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Intervista a Luca Patella Roma, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea
Laura D'Andria
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 40 (23 novembre 1994)
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Area Interviste

L'intervista si è svolta in occasione della mostra al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università di Roma "La Sapienza"

D. Luca Patella, lei è un artista che lavora principalmente dagli anni sessanta, ci vuole illustrare la sua particolare e insolita formazione?

R. ...Siamo forse in un... campo marmoreo dove i grilli si sono ora zittiti (dal videocomputer si odono dei grilli)... pensavo di prendere inizio dal vivo, a partire dai grilli... La mia formazione tu sai che non è solo artistica, io avevo tendenze artistiche fin da bambino, ma poi ho intrapreso studi scientifici (Chimica strutturale). Successivamente invece mi sono dato all'artistico e, allora, all'interno del mio lavoro, fin dagli inizi, e a un certo punto più radicalmente (alla metà di questi anni Sessanta di cui parliamo) si pone questo confronto tra dimensione artistica e dimensione scientifica: come esigenza mia più che come adeguamento esteriore. Per sintetizzare, si potrebbe dire che ho iniziato con mezzi più tradizionali, anche se sempre di ricerca, ho lavorato molto nella pittura, ma soprattutto nell'incisione, nella grafica.

D. Può spiegare quali furono le motivazioni che la spinsero ad accostarsi e a praticare intensamente una tecnica particolare come l'incisione?

R. A me era il disegno che interessava molto e allora, per dare consistenza al segno, l'incisione è l'ambito più giusto. Fin da bambino facevo dell'incisione, in seguito ho ripreso questa tecnica: sono stato a Parigi da Hayter all'Atelier 17, lì lui aveva messo a punto la tecnica del colore simultaneo su unica lastra e allora io ho pensato di fare un mélange tra colore simultaneo, fotografia e incisione, facendo delle "acqueforti fotografiche a colori simultanei". Alla metà degli anni sessanta, tralascio programmaticamente il segno disegnativo e comincio ad adoperare la fotografia nell'ambito dell'incisione, poi la tappa ulteriore è stata quella di lasciar stare l'incisione, che era pur sempre un supporto materico e andare verso dei mezzi più adeguati e promettenti.

D. Alla metà degli anni sessanta lei sceglie come mezzo artistico la macchina da presa, mezzo che presuppone una diretta osservazione della realtà, che cosa vuole indagare il suo obiettivo?

R. In quel momento pensavo che tutto ciò che era connesso con la "moralità del segno" e del disegno non potesse andare oltre. Quindi, all'interno dell'incisione ho prima costruito dei paralleli tra segno manuale e segno fotografico, poi le acqueforti fotografiche stesse perdono questo supporto materico per andare verso quello che io chiamo "Senza Peso": cioè un alleggerimento della materia. In quel momento mi sembrava che oltre l'informale non si potesse andare e si dovessero azzerare le cose ed usare la macchina fotografica o la cinepresa o il video in maniera molto diretta. Non per "essere sulla realtà", la realtà è sempre messa tra virgolette. Una nuova realtà, una nuova maniera di fare che ho denominato appunto "Senza Peso". Questo peso che non è soltanto il peso materico della pittura o dell'incisione stessa che ha un supporto materico consistente (se ci si passa una mano sopra si può sentire il rilievo dei segni), mentre la proiezione fotografica è impalpabile e ancor di più quella cinematografica. Questo problema a sua volta è il simbolo di qualcosa di più profondo, cioè la perdita di un peso morto connesso alla tradizione. Quindi un segno semiologico che si pone in termini non più "moralistici"; senza peso moralistico connesso alla deformazione che è necessaria per espressivizzare le cose. Per rendere espressivo il soggetto si intende rappresentarlo con qualcosa che lo deformi, bisogna rendere espressive le cose e renderle materiche. A un certo momento mi è sembrato che questa tradizione fosse arrivata al limite massimo e si dovesse andare oltre, verso un alleggerimento, perché questa espressivizzazione era ormai un modo e una... "materia" psichica che non funzionava più.

D. L'arte dunque è proiettata verso un alleggerimento dovuto alla perdita del peso della tradizione intesa come legame vincolante, ma lei chiama un suo lavoro recente "Con e Senza Peso".

R. Ho ripreso questo termine aggiornandolo e precisandolo, perché, dicevamo che nel mio lavoro questa specie di spregiudicatezza che va avanti, non va mai intesa come un tagliare i ponti con la storia: in tanti lavori seguenti, ma anche dietro ai lavori "Senza Peso", era ben presente la storia dell'arte: e allora c'è anche il peso, il fondamento della tradizione.

