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Importanza educativa delle collezioni civiche, un caso di studio  
Mercedes Auteri
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 26 Gennaio 2010, n. 551
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La quadreria che Giovanbattista Finocchiaro, presidente della Suprema Corte di Giustizia di Palermo, aveva messo insieme durante la sua vita, invidia di ogni collezionista dell'epoca, fu da lui lasciata in eredità alla sua città natale, Catania, perché non più solo pochi ne godessero, ma un’intera comunità. Una vera e propria fortuna, opere dei più noti pittori del Seicento e Settecento siciliano (Novelli, Lo Verde, Serenario, Giuseppe Patania) insieme a alcune tavole, anche precedenti, allora attribuite a scuole di grandi maestri del panorama artistico internazionale quando non direttamente a loro (Wobreck, Polidoro da Caravaggio, Correggio, Lanfranco, Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Domenico Zampieri detto il Domenichino, José de Ribera detto lo Spagnoletto, Caravaggio, Gerard van Honthorst detto Gerardo delle Notti, Stomer, Rubens, Paladini, Preti, Borremans) [1] .

Questa fortuna, purtroppo ancora solo in parte studiata, identificata ed esposta, oggi si ritrova riunita per la prima volta in una mostra, a cura di Luisa Paladino (in corso fino al 21 marzo al Museo di Castello Ursino), che ha il merito principale di avere arrestato la dispersione di una collezione così importante per la città di Catania. Era stata imbarcata su un veliero nominato Fortuna e, nel 1826, arrivò dove Finocchiaro era nato e dove la sua fortuna poco più tardi finì. Ci sono voluti ormai due secoli per rimetterla insieme e per scoprirla ridotta (quasi dimezzata da incuria e ruberie, infatti, meno di settanta dei centoventitré pezzi lasciati sono stati ritrovati dalla Soprintendenza), non sapendo ancora che ne sarà quando la mostra temporanea che la espone si concluderà.

Dopo un primo periodo, trascorso nei palazzi del Municipio, fu destinata al Museo Benedettino del Monastero di San Nicola l’Arena che, in seguito alle spoliazioni dell’asse chiesastico del 1866, era divenuto, contenitore e contenuto, Comunale.

L’istituzione dei musei comunali e la legge Casati sull’istruzione nascono, strumenti di unione e progresso, per le comunità della nuova nazione. «Tuttavia, ben pochi storici – per non dire nessuno – hanno ricordato come questo diffuso disagio che condurrà alla eliminazione di circa 4.000 edifici e alla frequente dispersione delle sostanze patrimoniali connesse, si ponga ben visibile, dichiarato, e purtroppo molte volte disarticolato, alle origini del Museo civico che la cultura governativa volle fornire alla società italiana insieme con la Legge Casati sull'istruzione. In quel luogo, le virtù della città, principio unico e solo della storia italiana, avrebbero dovuto saldarsi alle comunità, narrarne la storia e ispirarne il futuro». [2]

Arte e istruzione dentro ai Comuni dell'Italia neonata, insieme al seme di un futuro migliore; se non fosse che i tempi per la semina e, ancora di più, quelli per la raccolta dei frutti nati da quel connubio non erano maturi. Le normative sull'obbligo scolastico furono disattese (soprattutto nelle regioni meridionali dove l'analfabetismo coinvolgeva, in alcune zone, il 95% della popolazione) [3] e, così, anche la capacità di fare dei musei e delle biblioteche le roccaforti di una conoscenza più diffusa. Malauguratamente, a Catania, i tempi furono così lenti che nonostante le spoliazioni delle chiese, ancora oggi, sono solo quelle, insieme al Museo Diocesano, a risultare le principali fonti di educazione all'arte esposte ai visitatori in maniera permanente, in quanto riesce impossibile visitare un museo civico, laico e pubblico, in grado di tutelare e rendere fruibili le collezioni che pure, questa mostra ne è un esempio, la città possiede [4] .

Giuseppe Galasso fu tra i primi a chiarire un concetto che, torna utile per comprendere l'importanza delle collezioni civiche nella costruzione delle identità, dagli storici fu chiamato particolarismo [5] e che interpreta, su diversa scala, differenti fenomeni (le economie, le istituzioni, le classi sociali) dimostrando come, variando la scala di lettura di questi, possono variare i significati. Giovanni Previtali, nei primi quattro volumi della Storia dell'Arte Italiana Einaudi (poi continuata da Federico Zeri), si sofferma su questi aspetti che privilegiano i caratteri particolari della vicenda italiana plurisecolare e differenziata, taciuta dalla storiografia post-risorgimentale e liberale per osannare quella della conquistata unità, e li contestualizza legandoli ai fenomeni artistici.

