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Il pavimento musivo della Basilica di Santa Maria Antiqua. Un nuovo contributo per la sua datazione e attribuzione  
Nicola Severino
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 3 Aprile 2013, n. 669
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Premessa [1]

Nella monografia dal titolo Pavimenti Cosmateschi di Roma, Storia, Leggenda e Verità edita recentemente [2] , ho cercato di raccontare la storia dei pavimenti cosmateschi rilevanti conservati in oltre quaranta basiliche e chiese di Roma. Insieme alla storia documentale, ho creduto necessario anche compiere un salto di qualità consistente nel tentativo di sfatare alcuni luoghi comuni che da sempre hanno accompagnato le descrizioni di tali opere e soprattutto cercare di leggere nella facies e nei caratteri stilistici dei reperti oggi visibili ciò che i libri non possono dirci e ciò che gli autori del passato non hanno ritenuto importante tramandarci. Se, infatti, la maggior parte dei beni artistici e archeologici di Roma sono trattati in ogni loro minimo dettaglio nelle migliaia di pubblicazioni che sono state prodotte dai codici manoscritti ai libri a stampa e nelle riviste specializzate, quasi nulla ci è stato detto sui pavimenti cosmateschi che pure tanta bella mostra hanno fatto nel tempo agli occhi di studiosi, viandanti e turisti.

Tanto meno è stato prodotto su ciò che rimane nella chiesa di Santa Maria Antiqua, del pavimento musivo, per il quale l’unica possibilità di interpretazione è un confronto diretto tipologico e stilistico con  altre opere simili. E’ quello che è stato fatto, per quanto possibile, dai principali autori che hanno trattato di questo argomento, ad iniziare dai più famosi Giovanni Battista De Rossi, Gustave Clausse, Gustavo Giovannoni, Edward Hutton, Annamaria Bessone Aureli, fino ad arrivare alla nota Dorothy Glass, ripresa dagli autori moderni quali Alessandra Guiglia Guidobaldi, Peter Cornelius Claussen, Enrico Bassan, solo per citarne alcuni.

 

Essendomi già occupato in passato della datazione del pavimento musivo della chiesa in esame, esporrò  quanto  proposto anteriormente all’esame autoptico diretto, sulla base delle indagini relative note dalla bibliografia, in particolare a proposito della lettura di alcune immagini del repertorio poste a confronto con quelle di altri pavimenti, proposte nell’articolo di Alessandra Guiglia Guidobaldi, nonché dagli esiti delle analisi condotte da Alessandro Lugari per la tesi di dottorato.

La mia prima conclusione, differisce sensibilmente dalla nuova ipotesi proposta in questo ulteriore studio. Tuttavia, la prospettiva indicata inizialmente non era poi così lontana dagli esiti qui proposti avendo riconosciuto nel pavimento musivo di Santa Maria Antiqua, relativamente ai pochi lacerti assimilabili ai pavimenti cosmateschi, un’opera la cui elaborazione non è riferibile ai secoli tra VI, e VIII, né ad un’opera tarda dei marmorari romani. Il confronto fotografico tra le immagini proposte dalla Guiglia Guidobaldi con le immagini da me raccolte dei pavimenti cosmateschi relativi ad alcune basiliche di Roma e in particolare di quello della basilica di San Clemente mi avevano indotto a credere dapprincipio che il pavimento musivo di Santa Maria Antiqua nella seconda zona del presbiterio fino all’abside, fosse coevo a quello della navata centrale nella basilica di San Clemente, e quindi  risalente alla fine del XII o all’inizio del XIII secolo.

É bastata una prima semplice osservazione diretta del pavimento, durante la mia visita alla chiesa, per capire all’istante che la prima conclusione doveva solo essere corretta di circa un secolo. Ma la sorpresa è venuta stando sul posto, dopo un’accurata analisi autoptica.

 

 

 

Come valutare lo stato attuale dei pavimenti cosmateschi.