D. Allora il bagaglio culturale della tradizione non deve essere inteso come zavorra, e quindi abbandonato?

R. Aprire le porte verso il futuro non deve essere inteso come tagliare i ponti col passato... non siamo futuristi, siamo andati oltre, è passato quasi un secolo! In questa dialettica di presente e di storia c'è: sia con, che senza peso; io lavoro sempre così, non amo fare "cose" univoche e frontali, né sentirmi arrivato andando in una sola direzione; no, medio sempre: la Complessità è la dimensione che ho scelto nel mio lavoro, poiché mi sembra che la realtà sia molto complessa; bisogna quindi esserne all'altezza se si vuole fare qualcosa di significativo.

D. Negli anni Settanta lei si dedica alla lingua, pubblicando dei testi come "IO SONO QUI". Può dire quali sono le motivazioni di questa scelta: in che modo la lingua interagisce con l'arte?

R. Negli anni Settanta si apre nel mio lavoro quest'ambito, ma era implicito alla fine degli anni Sessanta, dove già sentivo che l'immagine si era un po' esaurita; chiaramente ho fatto lavori d'immagine anche dopo, non l'ho abbandonata del tutto. Con la matita e il pennello alla metà degli anni Sessanta ho tagliato veramente i ponti (per un lungo periodo), quello era un momento di rottura; mentre l'immagine non è tecnica che ho abbandonato in toto per passare ad altro.

D. Qual è stata l'esigenza che l'ha spinta ad un accostamento tra parola e immagine?

R. Già alla fine degli anni Sessanta e ancora di più negli anni Settanta mi sembrava che l'urgenza espressiva non tendesse verso l'immagine, ma verso la parola, la scrittura ed altro (l'ambiente, il comportamento, ecc..). C'è un lavoro che ho fatto dentro un occhio, un film dove riprendo me stesso riflesso con la cinepresa. Spostandomi di millimetri, metto a fuoco l'occhio oppure io che filmo, o il paesaggio che si trova alle mie spalle. Un mondo globale dentro un occhio, questo è l'estremo limite della visione; si doveva uscire dai problemi "visivi", e dove andare? Verso la dimensione della parola. Allora comincio o continuo, ma più radicalmente, a... "giocare" con le parole, riallacciandomi anche a tutta una tradizione europea del gioco di parole.

D. Può descrivere in maniera più particolareggiata il senso di questi giochi di parole e ambiguità che lei ritrova in ogni termine?

R. Il vero problema mio è che non voglio stare dentro le frontiere, tutto ciò che conosco o voglio sapere, tutto questo fa parte del mio lavoro. L'ambiguità della parola può... esserne un simbolo. Anche le "arti letterarie" sono arti, ma il problema non è solo quello dell'interdisciplinarietà, l'assunto è più radicale: tutte le semiologie del mondo che mi interessano, che vado apprendendo e che voglio prospettare, fanno parte del mio lavoro; ecco la proiezione verso le arti letterarie, ma anche, se vogliamo chiarirlo, verso la psicoanalisi o la linguistica, verso una "realtà" che stiamo facendo... di giorno e di notte, come dice Eraclito!

D. Tornando un momento indietro, al cinematografo, vorrei sapere qual è la distanza che separa il cinema di un artista come lei da quello di un regista che si confronta unicamente con il cinematografo.

R. A quel tempo mi chiedevano se avevo cambiato mestiere. Non era questo il problema, si trattava di radicalizzare le cose in modo tale da stabilire dei confini... che non finiscono mai.