Nel primo volume, appare il saggio (1979) di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg titolato significativamente Centro e periferia, testo a quattro mani di uno storico dell'arte e di uno storico, che Cesare De Seta riprende nel suo volumetto sul Perché insegnare la storia dell'arte. In uno dei paragrafi, unisce le suggestioni ricevute dalla precedenti citazioni, Il «particolarismo» della storia dell'arte in Italia: centro e periferia, e scrive «A ogni storia particolare corrisponde uno spazio […]. Spazio storico è la città: indagare il meccanismo di formazione, di crescita o di distruzione della città è un'esigenza imprescindibile per la conoscenza della nostra civiltà che per definizione è una civiltà urbana. Emerge con forza il paesaggio come struttura fondante dell'identità storica e formale del paese, […] studiarne l'iconografia è parte di questa conoscenza, e ci svela aspetti e problemi che solo quel tale dipinto o quella tale incisione possono offrirci in tutta la loro pregnanza. […] La relazione che si istituisce tra spazio storico e manufatto, sia essa tavola dipinta, arredo o ambiente urbano è, alla luce di queste considerazioni, strettissima: essa si misura in primo luogo a livello di scala e non più secondo il metro tendenzioso del valore, dell'unicità o dell'irripetibilità». [6]

Questo, non prescindendo da un momento unificante che offra un quadro complessivo della storia dell'arte italiana non più gerarchizzata e, di conseguenza, lontana dalla complessa rete dei beni culturali esistenti sul territorio. Per rimanere alla Collezione Finocchiaro, la possibilità di comprendere uno spaccato del collezionismo dell'isola che faceva eco a un fenomeno internazionale molto più complesso, studiare i pittori siciliani d'età moderna, riconoscere i passaggi in Sicilia di artisti legati a scuole che facevano riferimento a nomi più conosciuti. Un esempio fra tutti è dato dalla possibilità di seguire il percorso caravaggesco in Sicilia [7] , partendo dalla copia che Paolo Geraci fece della sua Natività con i Santi Lorenzo e Francesco, ora unica testimonianza del soggiorno palermitano di Caravaggio, essendo l'originale stato trafugato dalla mafia nel 1969, e continuando con altre opere di artisti presenti in questa mostra che traggono ispirazione dai suoi capolavori, come Stomer, Paladini, Preti.

Se «le vicende del territorio, delle campagne e delle città, gli spazi storici si pongono oggettivamente come il quadro entro cui si rinvengono tutte le attività umane, dalle più umili alle più raffinate: dal cucchiaio di legno della civiltà contadina alla saliera di Cellini […] l'ideologia della mercificazione che governa il mondo dell'arte ne riceverebbe un fiero colpo, l'indifferenza nella quale si è dilapidato il nostro patrimonio storico e artistico si trasformerebbe in consapevole coscienza della necessità della sua tutela. E la tutela è indispensabile condizione per una riappropriazione collettiva di tale patrimonio» [8] . Questo modello di educazione al patrimonio verrebbe a coincidere con quello che, alla fine del secolo XVIII ha originato il modello italiano di tutela e che Antonio Pinelli, commentando l'ultima lettera di Antoine Quatremère de Quincy, ha definito «sillogismo imperniato sul concetto di contestualità della cultura di contesto italiano» che è il principio per cui il riconoscimento della relazione che ogni opera istituisce con il suo ambiente è il motivo più sostanziale della sua difesa [9] . A Catania questa visione illuminata delle cose era, in verità, arrivata proprio in quel secolo, e con ampio anticipo su tante altre città d'Europa, iniziata da Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari che, a soli ventiquattro anni, nel 1743, dichiarò al Senato di volere continuare le ricerche del padre (che aveva recuperato dalle rovine del terremoto diversi reperti, soprattutto marmi medioevali e rinascimentali) con campagne di scavo che permettessero di recuperare il passato greco e romano della città, offrendosi di erigere un museo, poi costituito nel 1758, «a beneficio del pubblico, per gloria della patria, a uso degli studiosi» [10] .

