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La città e la Cattedrale: visioni di Napoli tra '300 e '500 *  
Ettore Janulardo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 30 Giugno 2012, n. 653
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 La Tavola Strozzi (1472-73) [1] – prima significativa rappresentazione topografica  moderna della città partenopea, immagine che fonda una spazialità orizzontalmente tripartita fra acqua, terra e cielo –, introduce lo sguardo nelle stratificazioni di Napoli.

Il sinuoso corteo di navi disegna un semicerchio artificiale che guida verso l’ingresso marittimo dello spazio urbano e mima la dimensione protettiva del golfo e delle anse, di cui rappresenta una dinamica estensione in ambito liquido. Mediata da tale rassicurante celebrazione – il ritorno nel luglio 1465 della flotta del Re Ferdinando I (Ferrante o Don Ferrando) dopo la vittoriosa battaglia di Ischia contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò –, si determina, in un rapporto di necessaria continuità, una percezione prospettica del molo principale che fa da approdo e da percorso d’ingresso alla città. Racchiusa in un doppio giro della visione – quello delle navi nel porto e delle colline alle spalle – Napoli appare protetta non tanto dalle sue mura, quasi assorbite dalla naturale conformazione del golfo, ma dallo stesso offrirsi in una rappresentazione che abbina – come in altre scene urbane, dal ’300 in poi – realismo analitico e sintetica idealizzazione. Scrive in merito Del Treppo:

«E’ la veduta della città che genera e costruisce lo spazio figurativo coerente, in cui sembrano soltanto occasionalmente collocate sia la circolare teoria delle galere […] sia le innumerevoli barche di contorno, quasi appoggiate sul mare come un fondale di carta […]». [2]

Punto di vista dal mare, per chi controlla o conosce la città, questa rappresentazione tardo-quattrocentesca condensa in sé – e assume anche nella raffigurazione delle emergenze monumentali – gli emblemi architettonici di Napoli: da Castel dell’Ovo al Castel Nuovo, dal porto alle porte murarie, da Capodimonte alle chiese e al Duomo. Approccio diverso, con incerto fluire dall’entroterra verso la liquidità (e i liquami) della zona mercantile-portuale, caratterizza, invece, la peregrinazione di Andreuccio da Perugia nella rappresentazione che ne dà Boccaccio nel Trecento.

Alla stesura compatta ma aperta della Tavola Strozzi fa da contrappunto, oltre un secolo prima, la novella boccacciana che distilla della città gli interni e le interiora, per una visione dell’oscuro e del bassofondo, una percezione dal basso che si fa consapevolezza del pericolo e attesa della prossima condanna; alla misurata luminosità della raffigurazione fa da contrasto il buio degli inganni e dei pericoli, in un ritmo teso che condensa il nucleo dell’azione scenica in una notte. Con una narrazione che unisce particolari realistici e sfumature leggendarie, Boccaccio fa di Napoli l’epitome del pericolo, il centro gravitazionale degli inganni e dei sotterfugi, ove l’eterogenesi dei fini è norma che consente solo lievi variazioni, sottili scarti, e una cattedrale non è che l’approdo di un furto sacrilego.

All’incirca negli stessi anni, anche Petrarca vive l’esperienza napoletana, di cui dà conto in maniera antitetica in due momenti dei Rerum familiarum libri. Mentre nel 1341 il poeta appare conquistato dalla figura di Roberto I d’Angiò, solo due anni dopo Petrarca si mostra disgustato e spaventato dalle diverse condizioni del Regno e dalle loro nefaste conseguenze sull’articolazione e sul decoro della vita urbana:

«Al posto di quel serenissimo Roberto, che regnò fino a poco fa e fu il decoro più grande dell’età nostra, è sorto questo […] che ne sarà il più grande obbrobrio. Ormai io non crederò più impossibile che dalle midolle di un uomo sepolto possa nascere un aspide, poi che da un sepolcro di re è nato questo fosco serpente». [3]