D. Il suo cinema non è circoscritto al narrativo.

R. Ecco, questi sono limiti che non mi interessano, i miei film all'inizio non pongono questo problema o pongono solo in certi casi marginalmente la narrazione. Meglio detto, anch'essa non è esclusa, perché anche quando mi metto a scrivere, vi rientra tutta una dimensione narrativa, che sostanzia l'espressione (scrivo poesie e romanzi). Non credo che si possa semplificare e riassumere le cose, darmi una cifra, infilzarmi con uno spillo e classificarmi come una farfalla. Mi sembra che il lavoro, per sua natura, debba sfuggire alle classificazioni univoche. "IO SONO QUI" è un libro che ho scritto all'inizio degli anni Settanta, uno strano libro che all'apparenza è un romanzo fantascientifico, si chiama infatti di "AVVENTURE & CULTURA". E, alla fine (o meglio, durante lo svolgimento), si scopre che i personaggi dell'avventura sono elementi del linguaggio, oppure elementi psichici; ecco quindi che il libro diventa anche scientifico, e torna fuori il mio confronto in atto tra dimensione scientifica e dimensione artistica. Il problema per me è questa apertura su "tutto", non fermarmi davanti a niente che mi interessi è il senso del mio lavoro. D'altra parte, tutto quello che io faccio viene da me molto formalizzato ed espresso esteticamente; non è un buttarsi nelle cose in modo avventato, momentaneo e strampalato; l'arte non è facile, niente è facile al mondo... ma ecco... che l'arte sia un recinto entro il quale l'artista opera in uno specifico pacifico... mi risulta avvilente. Certo le tradizioni specifiche, come la pittura, la poesia, il cinema, la fotografia, ciascun campo semiologico ha una tradizione alle spalle, che bisogna conoscere ed affrontare anche sul piano tecnico, ed è molto complessa, esige grande approfondimento, non superficiale eclettismo. Per accostarsi ad una nuova tecnica bisogna fare una grande fatica, ad esempio io ha messo a punto sistemi proiettivi originali, ho costruito perfino degli obiettivi. Cerco di approfondire e di reinventare, se possibile, un nuovo campo; il problema non è quindi sprofondare nello specifico, perché mi sembra che uno specifico prenda significato confrontandolo con un altro e con tanti altri, questo è il senso delle cose, niente è proibito nel mio lavoro. "TUTTO... ecc..." dicevo, e continuo a dirlo, anzi ora dico anche "TUTTO & NIENTE", voglio... inglobare anche il nulla? Una cosa scivola nell'altra e lega tutto un complesso complesso di cose. La parola, la scrittura non si fermano ad essere quello che erano in "IO SONO QUI", qualcosa di apparentemente ironico, fantastico, narrativo, anche se poi in realtà si scopre che entra in gioco lo scientifico.

La scrittura diventa anche comunicazione scientifica vera e propria: cioè ho scritto dei saggi. E allora in certe occasioni qualcuno mi ha detto... "Ma cosa ti metti a scrivere su un testo letterario! Ma cosa c'entra Diderot? Ma cosa c'entra questo con le arti figurative?" E invece c'entra, perché il mio lavoro è questo: tessere in maniera complessa le cose. Su Diderot ho lavorato seriamente, per sette anni (anche di ricerche teoriche e filosofiche). Ed ecco che ho fatto una mostra che si chiamava "DEN & DUCH": DENis Diderot e Marcel DUCHamp, e allora questi saggi scritti su Diderot e su Duchamp vengono anche messi in pubblico; ma non sono il retroterra che "illustro" mediante le opere, né le opere sono deduzione di una teoria espressa nei saggi. E' un complesso in cui mi permetto di affrontare "cose" che sono approfonditamente teoriche e anche pulsionali (...la pittura anche, sì! Un insieme di duecento ovali dipinti od oggettuali)...

Il lato riflessivo del mio lavoro non vuole affatto prescindere dalla pulsionalità, dall'istintività, anzi, mi sembra che la pulsionalità assuma significato nei confronti di un pensiero molto approfondito, e viceversa.

E' un concetto ancora romantico, con il suo contraltare positivistico, pensare che l'artista sia quello strampalato e intuitivo, mentre lo scienziato è l'uomo "serio" che lavora sulla "realtà".

D. L'artista deve dunque mediare tra queste due tendenze.

R. ...L'artista, o l'uomo di cultura, o l'essere umano! Io faccio "ARTE & NON ARTE" con tutta la pericolosità che questo comporta, non solo per me, ma anche per gli altri... Non credo che avere una complessità di pensiero cancelli l'istintività, né viceversa; l'artista o l'essere umano se si esprime, se fa cultura deve essere un po' "pazzo" e molto di pensiero, tutti e due gli atteggiamenti si compenetreranno per dare qualcosa di più complesso (quando parlo di arte e di scienza semplifico le cose, in realtà le possibili aperture sono assai più diramate!).

D. Rispetto ai movimenti del concettuale o simili, come crede di aver agito?

R. Anche recentemente, nel dibattito di presentazione al catalogo di questa mostra, si è sollevato il problema e mi si è riconosciuto di essere un anticipatore del concettuale e anche di chiamare in causa i rapporti con la storia dell'arte, quindi di aver promosso in qualche modo il citazionismo. Sono contento di questo anche se tendo a precisare che l'aspetto mentale del mio lavoro è molto più corretto e dialettico di quanto si è usato e si usa, e un discorso analogo posso fare per i richiami alla storia, che per me non è solo storia dell'arte.