Quest'uomo, di cui purtroppo nessuno dopo fu capace di emulare l'insegnamento nella sua città, riuscì a rappresentare Catania attraverso il suo museo, agli occhi del pubblico locale (benché in quel periodo fosse ancora costituito prevalentemente da ecclesiastici, aristocratici, studiosi) e di quello internazionale, inserendo la città nell'iter italicum [11] seguito dai viaggiatori stranieri dei secoli XVIII e XIX. «Chi non conosce lo straordinario lavoro operato dalle cento città della cultura italiana fra il secolo barocco e il nuovo secolo della conoscenza dinamica e fisica, e cioè del XVIII secolo del grand tour europeo, non riuscirà mai a comprendere quasi nulla non solo della vitalità tuttora superstite di questo singolare paese dove davvero la città è il principio unico di ogni storia, ma resterà indifferente in ogni caso al sentimento locale che avvia e nutre con continuità il modello italiano della tutela» [12] . Questo modello e quella vitalità Catania ha dissolto, dimenticato, trascurato. La dispersione della Collezione Finocchiaro è solo uno degli esempi purtroppo numerosi a cui sono state sottoposte le collezioni civiche che riunivano quelle notevoli, qui menzionate, dei Benedettini e di Biscari (specchio della città ricostruita dopo il terremoto e della sua storia antica estratta da sotto le macerie), a cui sempre più raramente, data l'incuria con cui furono (e in gran parte sono) abbandonate, seguirono altre (acquisizioni o donazioni di collezionisti e artisti). Il gesto di allestire un oggetto non è mai neutrale e risente di ideologie, tensioni sociali, credi politici, tradizioni e consuetudini locali. Bisogna ripensare il concetto di museo come autorappresentazione della comunità in cui sorge. Non si può parlare di museo se non si ammette che siamo noi, la società dentro cui vive e opera il museo, gli artefici di ciò che esso è, di ciò che rappresenta, di ciò che conserva e di come lo racconta [13] . Per questo, la storia dei musei catanesi dell'ultimo secolo non ci fa onore [14] e, da subito, andrebbe letta con la volontà di porre rimedio a tante noncuranze, andrebbe scritta cominciando un nuovo capitolo.

I catanesi aspettano da generazioni di visitare il loro museo e di vedere le loro collezioni ma c'è una pratica dell'arte e a cui bisogna riavvicinarli, dopo decenni di mancanze, e un amore per i beni culturali a cui ispirarli. Questo potrà avvenire solo esponendo in sedi adeguate il patrimonio storico artistico della città in maniera permanente, curandolo e tutelandolo, selezionando con attenzione gli addetti alla gestione, per competenza e specializzazione, collaborando con scuole e università. Per tradurre in apprendimenti e comportamenti significativi e consapevoli le opportunità che la funzione educativa del museo offre non solo al cittadino in età scolare, ma a tutti i pubblici, attraverso un'affezione al patrimonio, intesa quale «attività formativa formale e informale che, mentre educa alla conoscenza e al rispetto dei beni con l’adozione di comportamenti responsabili, fa del patrimonio oggetto concreto di ricerca e interpretazione, adottando la prospettiva della formazione ricorrente e permanente alla cittadinanza attiva e democratica di tutte le persone» [15] .

In questo senso la pratica dell’arte, attraverso la sua conoscenza diretta (visite guidate differenziate per fasce d’età, laboratori manuali che avvicinino alle tecniche artistiche, laboratori concettuali che diano i principali strumenti di osservazione e lettura delle opere), consentirebbe quella alfabetizzazione necessaria a una città in cui questa è mancata per un tempo ormai troppo lungo.

La visione del museo come genius loci (da cui emerga, appunto, lo spirito del posto) e del museo come tutela attiva (che valorizzano quanto le comunità posseggono di specifico e di unico, dal punto di vista storico, ambientale, culturale, spirituale e materiale, che alimentano l’innovazione e la cooperazione intellettuale, che potenziano le attrattive del territorio), si pone come la migliore a valorizzare le potenzialità educative delle collezioni proprietà della città.

«Nell'epoca della cultura planetaria, globalizzata; quando non è più necessario raccogliere nei pochi centri del sapere delle città capitali grandi biblioteche e grandi musei enciclopedici, perché questo compito è svolto dalle reti di informazione telematica, dalle infostrade che portano a casa tutte le conoscenze del pianeta; diventa invece indispensabile riconoscere (e approfondire) la diversità e la specificità culturale dei singoli paesi, e delle anche minime storie culturali: presentare cioè nei luoghi, nei contesti, nei paesaggi dove sono nati, i beni culturali che ad essi appartengono; in piccoli musei che permettono di rivivere ogni speciale e particolare genius loci» [16] . Una specificità che conservi e difenda la cultura attraverso la sua manifestazione concreta rappresentata dalle opere.

«Le opere d'arte svolgono da tempo la funzione che in secoli lontani ebbero le reliquie: conferire alla comunità che le possiede un'aura di prestigio che supera la potenza militare o economica, per toccare le sfere più alte della spiritualità umana. La sindone era uno strumento politico, così come qualsiasi reliquia, per esempio la lancia custodita nel Duomo di Norimberga appartenuta dapprima a Costantino e poi a Carlo Magno: oggetti come questi muovevano folle di pellegrini e davano autorevolezza alla comunità che le aveva sapute conquistare e custodire» [17] . Questa autorevolezza e quell'aura può cercare di riconquistare e ricostruire la città di Catania, attraverso una politica culturale più accorta, testimonianza di civiltà, cominciando proprio dalle sue collezioni civiche.







