Non
colui che ignora l'alfabeto
bensì colui che ignora la fotografia
sarà l'analfabeta del futuro
W.
Benjamin
Una passeggiata ai sali
d'argento
“Les
Rencontres d'Arles”, festival annuel
consacré à la photographie giunto alla quarantunesima edizione, costituisce
il percorso ideale per il flâneur- fotografo - appassionato d'arte.
L'evento è da
sempre strutturato come abbraccio simbolico tra echi del tempo nello scenario
arlesiano, silenzioso e pieno di luce, e le opere fotografiche. L'antico e il
contemporaneo si intrecciano: la storia di Arles e le immagini provenienti da
tutto il mondo si incontrano in un unico spazio dandosi il consueto
appuntamento per una “passeggiata d'estate” in un'atmosfera surreale. Gli artisti
si presentano e si esibiscono all'interno delle arene, quasi si trattasse di
spettacoli di eredità romana, mentre le opere vengono disseminate in edifici -
rovina, vecchie stazioni ferroviarie reinventate a museo - spazio espositivo e
interni spogli che si vestono per l'evento fotografico.
La visita
diventa molto simile ad una passeggiata baudelairiana coperta da quella polvere
magica che è il fascino della città. Lo spettatore - flâneur si sposta
da una sede all'altra: ogni angolo di Arles è una nube semantica dedicata
all'arte.
La fotografia,
regno dell'immagine, diventa il terreno di gioco dove si affrontano -
confrontano, si sfidano - si compenetrano le nuove espressioni provenienti dal
mondo dell'arte. Non c'è una regola precisa perché l'esposizione (proprio come
il fotografo contemporaneo) diventa una rete concettuale di idee, tecniche,
tecnologie diverse che interagiscono ludicamente tra loro e con lo spettatore.
Le esposizioni,
le visite guidate, gli stages, le conferenze, i giochi visivi, i concorsi
sono animati dal fascino degli “incontri”: Les “Rencontres” d'Arles.
La fotografia
non è solo una forma d'arte, ma un modo di pensare: l'immagine è il filo rosso
del contemporaneo, l'alfabeto del futuro già preannunciato da Benjamin.
Quella piccola scatola magica, così simile al funzionamento del pensiero dove
l'obiettivo - occhio è guidato da una macchina - mente,
è un gioco per interagire con la realtà, strumento di scoperta e conoscenza, un
modo di vedere e capire. “La fotografia aiuta a
pensare, intrecciare storie, mettere in relazione indizi e trovare nuovi
significati alle cose. La fotografia aiuta a ricordare, a collegare eventi
lontani, a guardare oltre l'apparenza, a districarsi nel labirinto dei segni” [5] .
L'edizione 2010
del festival fotografico è strutturata come serie di promenades,
passeggiate ideali attraverso nuclei tematici che coniugano immagini, suoni,
storia e arte in una mappatura tematica arlesiana tra tradizione e innovazione.
Il percorso più
affascinante per gli amanti della fotografia - tecnica - gioco - passato è la Promenade
Argentique, un'intelligente panoramica sulla tradizione analogica che mira
ad evidenziare come il digitale, ormai affermato e diffuso, in realtà non abbia
inventato nulla in termine di manipolazione. I nuovi canali espressivi hanno
solo applicato, con mezzi diversi, idee e prototipi che derivano da teorie
dell'immagine. L'arte, come insegna Benjamin ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica,
ha sempre avuto il compito di creare esigenze che, in quel momento, non è in
grado di soddisfare.
La passeggiata
arlesiana “ai sali d'argento” omaggia tecniche e procedimenti da salvaguardare
come pregiatissime pozioni di alchimisti e stregoni che, da sempre, incantano
gli spettatori con una magia ad effetto sorpresa.
Shoot !
La Promenade
Argentique ha attirato curiosi, bambini, fotografi e artisti, irretendoli
in uno dei passatempi più diffusi nelle feste popolari del primo Dopoguerra, le
tir photographique. Questo particolarissimo gioco ha dato il nome ad una
sezione dell'esposizione: Shoot! La photographie existentielle.