E GIRANDO PER LA MOSTRA...

D. Parlando della mostra, possiamo percorrere l'itinerario da lei seguito nel momento in cui si accosta all'opera di Marcel Duchamp, con particolare riferimento al ready-made "Apolinère enameled".

R. Questa è una riproduzione del ready-made originale, ingrandito. Si tratta di una pubblicità di vernici: "SAPOLN ENA-MEL", lo smalto Sapolin, che Duchamp ha semplicemente preso e modificato in parte; cancellando delle lettere e aggiungendone altre: ha fatto venir fuori "Apolinère Enameled", Apollinaire verniciato. Io intendo che questa sia non una pubblicità di vernici, ma... una "pubblicità" di Duchamp... del suo inconscio. Chiaramente i Letti che ho costruito vengono fuori da Duchamp, perché DUCH non ha costruito dei letti, ha semplicemente scelto questa targa, che ora si trova al museo di Philadelphia. Ho notato che il letto rappresentato nella pubblicità di vernici contiene degli errori: una barra non prosegue fino al suo montante, allora ho deciso di costruire il letto per vedere se veniva fuori un "oggetto illusorio". Proseguendo il lavoro ho pensato più radicalmente che fosse anche un autentico "oggetto proiettivo".

D. Così lei ha deciso di costruire due letti, uno giusto ed uno sbagliato.

R. Sì, un "Wrong bed" e un "Right bed". Un altro particolare, secondo me importante da osservare, è la firma che Duchamp scrive in basso a sinistra nel ready-made: [from] Marcel Duchamp, invece di essere by, quindi questa non è solo un'opera di Duchamp, ma viene dal di dentro di Duchamp.

D. Inoltre il from si trova tra parentesi quadre.

R. Sì giusto, è anche censurato quasi, è un dire e non dire; per giunta chiuso fra parentesi quadre sembra essere una comunicazione un po' reticente da parte di Duchamp: Apollinaire poeta, amico di Duchamp, verniciato.

D. Un poeta, come Apollinaire, è per eccellenza colui che tira fuori il sentimento.

R. Anch'io penso questo, allora la parte affettiva di Duchamp è verniciata, la bambina, il suo inconscio, sta dipingendo il letto, lo sta occultando. Poi il letto è più triangolare che quadrangola-re... quindi, per dirla in parole molto semplici, Duchamp... non è un uomo "quadrato"; "sul tappeto" ci sono problemi di un Duchamp non quadrato, e lui forse ce li vuole dire. Tutto questo credo che sia proiettivo, non un rebus che lui nasconde, ma piuttosto una proiezione inconscia che conferisce una ben altra complessità al suo lavoro. Un lavoro fortemente innovativo da un punto di vista linguistico, perché il ready-made credo che sia uno dei raggiungimenti più importanti di questo secolo sul piano espressivo, ma dietro questa rivoluzione linguistica a mio avviso c'è tutta una sostanza autoproiettiva che fa dell'opera qualcosa di "necessario" all'artista.

D. A questo punto si potrebbe obiettare che ogni artista opera una proiezione di se stesso nell'opera. r. Sì, però mi sembra che l'opera di Duchamp, come quella di Diderot o la "Vita Nuova" di Dante siano una sorta di appassionante e puntualissima "autoenciclopedia" della propria proiezione, quindi qualcosa di conseguente e molto elaborato; in questo senso io intendo entrarci dentro. Nei letti ho riportato i colori del ready-made duchampiano: essendoci l'azzurro, il rosso, il verde, ci si aspetterebbe il giallo, invece c'è questo coloraccio un po' abnorme; perché? Ho provato a mescolare tutti questi colori: naturalmente i colori complementari si annullano a due a due e danno un colore sporco. Quindi, come la struttura è cortocircuitata, lo sono anche questi colori. Di conseguenza ho costruto un "letto corretto" dove è stato reintrodotto il giallo al posto del nero. Sarà da notare che nella placca pubblicitaria ci sono però i colori originali del ready-made che sono diversi.

D. Quindi Duchamp stesso ha cambiato i colori della targa in un'altra versione del suo ready-made.

R. Sì, la gamma cromatica a cui faccio riferimento è quella dei colori realmente "approvati" da Duchamp, sulla replica per la "Boite-en-Valise" del 1936. Il mio lavoro consiste, non nell'imitare Duchamp per fare un altro ready-made, ma interpretare (e non tanto fare la psicoanalisi "psicologistica" di Duchamp), mettere nello spazio questi letti, rendersi conto che sono ambigui da un punto di vista percettivo, scriverci un saggio che fa sconfinare la cosa in altri terreni, molto più analitici e "veri" e vitali.