1) La simmetria policroma: un elemento indicatore delle condizioni attuali dei pavimenti realizzati dai maestri marmorari romani nelle chiese del Lazio.

I pavimenti in musivi realizzati nel Lazio ad iniziare dal 1071, anno della consacrazione della basilica di Montecassino dove fu realizzato il primo prototipo di questo genere nello stile che condurrà all’arte del pavimento cosmatesco, e fino alla fine del XIII secolo, ci sono pervenuti, a seconda dei casi, in uno stato conservativo che è il risultato delle numerose vicende che li hanno interessati  nel corso dei secoli. Nella maggior parte dei casi, i reperti originali hanno subito danni più o meno considerevoli dovuti a una serie di fattori diversi. Le principali cause del cattivo stato conservativo di questi monumenti, sono dipese dal naturale degrado dovuto al trascorrere dei secoli e quindi all’usura stessa a cui furono sottoposti per l’uso, come il calpestio, specie in edifici religiosi dove i numerosi fedeli vi si recavano quotidianamente. Poi vi è l’incuria dell’uomo, dovuta all’insensibilità verso ciò che era stato realizzato in passato e alla stessa mentalità del tempo, non ancora pronta al concetto di preservazione dei beni culturali e del loro valore artistico e architettonico. Ma tra le cause più importanti dello stato di degrado in cui ci sono pervenuti i pavimenti cosmateschi, sono senza dubbio le distruzioni degli stessi dovute a fenomeni naturali come i terremoti, a volte devastanti, come quello che rase quasi al suolo la basilica di Montecassino nel 1349, e le guerre che generarono saccheggi, incendi e devastazioni. Ma oltre a ciò, c’è da annoverare anche l’opera dell’uomo anche quando essa aveva il buon intento di preservare le opere: il restauro !

I pavimenti cosmateschi restaurati e rimaneggiati più volte dal XII-XIV secolo e specialmente durante gli anni della moda barocca, verso la metà del XVII secolo e fino a tutto il XVIII secolo, hanno subito il torto di essere stati privati del gioco di simmetria policroma dei colori tra le tessere.

Ma ci sono due tipi di interventi da diversificare:

 

1)   quelli che miravano a preservare l’intero pavimento, o buona parte di esso, così come si era conservato fino ad allora. In questo caso esso subiva solo un rimpiazzo delle tessere andate perdute, specie quelle più piccole e delicate, ma sempre senza tenere conto dell’ordine simmetrico dei colori delle tessere  nei motivi geometrici;

 

2)   quelli che prevedevano di smontare in parte o totalmente il pavimento per fare spazio ai rinnovamenti barocchi del Seicento e del Settecento, come il rialzo dei presbiteri, l’abbattimento delle iconostàsi e delle tribune, lo smembramento degli amboni e della Schola cantorum. Allora l’antico pavimento veniva quasi totalmente staccato e, nel migliore dei casi, ricostruito in modo arbitrario cercando di riprodurre gli stessi disegni geometrici ma mescolando, per comodità, le tessere lapidee di vario colore che formavano mucchi di pietre negli angoli della chiesa. Ho visto una situazione simile nella basilica superiore dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, dove in uno dei locali a nord furono ammucchiate, all’epoca degli scavi, gran parte delle tessere dell’antico pavimento in opus sectile della navata centrale della chiesa, in attesa forse di un improbabile restauro, o riutilizzo nel pavimento moderno.

 