A questa considerazione sul “nuovo” Regno – con l’introduzione di un’immagine che sembra preludere all’idea della rinascita o, per converso, della decomposizione, insita nella frequentazione notturna da parte di Andreuccio del sarcofago dell’arcivescovo nella Cattedrale -, fa seguito uno sguardo inquieto sui notturni napoletani, ove, osserva Petrarca, «il girar di notte vi è non meno pauroso e pericoloso che tra folti boschi, essendo le vie percorse da nobili giovani armati, la cui sfrenatezza né la paterna educazione né l’autorità dei magistrati né la maestà e gli ordini del re seppero mai contenere». [4]

Si definisce così il topos esistenzial-letterario della pericolosità e dell’estrema rischiosità notturna di Napoli, che possono essere esorcizzate e rimosse solo da una visione complessiva e a latere, che privilegi la veduta d’assieme e la percezione della scena da punti di vista distanti e non univoci, come nella Tavola Strozzi. O attraverso la frequentazione di luoghi ameni nei pressi della città, ma al suo esterno: nello stesso Decameron, sebbene sia definita in altra novella «città antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in Italia», [5] Napoli è in realtà tratteggiata in positivo solo per quanto concerne i “contorni”, ovvero “i liti del mare” e i paesi vicini.

A conferma della percezione di Napoli come una sorta di trappola nella quale, a dispetto dell’ampia veduta prospettica, si resta impigliati, e da cui a fatica si fugge, la vicenda di Andreuccio propone almeno tre momenti in cui si percepisce lo sguardo della narrazione non dall’alto e dall’esterno ma dal basso e dall’interno – quando il giovane cade nel “chiassetto”, quando viene calato nel pozzo per una sommaria lavata, quando infine si trova a condividere il sarcofago dell’arcivescovo nella Cattedrale – per una ricostruzione rovesciata della storia che non può che confermare tutti gli stilemi sulla drammaticità di un tale percorso iniziatico. Ma le tensioni descritte sono caratterizzazione fondamentale della realtà e dell’immaginario urbani, come si delineano nella spazialità medievale, fondata sulla nuova centralità dell’edificio-chiesa:

«La città s’inserisce in uno spazio: in ogni società, in ogni cultura, questo spazio è orientato, caricato di valori ideali, che s’impongono alle forme, ai volumi, alle direzioni. Nel sistema cristiano, due opposizioni dominano questo inserimento nello spazio: alto e basso, interno ed esterno. I valori sono in alto, in cielo, e nel centro, nel cuore. La salvezza dell’uomo avviene elevandosi e interiorizzandosi. Lo stesso dev’essere per l’essere collettivo che è la città». [6]

La varia tipologia dell’edificio e della funzione-chiesa - cattedrale, chiese principali, parrocchie, basiliche devozionali ai margini del tessuto urbano, strutture conventuali - determina sovente una pluralità policentrica nel disegno della città, che tende a riorganizzarsi su un complesso sistema a geometria variabile. Osserva Guidoni che «anche per la sua irrealizzabilità la città ideale cristiana, la “Gerusalemme celeste” tenderà a identificarsi, per tutti i secoli della crisi urbanistica, più con il singolo edifizio religioso (basilica, cattedrale, abbazia) che con un insieme urbano». [7]

Benché non necessariamente né costantemente dominante nell’immaginario cristiano della città, la cattedrale – soprattutto a causa della sua plurisecolare edificazione – tende tuttavia a farsi epitome di una storia urbana iperarticolata, diacronicamente e sincronicamente, nell’orizzontalità della pianta topografica e nella verticalità degli slanci, che comprendono i valori al di sopra del piano, come gli alzati e i campanili, e quelli al di sotto, come cripte e spazi sotterranei.