Il curatore, non a caso, è Clément Chéroux, uno
che con i giochi ci sa fare soprattutto quando si tratta di fautographie: “Dans les années qui suivirent la
Première Guerre mondiale, une curieuse attraction apparut dans les fêtes
foraines et les Luna Park: le tir photographique. Lorsque le tireur touchait la
cible en son centre, il déclenchait un appareil photographique qui,
instantanément, le prenait en pleine action. Plutôt qu’un cornet de pralines,
un ballon de baudruche, ou un ours en peluche, il gagnait alors son propre
portrait en train de tirer. La valeur hautement métaphorique du tir
photographique n’échappera à personne. Le dispositif repose sur un étrange
face-à-face entre le tir et la photographie, deux pratiques gémellaires comme
en témoigne leur communauté de vocabulaire: shooter, viser, recharger, etc”.
L'affinità
tecnica e semantica del gesto, nello scatto e nello sparo (entrambi traducibili
come shot nella lingua inglese), è evidente e legata alla tradizione
della fotografia che, intorno agli anni Venti, diventa un divertissement
per tiratori.
Lo scatto segue
lo stesso processo che porta allo sparo: la cura nella scelta del
soggetto/oggetto, il mirino di precisione, l'inquadratura sono gesti che
accomunano i due shots. Il fotografo non è diverso da un soldato, un
tiratore scelto, o meglio un cecchino, uno sniper: l'arma da fuoco, come
la macchina analogica, ha bisogno di essere “ricaricata” dopo lo shot.
La mente si concentra
sul cerchio - bersaglio - tondo - obiettivo: fotografare, come insegna Henri
Cartier-Bresson,
significa porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi, il cuore.
La fotografia,
dal canto suo, ha prodotto una serie di apparecchiature al servizio della
macchina che rievocano il gesto dello sparo: basti pensare al photosniper/fotosniper,
un supporto che permette di utilizzare la macchina come un fucile di precisione
premendo un grilletto per scattare.
I fucili dei
tiratori scelti venivano agganciati a cavalletti molto simili a quelli
utilizzati in fotografia per diminuire le vibrazioni corporee.
Il fotografo,
impegnato nell'inquadratura, chiude un occhio: allo stesso modo il cecchino
(probabile evoluzione del termine “ciechino”) concentra l'attenzione sul
bersaglio tenendo solo un occhio aperto.
Il fotografo -
cecchino monocolo strizza l'occhio proprio come un miope. L'idea riporta alla
poesia di Valerio Magrelli nella raccolta Ora Serrata Retinae
del 1980: il titolo “letteralmente sta a significare il margine
frastagliato della retina. Anche le due sezioni interne sono orientate in
direzione dello stesso mondo cinico: ‘equator
lentis’, con un’eco geografica, e ‘rima
palpebralis’, con un evidente gioco di parole tra l’effetto fonetico proprio
della poesia e la fessura delle palpebre strette dal miope”.
Magrelli vede
nel miope - mistico una somiglianza etimologica e concettuale che mischia
malattia e visione. “Il termine 'miope' appartiene alla stessa famiglia di
'mistero' e 'mistica' : miopia, mistica, mistero hanno tutti come origine il
termine ‘mystes’, un vocabolo greco
che sta a indicare ‘colui che stringe gli occhi per vedere lontano’. Cercavo,
cioè un’interpretazione capace di collocare un difetto fisico, una patologia,
all’interno di un quadro più ampio: la commistione di malattia e visione, la
ricchezza percettiva prodotta da una mancanza”.
Gli occhiali,
come protesi, rimandano alla scena finale de La Coscienza di Zeno (1923)
di Italo Svevo, ma anche al concetto stesso di foto-grafia come scrittura di
luce: “La miopia si fa quindi poesia, /dovendosi avvicinare al mondo per
separarlo dalla luce. (...) L’unica cosa che si profila nitida è la prodigiosa
difficoltà della visione”.