 I resti dell’antico pavimento della basilica di Montecassino, oggi ricollocati in varie cappelle del monastero, furono rimossi dal loro luogo sotto la direzione del monaco benedettino Angelo Pantoni [3] attorno al 1950, nelle ricognizioni effettuate in seguito ai bombardamenti degli alleati nel secondo conflitto mondiale. Tra i pezzi riportati alla luce ve ne sono alcuni, di più piccole dimensioni, che furono semplicemente staccati nella loro integrità. Essi sono esposti nel museo archeologico dell’abbazia e mostrano chiaramente la regolarità simmetrica nelle disposizioni delle tessere colorate offrendo quel necessario gioco di simmetria policroma che sta alla base del concetto stesso dell’ordine geometrico e cromatico di un pavimento in opus sectile. Diversamente, altri e più ampi riquadri pavimentali furono smontati  e negli anni successivi ricostruiti, secondo i disegni di Pantoni, in riquadri similari nei pavimenti delle cappelle del monastero. Ma, a parte la tecnica di intarsio approssimativa che rende il lavoro in opus sectile poco visibile, con fughe tra le tessere molto ampie e disegni geometrici spesso contorti e disallineati, si assiste ad un vero e proprio abbandono del concetto base della simmetria policroma e quindi, per la gran parte dei riquadri, le tessere sono state mescolate fra loro nei colori, senza tener conto di questa importante funzione.

 

La quasi totalità dei pavimenti laziali che oggi vengono assimilati tutti genericamente, e senza distinzione alcuna, con il termine “cosmateschi”, mostra molto bene le caratteristiche descritte sopra. Ed è interessante notare che non solo nel Lazio, ma anche in Campania si riscontra lo stesso fenomeno, come  nel pavimento del presbiterio della chiesa parrocchiale dei Santi Filippo e Giacomo a Capua, ricostruito con i resti dell’antico litostrato musivo proveniente dell’ex monastero di San Benedetto.  Oppure nei resti del pavimento del Duomo, sempre nella stessa città, salvatisi dai bombardamenti perché sotto il vescovo Caracciolo, nel Settecento, furono rimontati nella cappella del Sacramento. Infine,  nei vari pavimenti della Badia Benedettina di Sant’Angelo in Formis, ancora presso Capua, e della cattedrale di Caserta Vecchia, solo per citare alcuni esempi.

L’intento dei maestri marmorari, sia romani che di influenza siculo-campana, che seguirono la scuola dei mosaicisti bizantini istituita a Montecassino alla fine dell’anno Mille, era quello di riprendere il concetto di bellezza dell’ordine delle cose, attraverso i concetti geometrici delle figure rappresentate nei pavimenti, per le quali era necessario mantenere l’ordine di una perfetta simmetria cromatica delle tessere colorate. L’alternanza di triangoli di porfido verde, rosso e bianco, oppure dei quadratini nei motivi delle lunghe fasce che annodano i dischi porfiretici di guilloche e quinconce, specie nei colori giallo oro e rosso antico, si alternano simmetricamente in modo perfetto e consecutivo. Mentre nelle ricostruzioni dei pavimenti che subirono restauri o manomissioni, si osserva una riflessione asimmetrica nei colori dovuta alla mescolanza casuale di tessere di reimpiego. Tale disordine cromatico, che si osserva dovunque nei pavimenti cosmateschi attuali, porta alla considerazione finale che essi sono giunti a noi in uno stato di quasi totale alterazione, a diversi livelli e di difficile interpretazione.  

Nella seconda metà del XIX secolo, si assiste a restauri pavimentali più mirati rispetto al passato. É probabilmente per questo motivo che in diverse basiliche romane si osservano pavimenti “cosmateschi” di nuovissima fattura, come a Santa Prassede, o a Santa Maria in Trastevere, solo per fare due esempi significativi.  Essi, infatti, ad una analisi autoptica appaiono potersi riferire al XIX secolo, come si evince dalle fasce marmoree perimetrali e dalle partizioni reticolari formate da tessere nuove.  Solo a tratti e nella fascia centrale fu reimpiegato parte del  materiale lapideo meglio conservato dell’antico pavimento cosmatesco. Ma ciò che si osserva e che si rende evidente subito agli occhi, è il ripristino della simmetria policroma nei disegni geometrici, almeno in gran parte del pavimento. Lo stesso si può vedere in Santa Maria in Cosmedin, in Santa Croce in Gerusalemme, in San Clemente e in tutte le basiliche romane dove furono eseguiti importanti restauri dalla fine del XIX secolo. In altre chiese, invece, esistono pavimenti conservati in condizioni molto più vicine a come erano stati concepiti in origine. Uno di questi è quello della chiesa dei Santi Quattro Coronati. Ma, come è facilmente immaginabile,  nessuno degli antichi litostrati musivi del XII e del XIII secolo, sono arrivati fino a noi intatti. Il riadattamento degli spazi liturgici deciso a seguito delle riforme in epoca rinascimentale, hanno circostanziato gli eventi, come i restauri e le manomissioni, che modificarono l’aspetto dei pavimenti musivi.  