Se le peripezie notturne conducono, come è noto, Andreuccio a farsi ladro tra (e dei) ladri, risulta significativa la costruzione degli spazi nella novella: mentre Napoli è una sorta di punto instabilmente mediano tra la Perugia di origine e, via mare, la Palermo millantata dall’adescatrice del giovane, l’itinerario nella città compiuto dal protagonista – che trova di notte un bottino, un sarcofago e un diverso ritorno alla vita –, ha nella “chiesa maggiore” il nucleo fondante, motore dell’azione e fulcro architettonico-urbanistico. La clausura di Andreuccio nel sarcofago è inoltre testimonianza narrativa di quanto osserverà Le Goff:

«Finalmente, la città medievale sarà – in totale contrasto con la città antica – una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno più rigettati, in quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma – secondo l’esempio e per l’attrazione dei corpi dei martiri – verranno insediati nel territorio intra muros. Tombe isolate, sepolcri costruiti nelle chiese o cimiteri urbani faranno della città una necropoli al tempo stesso che una città di viventi, e l’immagine urbana avrà un aspetto funerario che contribuirà a trasformarla profondamente. L’inurbamento dei morti è un elemento capitale nella rivoluzione urbana – materiale e mentale – del Medioevo». [8]

E così la cattedrale di Napoli, caleidoscopio di diverse strutturazioni cronologiche e artistiche – dal paleocristiano del Battistero di San Giovanni in Fonte al ’300-400, dal Barocco trionfante della Cappella di San Gennaro alla facciata neogotica terminata nel 1905 – si determina come snodo di un percorso dalla narrazione alle arti figurative e da Boccaccio al primo ’500. Scrive il novelliere:

«Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare». [9]

Superato il limes che separa la Cattedrale dalla proprietà familiare di questo spazio, possiamo a nostra volta visitare la Cappella dei Capece Minutolo, prezioso esempio di un’architettura e di una policroma decorazione gotica elevantisi su un pavimento cosmatesco bizantineggiante della fine del XIII secolo, usufruendo di alcune preesistenti note descrittive, nonché del nostro corredo fotografico: la Cappella si apre «sul fondo del transetto del Duomo di Napoli in prossimità dell’angolo destro dello stesso». [10] E cominciamo col vedere ciò che Andreuccio, per ragioni cronologiche, non avrebbe ancora potuto osservare:

«Sulla parete di fondo è posto l’altare con la tomba del Cardinale Enrico Capece Minutolo (1389-1412). La cupola, adorna di statuette e piramidi, presenta al centro lo stemma della famiglia ed è sostenuta da quattro colonne intagliate a bassorilievi. Queste a loro volta poggiano sui dorsi di quattro leoni. La cassa sepolcrale, sostenuta da tre piccole colonne a spirale e da due statue raffiguranti la Mansuetudine e la Carità, è adornata da una Natività affiancata da un lato da Santa Anastasia e da San Girolamo in atto di porre la mano sul capo dell’inginocchiato Cardinale Enrico (raffigurato da bambino), e dall’altro da S. Pietro e da S. Gennaro». [11]

Accanto al ricco apparato decorativo della Cappella, una sottolineatura merita l’icona di legno dorato con la Crocifissione e quattro Santi (S. Giovanni Battista, S. Gennaro, S. Caterina, S. Nicola Pellegrino) del senese Paolo di Giovanni Fei (1345-1411): altarino portatile dinanzi al quale il Cardinale Enrico Capece Minutolo era solito celebrar messa.

«A sinistra dell’Altare è posto il sarcofago dell’arcivescovo di Salerno, già canonico della Cattedrale di Napoli, Orso Capece Minutolo (morto nel 1327). Le pareti sono interamente decorate da affreschi raffiguranti Cavalieri in Armi […]. Accanto all’ingresso, sulla sinistra, sono raffigurati S. Antonio da Padova e Santa Caterina da Siena; segue nella cunetta Santa Maria Maddalena ricoperta dalla sua fluente chioma […] A destra dell’Altare è posto il sarcofago dell’Arcivescovo di Napoli Filippo Capece Minutolo (1288-1301). La cassa […] è retta da piccole colonne tortili e riporta una iscrizione che ricorda l’impegno della famiglia Capece Minutolo nel mantenere viva la cura della Cappella». [12]

Scrigno di famiglia all’interno della Cattedrale, la Cappella rappresenta un momento esemplare della compenetrazione tra struttura architettonica, rappresentazione pittorica e decorazione scultorea, a sua volta segnata da intensa policromia.