D. Passando oltre possiamo vedere i disegni progettuali dei due letti fatti al computer, questo è il letto "sbagliato" e quello il "corretto".

R. Nel letto corretto la struttura non riporta errori, come la cromia. Un altro errore che ho rilevato nel ready-made, sta nelle due testate, le quali non sono uguali: mentre una è formata da quattro barre, l'altra è composta da cinque, forse Duchamp nel 1916-17 era ancora un po'... "spastico"! (Sto scherzando, parlo di cose psichiche!)... Ecco, qui dietro la colonna è... "nascosto" il mio saggio psicoanalitico su Duchamp, dove in copertina si vede la versione piccola dei letti; nonché tant'altro: la cosa si complica ulteriormente, poiché questo saggio fa parte di una grossa mostra che si intitolava proprio "DEN & DUCH dis-enemeled", cioè Denis Diderot e Marcel Duchamp sverniciati e messi in parallelo. Oltre ad essere una teoria è anche un complesso di trecento opere, dove, per fare un solo esempio, ci sono dei "vasi fisionomici".

D. Sono detti fisionomici perché torniti sui profili di Duchamp e di Diderot.

R. Sì, tu hai svelato il segreto; poi ci sono tante opere che hanno a che vedere con questi due personaggi. Per questa mostra al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea ho fatto anche un video, realizzato al computer. Il calcolatore è entrato in campo non solo per costruire i letti, ma per "spiegarli" e, cosa più vera, per fare un'altra operina (in sottofondo c'è anche questo grillo parlante o... altoparlante). Tramite immagini sintetizzate digitalmente, il computer riproduce i due letti da me costruiti: il "Letto Right" e il "Letto Wrong". Spostando l'illuminazione nel "Letto Right" non succedono cose strane, nel "Letto Wrong" ci vuole una luce diffusa altrimenti l'ombra svela il "trucco". In questa mostra Luca Patella oltre ai due letti ha presentato anche altre sue "invenzioni" tra le quali l'immagine di un... invitante fondo schiena femminile sopra il quale si compone una scritta rosa, ondeggiante: "CON ETRE ET MALE". La stessa immagine, in versione integrale, è stata esposta, insieme ad una versione ridotta dei letti, alla Biennale Internazionale d'Arte di Venezia nel 1993.

R. Sopra questo... "grande sedere" c'è una scritta magrittiana che suona un po' ironica e un po' aggressiva: in francese può voler dire, omofonicamente, tante cose: conoscere è male, o è maschio, o conosce molto male; "con" può voler dire stupido, anzi... "fregnone"; quindi: nascere o essere femmina e maschio... Il problema è forse questo? Di essere simbolicamente pulsione o intuizione, e pensiero. Duchamp stesso non aveva raggiunto, questa integrazione di inconscio e coscienza, per questo Apollinaire era verniciato e rimosso...

D. Allora si può dire che l'Apollinaire di Luca Patella è sverniciato nelle opere che mette nello spazio o rappresenta tramite una multimedialità che parte dall'incisione fino ad arrivare all'animazione digitale; nel suo lavoro non è possibile individuare un unico stile ripetibile, la sua vuole essere un'arte in divenire?

R. Il mio lavoro però non è un'angosciosa ricerca del nuovo. Ora come ora non mi sembra che il puro raggiungimento di uno stile o stilema chiuda la questione. Più tradizionalmente, l'artista elabora uno stile e lo... perfeziona in opere più grandi e più belle; muoversi in campi diversi e farli scontrare uno contro l'altro è ciò che stimola invece il mio lavoro. In quest'ottica perfeziono il mio stile.

D. Ma qual'è il filo conduttore in queste diverse sperimentazioni; qual'è la coerenza che lega il suo lavoro esaminato globalmente?