NOTE

[1]               Cfr. C. Ardizzone, I quadri in pittura donati da G. B. Finocchiaro al Comune di Catania esistenti nel Museo civico ai Benedettini, Catania 1927.

[2]               A. Emiliani, L'occhio di Napoleone a Catania in Il Museo Civico di Castello Ursino. Introduzione al nuovo ordinamento di A. L. D'Agata e C. Guastella, Catania 2000, p. 6.

[3]               Bisogna ricordare che la lentezza del processo di alfabetizzazione della popolazione italiana non fu dovuta solo all'attribuzione ai Comuni di ruoli fino a allora appannaggio della Chiesa e alla richiesta di provvedere all'istruzione e al mantenimento delle scuole elementari ma, anche, alla struttura economica e sociale di un'Italia appena unificata, in cui il 69,7% della popolazione era dedito all'agricoltura, dove vi era una rigida stratificazione sociale, forti resistenze di gruppi reazionari, una domanda d'istruzione da parte delle famiglie ancora limitata anche a causa delle misere condizioni di vita di alcune classi sociali. Cfr. A. L. Fadiga Zanatta, Il sistema scolastico italiano, Bologna 1976, pp. 58-59.

[4]               Cfr. G. Campo, Presentazione in Castello Ursino di Catania. Gli anni dei restauri 1988 – 2008 a c. di Fulvia Caffo, Catania 2009, p. 13 e, anche, G. Campo, Strutture stabili ed educazione: così si vince la sfida del futuro in La Sicilia, 6 luglio 2009.

[5]               Cfr. G. Galasso, L'Italia come problema storiografico, Torino 1980.

[6]               C. De Seta, Perché insegnare la storia dell'arte, Roma 2008, pp. 60 – 62.

[7]               Cfr. A. Spadaro, Caravaggio in Sicilia. Il percorso smarrito, Acireale 2008.

[8]               Cfr. C. De Seta, op. cit., Roma 2008, pp. 67 – 69 e, anche, C. De Seta, Bella Italia. Patrimonio e paesaggio tra mali e rimedi, Milano 2007.

[9]               Cfr. Lo studio delle arti e il genio dell'Europa, a cura di A. Pinelli, Bologna 1989.

[10]              Cfr. D. Sestini, Il Museo del Principe di Biscari, Firenze 1776, ristampa anastatica con introduzione di G. Salmeri, Catania 2001.

[11]              Cfr. E. Iachello, Immagini della città. Idee della città, Catania 1999 e, anche, E. Iachello, La città del principe e del vulcano, Catania 2004.

[12]              A. Emiliani, in Lo studio delle arti…, op. cit, Bologna 1989, p.10.

[13]              Cfr. P. Marani, R. Pavoni, Musei. Trasformazioni di un'istituzione dall'età moderna al contemporaneo, Venezia 2006, pp.23 - 30.

[14] Cfr A. Spadaro, Il Castello Ursino e i musei di Catania nel XX secolo in Ricerche, Periodico trimestrale di Scienze e cultura anno 10 n.3/4 2006.

[15]              Cfr. A. Bortolotti, M. Calidoni, S. Mascheroni, I. Mattozzi, Per l’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, Milano 2008.

[16]              A. Mottola Molfino, Musei locali e musei universali in Kalòs Arte in Sicilia, anno 19 n.4, ottobre - dicembre 2007, p.29.

[17]              A. Vettese, Ma questo è un quadro?, Roma 2005, p.27.






Natività con i Santi Lorenzo e Francesco

Fig. 1
PAOLO GERACI, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco, 1627 Olio su tela
Catania, Museo di Castello Ursino

San Cristoforo

Fig. 2
PIETRO NOVELLI, San Cristoforo, 1637
Olio su tela
Catania, Museo di Castello Ursino

Cristo Deriso

Fig. 3
MATTHIAS STOMER, Cristo Deriso, 1640
Olio su tela
Catania, Museo di Castello Ursino

Rebecca al pozzo

Fig. 4
Ambito Meridionale, Rebecca al pozzo, sec. XVII (particolare)
olio su tela
Catania, Museo di Castello Ursino

Mosè e la caduta della manna

Fig. 5
Ambito napoletano, Mosè e la caduta della manna, sec. XVII (particolare)
olio su tela
Catania, Museo di Castello Ursino



	

Foto cortesia Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Catania



	

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