A Montano di Arezzo, formatosi a partire dal 1280 ad Assisi con Giotto e poi a Roma con Pietro Cavallini (1240-1330) sono da attribuirsi le Storie dei Santi Pietro e Paolo e di altri santi e la Crocifissione, affreschi eseguiti tra il 1285 e il 1290.

Le raffigurazioni scultoree, di diversa epoca e di differenti esiti qualitativi, tendono tutte a costituire un’interpretazione napoletan-angioina del gotico, ove la resa policroma - singolarmente preservatasi - enfatizza tratti emozionali e scenografici di un percorso che, attraverso guglie e pinnacoli tardo-francesi ma anche robuste delineazioni di volti e corpi, apre caratteristiche liaisons tra il XIII secolo, il tardo-gotico, il primo ’400 e il dinamismo barocco altrove presente nella Cattedrale.

Testimonianza di una complessa stratigrafia su più livelli – ed ulteriore conferma di una rilevanza cittadina che si articola su una molteplicità di piani – è la Cappella del Succorpo, nella cripta della Cattedrale, elemento di transizione tra il tardo-gotico del primo ’400 e le superfetazioni di metà ’600 nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro.

Eretta tra il 1497 e il 1508 per volere del cardinale Oliviero Carafa (1430-1511) in occasione della traslazione delle reliquie di San Gennaro, la Cappella del Succorpo è un rinascimentale ambiente rettangolare (di metri 12 x 9), dall’interno suddiviso in tre navate, situato al di sotto del presbiterio. Rivestito in marmo e con il soffitto a cassettoni (18), ciascuno con un santo e quattro teste di cherubini, lo spazio sotterraneo chiaro e lineare è assegnato alla matrice progettuale di Donato Bramante (1444-1514) mentre la realizzazione è dovuta al comasco Tommaso Malvito (seconda metà XV secolo-1524), aiutato dal figlio Giovanni Tommaso, cui si attribuisce la statua di Oliviero Carafa orante nella navata centrale.

La personalità del cardinal Carafa, protagonista della politica ecclesiastica nella seconda metà del ’400 a Napoli e a Roma, si pone come ulteriore snodo concettuale e cronologico del nostro discorso. Arcivescovo di Napoli dal 1458, cardinale dal 1467, a capo della flotta cristiana contro i Turchi che conquista Smirne nel 1472, è tra i protagonisti delle scelte ecclesiastiche sotto Sisto IV (1411-1484). All’inizio del suo pontificato, nel 1471, giungono a Roma le consuete ambascerie degli stati europei: ricorda Stefano Borsi, per «il re di Napoli Ferrante d’Aragona interviene il figlio quartogenito, il cardinale Giovanni d’Aragona», [13] mentre la delegazione fiorentina è rappresentata dal giovane Lorenzo de’ Medici, che partecipa poi in gruppo ad escursioni archeologiche sotto la guida dell’Alberti, «duce Baptista Alberto». [14] Analoghi percorsi archeologico-artistici coinvolgono il re di Napoli Ferrante d’Aragona quattro anni dopo quando, in occasione del Giubileo del 1475, in una Roma che il Papa stava rinnovando anche sul piano urbanistico – con l’inaugurazione del Ponte Sisto e dell’antica Via Sistina, l’attuale Borgo Sant’Angelo – il sovrano si dedica ad «itinerari che sembrano ricalcare la stessa impostazione antiquaria del viaggio romano di Lorenzo de’ Medici. Lo lascia intendere chiaramente il diarista romano Infessura: “et andò per tutta Roma per vedere li edifici, et a Santa Maria Rotonda, et a colonna Antoniana, et Adriatica” ». [15]