I versi di Ora
Serrata Retinae sono legati alla fotografia di Arturo Bragaglia, Il
Miope, una specie di talismano e “filo rosso”
dell'antologia poetica di Magrelli. Il miracolo della vista trova linfa
perfetta nelle forme del viso dove l'arcata sopraccigliare rimanda ad un
acquedotto di sguardi.
L'elemento liquido echeggia di una visione poco definita, vaporosa, quasi
impalpabile, sfuocata, proprio come nella percezione di un miope.
La narcosi
fotografica
L'immagine
liquida rievoca il mito di Narciso in contemplazione del suo riflesso, un finto
autoritratto che genera nel soggetto una specie di paralisi, come insegna
McLuhan ne Gli strumenti del comunicare.
C'è una chiara continuità semantica tra “Narciso” e “narcosi” che richiama il
parallelismo tra malattia e visione cercato da Magrelli.
La figura del tiratore
immobile che gioca al tir photographique rappresenta la sua
paralisi: se riesce a centrare il bersaglio, un meccanismo aziona lo scatto che
immortala il vincitore in una fotografia: il suo premio è l'immagine di se
stesso in un autoritratto. Lo sparo (shot) ha creato uno scatto (shot):
c'è un unico termine per due concetti come se si trattasse di uno specchio di
significato.
Il giocatore si
trova di fronte a una finta copia di sé in un confronto - duello che ha il
sapore dell'autodistruzione: “Dans ce duel à mort naît pourtant une image. En regardant après coup son portrait, le
tireur se trouve à son tour mis en joue. C’est sur lui-même qu’il fait
désormais feu. Il est probable que les concepteurs du tir photographique aient
d’ailleurs parié sur le désir de leurs clients de se faire un carton dans leur
ego, par image interposée. Tentation du duel avec soi-même, émoi de devenir son
propre exécuteur, vertige de l’autodestruction… juste pour voir”.
Il tema della
morte crea un legame tra il fotografo e lo sniper. Lo scatto - sparo è
azionato da un pulsante che fissa
l'istante e lo ritaglia dal continuum vitale e temporale. Come insegna
Susan Sontag, “ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia
significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità
di un'altra persona (o di un'altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato
momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l'inesorabile azione
dissolvente del tempo”.
Il cecchino è un
tiratore addestrato che esegue un ordine: l'azione è legata ad una missione di
morte. Questi aspetti riportano ancora una volta alla poesia di Magrelli, in
particolare alla raccolta Natura e venature
del 1987: c'è un richiamo continuo all'idea della macchina, alla lesione e alla
fotografia come impatto-missione. L'ambientazione riguarda l'azione kamikaze
dei piloti giapponesi: “Ogni volto fotografato / è un'immagine bellica, / il
punto di tangenza / tra l'aereo nemico e la nave / nell'attimo che precede
l'esplosione. / Fermo nell'istantanea, / nel contatto flagrante tra due sguardi /
immortalato, ripreso / mentre le fiamme covano già / nella fusoliera crescendo /
dentro ai suoi tratti, vive / soltanto il tempo necessario / a compiere l'azione
del ricordo”.
Magrelli, in
questi versi, riunisce morte, missione e ricordo: “il tutto per paragonare
l'immagine a un souvenir (…) consegnato al destinatario tramite un
sacrificio”. L'immagine viene immortalata in una specie
di capsula temporale: l'istante si blocca sottraendo il soggetto al fluire del tempo,
alla vita. La fotografia - souvenir diventa un objet trouvé che
conserva la memoria dell'oggetto/soggetto.
Nel Novecento le
istantanee vengono utilizzate come immagini da inglobare nella struttura
compositiva del collage. Lo scatto (shot) è un ritaglio (snip)
che risponde alla poetica del frammento (snippet). Il diaframma si
comporta esattamente come le forbici. C'è un chiaro taglio visivo anche nella
scelta dell'inquadratura.
