per concludere una mostra a Roma a Villa Medici intitolata Roma 1630 il trionfo del pennello. Chi non l'ha ancora vista si affretti, in quanto è particolarmente significativa per un più maturo approccio con il barocco romano durante il pontificato di Urbano VIII (1623 - 1644). Nella prima sala protagonista indiscusso è Poussin, giunto a Roma fra il 1627 e il 1628 sotto la protezione del Cavaliere Marino. Con la morte di Germanico (1627 - 1628) emerge la concezione della vita quale teatro di passioni. Il ritmo è molto articolato e vivacizzato da un cromatismo che richiama Tiziano. Commissionato da Fabrizio Valguerra fu la peste di Asdod. In tale opera non si può non notare la drammaticità delle figure umane in preda alla più forte disperazione perché non hanno Dio e non sono in grado di confrontarsi, in quanto uomini, con la morte. Accanto a questo quadro del Poussin è inserita una incisione di Jean Baron che riproduce la Peste di Asdod di Poussin. Anche se l'incisione è piuttosto fedele all'originale, oserei dire anche più rifinita e particolareggiata dell'originale, in Poussin si avverte una pittura eseguita con mano, intelletto e cuore. Segue l'allegoria della Divina sapienza di Andrea Sacchi. È interessante l'effetto d'innanzi allo spettatore delle figure di questo quadro: sono pregne di un colore intenso, forti nel voler essere e nel voler esistere come immagini.

Nella seconda sala la cartella informativa sottolinea come intorno al 1630 a Roma maturò l'idea di Galleria, un'idea in cui entra in gioco lo spettatore quale complice e critico dell'artista. Giulio Cesare Mancini, medico personale di Urbano VIII aveva suggerito di usare i pennelli non più per scherzo ma per otium, un otium inteso come un arricchimento culturale non disgiunto dal diletto. Siamo nel vivo del barocco degli anni '30 con i suoi fermenti, dibattiti e contrasti. Andrea Sacchi studioso di Raffaello e Annibale Carracci sostiene una pittura con pochi ma imponenti soggetti. Pietro Da Cortona invece insiste su una pittura complessa animata da un susseguirsi di forme, colori, figure per ottenere una dimensione maestosa e grandiosa dell'immagine. Nella terza sala abbiamo l'opera Il ratto di Elena di Guido Reni che sembra avvicinarsi alla concezione della pittura di Andrea Sacchi. Si tratta di una pittura attenta e meditata. Lo spettatore non può non vedere il putto in piedi in basso sulla destra che ricambia un pò maliziosamente lo sguardo dello spettatore. Le figure di Reni sono liriche ma anche fortemente elaborate. Altra opera significativa è Il ratto delle sabine di Cortona dove colori intensi, una gestualità esasperata, un vortice di teste, mani braccia, figure confermano la teoria dell'artista precedentemente detta.

Nella Morte di Didone del Guercino risalta la teatralità e la preziosità della composizione. L'impressone che si ha è di scivolare nel mito dolcemente e lo spettatore si lascia trascinare consenziente, almeno così ho potuto riscontrare dalla reazione del pubblico che sfilava d'innanzi alla tela. In Mosè salvato dalle acque di Gentileschi risalta subito il vortice di mani delle donne che sottolinea la posizione centrale del neonato. E' un'opera esattamente al confine fra sacro e profano. Sacro in quanto Mosè rimane sempre il fulcro della composizione, profano nelle donne molto sensuali. In particolare una fanciulla che dà le spalle allo spettatore il quale non può non rimanere affascinato dal suo seno intravisto e dalla gamba scoperta.

Nella sala successiva dominano due discepoli di Annibale Carracci a Roma Lanfranco e Domenichino. Lanfranco è contraddistinto da uno spirito romantico, ha una concezione che rispecchia l'eredità del Correggio nell'elaborazione illusionistica dello spazio. Angelica e Medoro del Lanfranco è un'opera il cui protagonista è lo sguardo, lo sguardo innamorato, intenso dolce dei due giovani. L'abilità dell'artista è di coinvolgere il pubblico che ponendosi di fronte al quadro si trova fra la mano sinistra sollevata di Angelica e l'andamento orizzontale del braccio destro di Medoro. Domenichino si attiene al classicismo, e a una severa grandezza nella Caccia di Diana, ma non rimane insensibile al desiderio di coinvolgere una deliziosa complicità lo spettatore per esempio nella bambina nuda in acqua che guarda lo spettatore. Segue Massimo Stazione con Orfeo e le baccanti, dove le figure più pesanti e consistenti e soprattutto molto realistiche ci fanno pensare a un possibile influsso esercitato sull'artista dal Caravaggio. Sempre qualche reminiscenza caravaggesca si avverte Nella morte di Catone di Von Sandrart. Tale opera per impostazione è decisamente barocca.

Tutto è incentrato sulla figura di Catone disteso a terra illuminato sa una torcia nascosta solo allo spettatore da un braccio di un soldato. La morte non è vista in maniera inquietante né fredda, e come se l'autore dicesse: " questa è la morte di un uomo, io ve la mostro ". Si nota anche un coinvolgimento emotivo dei personaggi che circondano Catone, ma si può dire che la loro funzione è di accompagnare lo sguardo dello spettatore verso il protagonista della tela.

La mostra si conclude con un quadro che ha incuriosito molto il pubblico: Le quattro età dell'uomo di Valentin De Boulogne che certo doveva conoscere Caravaggio. Il fanciullo guarda lo spettatore con in mano una gabbia aperta, anche il giovane lo guarda ma con in mano uno strumento musicale. L'uomo adulto invece dorme indossando un'armatura e avendo tra le mani un libro aperto. Il vecchio torna a guardare il pubblico fra una brocca di vino e un calice con di fronte un mucchietto di monete. E' chiaro che nessuna di queste quattro figure è contenta della fase che sta vivendo. Si parla di un vivere estremamente materialistico; non c'è speranza, non ci sono prospettive solo il tempo che è un gran tiranno.



	
 

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