E’ in un simile clima politico-artistico che si ritaglia un ruolo di grande rilievo, tra Napoli e Roma, il cardinal Carafa, considerato protettore dell’Ordine dei Domenicani: a questo ruolo lega la propria rappresentazione nella Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva, fatta costruire e decorare tra il 1489 e il 1492 in onore di S. Tommaso d’Aquino. Nel ciclo romano di Filippino Lippi (1457-1504), la ripresa dell’antico si coniuga con spunti comprendenti un S. Tommaso che presenta il cardinal Carafa alla Vergine durante l’Annunciazione, con una singolare tessitura triangolare della scena, fondata sull’Angelo a sinistra e il binomio cardinale-santo a destra.

Nuovamente inginocchiato, come nella Cappella del Succorpo, ritroviamo il cardinal Carafa in un’altra rappresentazione nella Cattedrale di Napoli. Alla morte del fratello Alessandro, Oliviero riprende nel 1503 l’arcivescovado napoletano e in questa occasione si fa celebrare – ringiovanito rispetto alla sua età, come è stato osservato – nella Pala dell’ Assunta del Perugino (1450-1523) destinata all’altar maggiore, per la quale scrive il Vasari: «Dipinse al cardinal Caraffa di Napoli nello piscopio allo altar maggiore, una assunzione di Nostra Donna e gl’Apostoli ammirati intorno al sepolcro». [16]

Opera dalle molte traversie e dalle numerose ricollocazioni, tanto da esser ritrovata danneggiata e dimenticata nella sagrestia della Cattedrale, dopo un delicato intervento di restauro si trova oggi nella cappella sinistra del transetto destro. La pala di Napoli, di un Perugino ormai maturo, non fa che riprendere – con le necessarie variazioni – uno schema compositivo ampiamente utilizzato dall’artista di Città della Pieve.

Chiamato a Roma dal 1479 – scrive il Vasari: «talmente si sparse la fama di Pietro per Italia e fuori, che e’ fu da Sisto IIII pontefice, con molta sua gloria condotto a Roma a lavorare nella cappella in compagnia degli altri artefici eccellenti» –, [17] il Perugino si dedica alla decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina insieme al Pinturicchio, Ghirlandaio, Botticelli, Cosimo Rosselli e collaboratori: è sulla parete dietro l’altare che Perugino dipinge ad affresco la finta Pala dell’Assunta, poi sostituita dal Giudizio Universale di Michelangelo, di cui resta testimonianza per un disegno di un allievo del Pinturicchio. La struttura della rappresentazione su due livelli, con il Papa-committente inginocchiato sulla sinistra della scena, nella stessa posizione poi replicata per la pala della Cattedrale di Napoli, presenta dunque un piano inferiore affollato di personaggi terreni in adorante ammirazione di una superiore figuratività spirituale ed è ripresa in diverse opere peruginesche. Tra quelle dallo stesso impianto compositivo ricordiamo qui il coevo Polittico dell’Annunziata di Firenze: due scene – la Deposizione e l'Assunta, l’una rivolta verso i fedeli, l’altra verso il coro –, costituivano gli elementi principali, oltre le tavolette della predella, di un’opera iniziata da Filippino Lippi, per la quale Leonardo aveva poi predisposto un cartone con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino; dopo l’abbandono di Leonardo, Filippino reimposta su nuove basi il lavoro, lasciato interrotto alla sua morte nel 1504. Intervengono così Perugino ed allievi, che portano a termine la commissione con esiti fortemente criticati dai fiorentini, desiderosi ormai di novità stilistico-compositive e di un’interpretazione del soggetto differente dalla consueta e rigida trattazione peruginesca. Riporta il Vasari le critiche ricevute e l’ostinata autodifesa dell’artista, inconsapevole degli sforzi innovativi richiestigli:

«Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti i nuovi artefici assai biasimata, e particolarmente perché si era Pietro servito di quelle figure, che altre volte era usato mettere in opera, dove tentandolo gl’amici suoi, dicevano che affaticato non s’era e che aveva tralasciato il buon modo dell’operare, o per avarizia o per non perder tempo. Ai quali Pietro rispondeva: “Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute. Se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io ?”. Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanie lo saettavano. Onde egli già vecchio partitosi da Fiorenza e tornatosi a Perugia, condusse alcuni lavori a fresco». [18]

La Pala dell’Assunta di Napoli, ostinatamente simile ai riferimenti qui indicati, non sembra godere di miglior fortuna, declassata dall’altar maggiore a collocazioni secondarie o improprie. Resta ora da ricordare come, dopo il suo recente restauro, abbia trovato nuova luminosità nel transetto destro, in posizione confinante con l’accesso alla Cappella Capece Minutolo.

Quasi pegno risarcitorio alla Cattedrale, poco lontano dai luoghi della narrata fuga di Andreuccio con il prezioso anello dell’arcivescovo Filippo, un richiamo umbro, un’opera del Perugino, è ricordo e testimonianza di percorsi accidentati ma anche di nessi sottili tra una città, una Cattedrale e gli ingegni che ne punteggiano spazi e storie.

 

 


 

 NOTE

* Comunicazione presentata al XXIII Convegno Internazionale (Chianciano Terme – Pienza, 18-21 luglio 2011) su Significato e funzione della Cattedrale, del Giubileo e della ripresa della Patristica dal Medioevo al Rinascimento



[1] Attribuita a Francesco Rosselli (1445-prima del 1513), dovrebbe aver costituito la spalliera del “lettucio” commissionato da Filippo Strozzi a Benedetto da Maiano (1442-1497). Cfr. in proposito il Libro di ricordanze di Filippo Strozzi relativo al periodo della sua attività a Napoli tra il 24 novembre 1472 e il 2 giugno 1473: «Un lettucio di nocie di braccia 6 cho.l chassone e spalliera e chornicie molto bello, ritratovi dentro di prospettiva Napoli el chastello e loro circhumstanzie», cit. da M. Del Treppo, Le avventure storiografiche della tavola Strozzi, P. Macry - A. Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 483-515.

[2] M. Del Treppo, Le avventure storiografiche della tavola Strozzi, cit.

[3] F. Petrarca, Familiarum rerum libri, in Id., Opere, Firenze, Sansoni, 1993, p. 435, cit. da M. Palumbo, Cattive maniere (e buona condotta) nella Napoli di Petrarca e Boccaccio, “Italies”, 11 | 2007, http://italies.revues.org/727.

[4] Ibid.

[5] «Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata» (III, 6). E’ altra occorrenza, sempre in contesto napoletano, del cognome Minutolo. L’elogio della città in questi termini diviene poi formula ripresa, per Genova, dallo Straparola nelle boccacciane Piacevoli notti, Libro I, Favola prima.

[6] J. Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia medievale (secoli V-XV), Storia dell’arte, in Storia d’Italia. Annali, 5. Il paesaggio, a cura di C. De Seta, Einaudi, Torino 1982.

[7] E. Guidoni, La città europea. Formazione e significato dal IV all’XI secolo, Electa, Milano 1978, p. 29.

[8] Ibid.

[9] G. Boccaccio, Decameron, II giornata, novella 5.

[10] La Cappella Capece Minutolo, cfr. http://www.icapeceminutolo.it/cappella.php.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] S. Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Edizioni Polistampa, Firenze 2006, pp. 167-168.

[14] Ibid., p. 169.

[15] Ibid., pp. 171-172.

[16] G. Vasari, Le Vite, Edizioni Giuntina e Torrentiniana, http://biblio.signum.sns.it/vasari/.

[17] Ibid.

[18] Ibid.









 

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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