Il tema del
taglio naturalmente riporta alle Parche e all'azione del cecchino (sniper). La
radice terminologica di snip, snippet e sniper è la stessa. L'affinità
non è solo linguistica, ma anche contenutistica: è come se la fotografia
venisse rivelata come un'azione violenta (il taglio) necessaria alla creazione,
ad una nascita. Magrelli, nella rubrica Fotografia all'interno di Didascalie
per la lettura di un giornale,
descrive lo scatto come il taglio del cordone ombelicale: “É lo scatto che
recide l'ombelico / della luce. Recide, quella forbice, / il filamento lento e
lungo dello / sguardo, budello / del nutrimento, separa / perché l'immagine / venga
al mondo dividendosi / dalla madre”.
La nascita è il
“sacrificio”, un taglio, una forma di violenza, così come la fotografia sulla
scia benjaminiana: “La presa ferma, apparentemente brutale, fa parte
dell'immagine della salvezza”.
Il fine mistico
delle lame ha qualcosa di religioso e salvifico. I versi di Magrelli si
concludono, infatti, con un'immagine mosaica: “E quella pupa d'ombra, / quel
bozzolo, è la cesta / lasciata a galleggiare sulle acque / per mettere in salvo
la forma”.
La fotografia
per l'arte
La fotografia -
forma generata dal taglio è una cesta - bozzolo che appartiene al mondo degli
insetti. “Insetto”, in inglese, si traduce come bug/insect, ma anche
come ephemera. É un oggetto
trovato, materia effimera per gli assemblages.
L'idea
dell'istantanea intrecciata all'arte contemporanea non è casuale: Duchamp vede
la fotografia al pari di qualsiasi altra tecnica, mentre i Surrealisti
utilizzano gli scatti, sia come immagini per il collage sia per
autenticare l'inganno visivo dato dagli accostamenti scioccanti.
La fotografia
come objet trouvé diventa materiale per gli assemblages, regno
lillipuziano della poetica della meraviglia. Le opere hanno il fascino della
miniatura: questo termine deriva proprio dalla pratica del “dare luce/
illuminare” (illumination - enluminure). La foto-grafia è per definizione una scrittura di
luce.
Il concetto di luce -
ombra è tema portante del mito narrato da Plinio sull'origine dell'arte come cattura
di un'assenza. Allo stesso modo la fotografia cattura l'immagine della realtà
attraverso uno spettro, la luce, che disegna e lascia apparire le forme.
La tecnica fotografica,
fin dalle sue origini, ha affascinato gli artisti per questa “apparizione”. La
magia completa il mistero alchemico
delle soluzioni utilizzate nei procedimenti tecnici regalando un'immagine agli
osservatori increduli. Proprio questa strana “apparizione” ha ispirato uno dei
personaggi più amati dai bambini dell'epoca vittoriana: il Gatto del Cheshire o lo Stregatto di Alice's Adventure's in Wonderland [29] . Lewis Carroll era un
grande appassionato di fotografia, arte - tecnica - magia a cui dedica una
serie di scritti di natura specialistica, ma filtrati da quella visione
d'incanto tipica delle sue favole. Nel 1858 Carroll compone The Legend of
Scotland, un divertissement in inglese medievale:
l'autore finge di riferire un’antica leggenda scozzese del 1325 raccontando di
una macchina meravigliosa, Chimera, con la quale “molte immagini vengono prese”. Chimera naturalmente rappresenta
la macchina fotografica che, alla fine dell’Ottocento, è vista ancora come
qualcosa di magico.
La “macchina
fotografica”, in inglese, si traduce come camera e ha la stessa pronuncia
di Chimera.
Nella lingua francese, la
macchina si indica con appareil
- photo: ap - pareil deriva da pareil (simile) che ha la
stessa radice di paraître (sembrare).
Nella terminologia
francese e inglese l'apparecchio
richiama un'apparizione, un inganno, uno spettro.
Il tiratore che mira a se
stesso in quel gioco arlesiano spara creando uno scatto di sé, un inganno,
un'immagine che lo ritrae. La fotografia genera uno spettro del fotografo -
tiratore in una veronica argentica. Quella paralisi - narcosi si esprime con lo
scatto come cattura, impressione, pietrificazione di un equivalente.