Spesso, gli avanzi dei pavimenti cosmateschi vennero riutilizzati, nelle loro parti migliori, per la pavimentazione dei soli presbiteri. Nella basilica romana di Santa Prassede il pavimento della navata è moderno e fu realizzato con i disegni e la direzione dall’architetto Antonio Muñoz [4] agli inizi del ‘900. Sul presbiterio, invece, il pavimento è facilmente identificabile come una ricostituzione arbitraria che reimpiega parte del materiale originale dell’antico pavimento cosmatesco. La sistemazione casuale di riquadri pavimentali musivi, tra i quali vi sono inseriti anche frammenti di lastre con iscrizioni, è già di per sé una soluzione lontanissima dai canoni dei marmorari romani. Inoltre, in questi riquadri sul presbiterio si nota, come di consueto, le suddette caratteristiche di disomogeneità del disegno unitario e l’assenza di simmetria nella disposizione delle tessere colorate.

Si può dire, quindi, che sono poche le modeste specchiature pavimentali che ci sono giunte più o meno originali, come concepite e realizzate dai maestri marmorari.

 

 

2) I pavimenti precosmateschi e cosmateschi: una distinzione inutile.

Raramente negli studî moderni si trova cenno di una non meglio identificata distinzione tra pavimenti precosmateschi e cosmateschi. Genericamente si può definire precosmatesco un pavimento realizzato dalle prime botteghe marmorarie romane, in un periodo compreso tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo. Di conseguenza, i pavimenti risalenti all’ultimo periodo del XII e fino alla metà del XIII secolo, possono essere definiti come cosmateschi. Questa diversificazione, in realtà poco chiara fino ad oggi, è servita a distinguere i pavimenti realizzati dalla bottega di Lorenzo, Iacopo, Cosma e i figli Luca e Iacopo II, prodotti dalla fine del XII fino alla metà del XIII secolo, da quelli realizzati da altre botteghe marmorarie nel primo periodo del XII secolo.

Tuttavia, i risultati delle mie ricerche sui pavimenti cosmateschi di Roma e del Lazio, sono abbastanza sorprendenti perchè prevedono che i pavimenti di cui trattiamo sono stati realizzati esclusivamente dalla famiglia di Tebaldo, cioè dai veri Cosmati, per tutto il periodo compreso tra l’XI e il XIII secolo!

Ciò significa che ogni famiglia di marmorari svolse un ruolo specifico nelle proprie attività le quali possono essere in gran parte identificate nelle cronologie dei lavori proposte prima da Maria Antonietta Bessone Aurelj [5] , e in seguito da Edward Hutton [6] dalle quali si evince chiaramente che ciascuna bottega era demandata a compiti specifici. Sfortunatamente, tra tutti i monumenti cosmateschi che ci sono pervenuti, i pavimenti sono quelli che meno di tutti recano le firme degli artisti che li realizzarono. Su oltre quaranta pavimenti solo due sono attestati da iscrizioni epigrafiche e uno riattribuito per via documentale. I primi due sono i pavimenti della cattedrale di Anagni, realizzati dal solo Cosma  nella basilica superiore (1224-1227 circa) e da Cosma e figli nella Cripta di San Magno (1231), mentre  il terzo è quello della cattedrale di Ferentino, attribuito a Iacopo di Lorenzo (datazione più probabile tra il 1204-1207)  grazie ad un manoscritto rinvenuto nella Curia. L’assenza di altri attestati epigrafici e fonti documentali ha fatto sì che il resto dei pavimenti cosmateschi di Roma e del Lazio fossero attribuiti solo sulla base di una evidenza stilistica spesso di difficile interpretazione, iniziata con lo studio di Dorothy Glass [7] nel 1980. Più in generale, invece e in assenza di prove documentali, i pavimenti sono stati attribuiti agli artefici che si sono firmati su elementi del mobilio presbiteriale, o nelle opere esterne quali trabeazioni di portici e portali, come nel caso della basilica di Santa Maria di Castello a Tarquinia e la basilica di Sant’Andrea in Flumine a Ponzano Romano, dove i pavimenti sono stati attribuiti alla famiglia di Ranuccio in base alle iscrizioni ivi presenti su altri monumenti realizzati da artisti di quella bottega.