R. Una volta un critico mi ha detto: "Tu fai cose così disparate e poi sei così riconoscibile". Per me questo suona come un complimento, perché non credo di essere uno che divaga, un eclettico che non ha poi alla base qualcosa che si ripropone, non escludo addirittura che io sia monotono nel mio fare. Una volta mi chiesero: "Possiamo definire la tua arte?" Io dico che più che de-finire la mia arte la dobbiamo continuare, perché finire non è il mio problema; con questa alternanza di tecniche, di modi, mi sembra di avere un respiro, altrimenti il perfezionamento di "un" modo di fare non mi soddisfa. "ARTE & NON ARTE", qui nella mostra espongo un operina con scritto "FACCIO L'ARTE & NON ARTE'", i colori sono rosa e celeste e, volendo, il celeste è vicino al pensiero e il rosa alla sensibilità...

D. E' un colore che si avvicina al rosso: la passione, il sentimento.

R. Sì, rosso "statu nascendi", l'alba. Invece l'azzurro è... l'alto del cielo che tutto copre e niente tocca. Mentre il rosso è il colore e il calore del fuoco che brucia. Forse bisogna essere intuizione e pulsione che brucia e "cuoce", e insieme pensiero che raffredda e che organizza. Forse questa potrebbe essere una delle chiavi del mio lavoro, ma non voglio dare una chiave de-finitiva, perché se la questione è conclusa me ne vado "a spasso" e smetto! Se sentissi che il mio lavoro è arrivato a un punto di ripetitività, se un lavoro si ripropone nella stessa maniera... io sono insofferente di fronte a questo. Avere problemi è il mio "mestiere", anzi il mio non-mestiere. Faccio anche delle cose che non sono artistiche, scavalcare e scavallare gli specifici è il mio specifico, anzi il mio aspecifico, cioè aprire queste porte che non sono solo quelle dell'intermedialità, dell'interdisciplinarità delle Arti. Eppure, sia chiaro: quando faccio arte intendo farla sul serio, non è che prendo alla leggera l'estetico! Tutto deve scattare a dei livelli che non sono più solo artistici: perché facciamo un'arte... impiccata a se stessa, io la voglio far scendere invece giù dal... patibolo, farla girare nel mondo dialettizzando tutte le semiologie possibili e tutte quelle che raggiungo e che mi interessano. "ARTE & NON ARTE", l'altra dicitura è "TUTTO & NIENTE", perché... "impicciarsi" di tante cose non è vero che sia così facile e privo di pericoli, mi sembra al contrario che uno possa... finire male!

D. Impicciarsi e impiccarsi, quali sono i pericoli che si possono incontrare?

R. Mettere in campo tante cose fa urtare i poteri specifici di tanti ambiti e quindi... urta i nervi a tante persone. Per esempio, nello stretto ambito della psicoanalisi e delle sue dinamiche di potere, io non sono nessuno, eppure me ne occupo, faccio un'arte che è anche critica. E poi sai che Prometeo era incatenato ed era... beccato e roso nel fegato! Comunque non vedo altra linea che quella rettilinea!

D. Il momento conclusivo della mostra è forse un momento felice, in cui l'artista gioisce di far partecipi gli altri del suo lavoro, dei suoi risultati?

R. Sì, in qualche modo questo è vero, addirittura mettersi in mostra stimola il narcisismo proprio dell'artista, ma per queste vie "artistiche-autistiche" il mostrare sé lo posso intendere anche come un imporre qualcosa agli altri e quindi esserne profondamente insoddisfatto. Questo sarà pure un problema psicologico mio, ma ha anche a che vedere, più radicalmente, con la messa in crisi che è promossa non da un atteggiamento non arroccato nella tradizione dell'opera chiusa in se stessa, ma al contrario sguinzagliato sul mondo della comunicazione e del farsi della vita. Quindi mostrare e mostrarsi ho detto che è una "s'offerenza"... perché in fin dei conti dietro il tutto c'è il niente, vorrei dare tutto me stesso all'altro, ma forse agendo con tante semiologie e linguaggi, non proietto che l'ombra delle mie parole. Comunque, i temi che tratto nel mio lavoro sono anche quelli che vivo: spero che sia un segno di autenticità. E ora mi fermo e mi firmo Luca Patella e ringrazio te, perché questa volta mi fermo e mi firmo con l'aura [Laura], ma non... l'"aura dell'artista", l'aura invece espansiva di un'ARTE & NON ARTE, di un TUTTO & NIENTE... e spero di fermarmi solo sull'orlo ventilato del burrone, dove il ciglio non è tanto il ciglio di un occhio spalancato e bello che guarda estatico ed estetico, ma potrebbe essere il ciglio del burrone che si affaccia sul mare dell'inconscio lontano, oscuro o risplendente! Guarda che Bellezza e che Vita, pericolosa distesa e fremente!... Ne saremo all'altezza? E alla bassezza...



	
 

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