Magrelli nella rubrica L'immagine del Giorno nelle Didascalie per la lettura di un giornaleriunisce l'idea del doppio all'immagine della morte
richiamando il segreto racchiuso nella cappella napoletana Sansevero. La
leggenda settecentesca narra gli esperimenti del principe Sangro sui suoi servi
attraverso iniezioni di una sostanza capace di pietrificare il sangue. Oggi
restano i loro corpi a reliquia di un'azione che fissa e immortala.
È una violenza che
rievoca il ça a été di Roland Barthes [31]
sulla produzione fotografica. Scrive Magrelli: “Secondo Barthes, la fotografia,
in quanto immagine fissata dalla luce, corrisponde a uno spectrum, rivelandosi cioè capace
di coniugare lo spettacolo (spectrum da spectaculum) allo spettro come
ritorno del morto, e bloccando così l'oggetto in una condizione di catastrofe” [32] .
Ogni fotografia è questa catastrofe.
Che il soggetto sia vivo
o morto il risultato fotografico è uno spettro.
La fotografia utilizza un
metallo (naturalmente un metallo prezioso visto che si tratta d'argento) che
richiama il materiale freddo del fucile e delle munizioni. L'argento, inoltre, appartiene al mondo alchemico. La fotografia ha una freddezza metallica
legata alla morte, ma, come ogni materiale alchemico, anche l'argento è vivo: “Et si la
Photographie appartenait à un monde qui ait encore quelque sensibilité au
mythe, on ne manquerait pas d'exulter devant la richesse du symbole: le corps
aimé est immortalisé par la médiation d'un métal précieux, l'argent (monument
et luxe); à quoi on ajouterait l'idée que ce métal, comme tous les métaux de
l'Alchimie, est vivant” [33] .
La fotografia, come
l'arte, rappresenta qualcosa di intrappolato tra vita e morte, deriva e
appartiene ad entrambe, ma è fissato al di fuori del tempo: è un Doppelgänger. Il termine tedesco indica
una copia spettrale di una persona vivente: doppel significa “doppio” mentre gänger è il “passante / colui che va - se ne va”. Gänger è l'equivalente di walker in inglese: deriva dal
verbo gehen che si riferisce al
“camminare”. Anche questo è un flâneur !
Monsieur Phot [34] :
il “cacciatore di immagini” [35]
Le interpretazioni
intorno al tir
photographique evidenziano una densità semantica intrinseca alla
fotografia in una rete concettuale di riferimenti che si intrecciano toccando i
campi più svariati.
La fotografia è un
rituale a base di immagini che può svelare un labirinto di analogie e
collegamenti.
Lo spettatore- flâneur che partecipa al festival
ha la sensazione di avere un mirino nella testa [36] : per un giorno si
sente come Monsieur
Phot.
Il nome è già un gioco: Phot è il diminutivo di photographe. Si tratta di una
sceneggiatura apparsa su una rivista surrealista che ha attirato l'attenzione
di Joseph Cornell. L'artista, appassionato di cinema, ha tradotto il soggetto
in un movie -
scenario nel 1933 initolato Monsieur Phot: è uno screen play composto da dieci typed pages da proiettare attraverso
lo stereoscopio [37] .
Gli anni Trenta, per
Cornell, costituiscono un periodo di sperimentazione caratterizzato
dall'interesse per tecniche diverse alla ricerca di un metodo che gli consenta
di realizzare l'intento principe della sua arte, avvicinarsi alla vita. Con Monsieur Phot, Cornell compie
un'identificazione di se stesso con la figura del fotografo [38] : è un flâneur che si aggira per New
York guidato solo dalle consonanze interiori che portano l'artista a
soffermarsi su dettagli, spazi, oggetti, persone incontrate in modo casuale.
Il protagonista ha la percezione di una macchina fotografica: Monsieur Phot
“dramatizes the experience
of a nineteenth century New York photographer, a man who resembles a camera in
that he’s always on the outside, always looking in, yet who’s sensitive he
feels overwhelmed by everything he sees” [39] .