Dalle indagini da me condotte nell’estate del 2012, però, è emerso che tali pavimenti sono più chiaramente riferibili alla bottega cosmatesca di Lorenzo e che questa, quindi, ricoprì un ruolo di assoluto protagonismo in questa specializzazione che si ampliò al massimo anche negli altri settori dell’architettura cosmatesca solo con l’ingresso in scena di papa Innocenzo III (1198-1216) per dissolversi poco alla volta con la scomparsa di Iacopo attorno al 1220. I Cosmati, quindi, quali unici magistri doctissimi romani  ad espletare  l’antica  arte quadrataria et musiaria derivata dalla scuola bizantina di Montecassino, istituita dall’abate Desiderio negli ultimi decenni dell’XI secolo.

Tutto ciò, porta alla logica considerazione che, se per “Cosmati” è da intendersi tutta la famiglia dei marmorari romani ad iniziare dal capostipite Tebaldo e, a seguire, Lorenzo, Iacopo, Cosma e i figli di quest’ultimo Luca e Iacopo II, o Iacopo alter come spesso viene denominato per distinguerlo dal nonno, allora i pavimenti in esame realizzati nel periodo compreso tra il XII e il XIII secolo, sono da definirsi esclusivamente cosmateschi venendo a cadere il significato stesso del termine “precosmatesco”.

Se a questo si volesse obiettare che alcuni studiosi citano il piccolo riquadro del pavimento musivo dell’abbazia di Farfa in Sabina, come un’opera attribuita ad un membro della famiglia dei Ranucius per via della lapide con iscrizione ivi sistemata nel pavimento, oppure delle chiese suddette i cui pavimenti sono attribuiti a membri dei Ranuccio per la presenza di iscrizioni su elementi dell’arredo presbiteriale, è da tenere presente che tali pavimenti sono stati da me recentemente riconosciuti, sulla base di evidenti analogie stilistiche e tipologiche, come lavori della bottega di Iacopo, mentre il pavimento non cosmatesco dell’abbazia di Farfa è di incerta attribuzione in quanto l’iscrizione con il nome di Ranucius è dimostrata provenire da uno smembrato arredo presbiteriale e non dal pavimento in cui si trova.

 

Dedotto che la stragrande maggioranza dei pavimenti musivi medievali di Roma, realizzati tra il XII e il XIII secolo, sono di esclusiva manifattura dei veri Cosmati, resta da spiegare perchè in molti di essi si notano alcuni tratti riferibili al XII secolo ed altri, generalmente costituiti dalle fasce pavimentali delle navate centrali, più chiaramente riconoscibili come lavori della fine del XII o dei primi decenni del XIII secolo.