Il soggetto cinematografico
costituisce la sceneggiatura del metodo di Cornell [40] , una caccia alle
immagini da catturare secondo le sue impressioni.
L'artista si comporta come un fotografo - cecchino: sottrae
l'oggetto al tempo e allo spazio ricontestualizzandolo all'interno di una
composizione, un assemblage che prende il nome di Shadow Box.
La scatola è un monumento
alla memoria, una reliquia che richiama il regno delle ombre, souvenir e memento mori, che dipinge Cornell come
un artista funereo.
La passione dell'artista
per il frammento (snippet) lo spinge a cimentarsi
nel collage e nel fotomontaggio
pubblicitario: l'incanto del ritaglio (snip) gli permette di reinventare il mondo a partire dagli
oggetti trovati, abbandonati e disseminati per la città come se fossero materiale
da discarica.
La riqualificazione degli
oggetti nelle scatole - capsule temporali parifica gli elementi compositivi:
Cornell li trasforma in immagini sottraendole al tempo e alla vita per
avvicinarsi ad essa. É lo sniper di Manhattan [41] ,
il “cacciatore di immagini” che medita sulle sue “prede”, ephemeras da collocare in piccoli
mondi in miniatura.
Le scatole, come
inquietanti case vittoriane, sono “abitate” da uccelli, teste di bambola,
cilindri, pipe che rievocano il regno del souvenir. Gli spettri di quegli
oggetti sono intrappolati da vetri blu che racchiudono le opere in una metafora
di triste nostalgia e immaterialità.
Nelle scatole ci sono
figure che sembrano attirare lo spettatore in un gioco di tiro al bersaglio:
davanti a Untitled (Medici Prince) del 1952 “non si sa se ad esempio siamo noi sotto lo
sguardo critico di un principe dei Medici che ci giunge dal fondo di una
scatola, oppure se ne stiamo contemplando l’immagine attraverso il mirino di un
fucile”.
Cornell ha l'abitudine di
identificarsi con la sua arte. Dai suoi scritti [43] si evince una mimesi
con gli uccelli che riempiono le scatole Aviaries: il volo e l'evasione,
termini traducibili come flight in inglese, sono sempre definiti “pericolosi” [44] .
Nell'Habitat Group for a Shooting Gallery del 1943, Cornell crea
un tiro al bersaglio con gli uccelli: le macchie di colore sulla composizione
evocano gli spari. L'opera è creata durante la Seconda Guerra Mondiale, ma
evidenzia le sensazioni di Cornell, creatura fragile nel mirino dello shooter.
Le Shadow Boxes sono piene di bersagli,
cerchi, anelli, ma è in Black
Hunter
del 1939 che Cornell mostra il suo interesse per lo shooting. In questa scatola c’è
un’immagine proveniente da una serie di fotografie del 1900 scattate dallo
studio di Naya, Pigeon shooting at the Hotel Excelsior, Venice Lido raffigurante un uomo che
spara ad un gruppo di piccioni. “When Black Hunter is
titled to the side, four circular glass disks- with images of a seashell, a
bird being born, a bird in flight, and a shot bird-roll across the image of the
hunter. For white balls are suspended from black string on the right inside of
the box; they are the targets in this penny arcade game” [45] .
Cornell svela,
nelle sue opere, l'interesse per il tiro a segno: gli indizi sono testimonianze
chiare di una passione per l'aspetto ludico
della realtà come dell'arte. Non a caso, l'artista è affascinato dalle
meraviglie di Coney Island tanto da dedicare Swiss Shoot the Chutes,
una scatola del 1941, all'attrazione più nota del Luna Park.
Il parco
divertimenti, con le sue shooting galleries, le case degli specchi, i chutes,
è un divertissement reale nella magia di una finzione. Monsieur Phot è
stato letto dalla critica come Monsieur Faux:
è l'inganno del gioco, uno spettro della realtà.
A. SBRILLI, Joseph
Cornell. Ogni cosa è illuminata, “Art e Dossier” num. 260, novembre
2009.