A questa domanda è possibile rispondere ipotizzando che all’epoca delle consacrazioni delle chiese e delle basiliche di Roma, furono realizzati i primi pavimenti musivi i quali, deteriorandosi nell’arco di diversi decenni, a causa di calamità naturali o per l’incuria dell’uomo, essi arrivarono alla fine del XII secolo in una condizione di assoluto bisogno di essere risistemati e restaurati. Così, furono i Cosmati stessi, probabilmente i membri della famiglia di Lorenzo e Iacopo che riprendendo i lavori dei propri padri, su esplicite committenze, attuarono tali rifacimenti, preservando quanto di meglio si era conservato dell’antico monumento e rifacendo secondo i propri canoni e gusti, le aree più importanti del pavimento, come appunto la fascia longitudinale della navata centrale. É per tale ragione che spesso si riscontra un buon numero di riquadri musivi di vecchia generazione, quelli che in genere vengono definiti “precosmateschi”, composti da larghe fasce marmoree bianche e da grandi disegni geometrici formati con tessere sovradimensionate, mentre nella fascia centrale si nota il classico mosaico cosmatesco nello stile della maturità di Lorenzo o del giovane Iacopo (1185-1210), o nell’opera più moderna di Luca e Iacopo II. Un esempio del passaggio di mani tra varie generazioni di Cosmati più evidente ed importante, lo si può osservare nella basilica dei Santi Quattro Coronati, dove un primo pavimento “precosmatesco” fu realizzato forse da Tebaldo sotto papa Pasquale II, restaurato poi da Lorenzo e sicuramente anche da Iacopo e Cosma tra il 1190 e il 1210, mentre, cosa eccezionale, si può notare la continuità dello stile della bottega nel pavimento dell’Oratorio di San Silvestro la cui consacrazione del 1246 costituisce una importante datazione ante quem  e  permette di riferire l’opera (assodata l’attribuzione per via stilistica) a Luca e Iacopo II.

 

 

Il pavimento della chiesa di Santa Maria Antiqua

Considerazioni sulla base di riferimenti bibliografici

Per la chiesa di Santa Maria Antiqua gli studiosi hanno scritto fino ad oggi  che al suo interno vi è una porzione di pavimento “cosmatesco” del VI-VII secolo. La datazione è stata certamente proposta dagli archeologi che hanno condotto gli scavi presso l’antico sito romano. La Guiglia Guidobaldi [8] propone una datazione al sesto secolo del pavimento, ma non può fare a meno di evidenziare «la parziale identità dei motivi geometrici e del gusto cromatico fortemente analogo» ai pavimenti delle basiliche dei Santi Quattro Coronati e di San Clemente arrivando addirittura a dire che «viene persino fatto di pensare che intere stesure pavimentali del VI secolo siano state materialmente riutilizzate dai marmorari del XII; il che, peraltro, potrebbe giustificare la scarsa sopravvivenza a Roma di quei sectilia”, riassumendo poi alla fine che «il fatto che siano giunti sino a noi soltanto quelli che nel XII secolo non erano più in vista (per crollo dell’edificio o per altre cause) potrebbe appunto lasciar supporre che quelli ancora in uso ai tempi dei Cosmati siano stati totalmente da essi rifusi nelle nuove stesure pavimentali». Non potendo spiegare come mai nel VI secolo sia esistito un pavimento esattamente identico a quelli cosmateschi del XIII secolo, la studiosa ipotizza che i maestri romani abbiano letteralmente segato intere stesure pavimentali riutilizzandole nei loro pavimenti!

La Glass [9] , riprendendo il Toesca, dichiara il pavimento di incerta datazione, ma «probabilmente anteriore all’VIII secolo». Poi lo descrive con qualche dettaglio e alla fine conclude che «It would seem, then, that many of the consituent elements of a Cosmatesque pavement were in evidence in Rome by the ninth century», assumendo così, con qualche incertezza, che pavimenti esattamente identici a quelli cosmateschi fossero già presenti a Roma prima del IX secolo. Gli studiosi datano il pavimento di Santa Maria Antiqua al VI-VII secolo prendendo come terminus ante quem la datazione degli affreschi murali.

Nel settembre 2011 il dott. Alessandro Lugari mi riferiva in merito che «il pavimento è datato abbastanza precisamente dal punto di vista archeologico: o è contemporaneo a Maria Regina o successivo, ma come terminus ante quem abbiamo il ciclo di  Martino I (649 – 655). D'altra parte vi sono decine di pavimenti simili sia a Roma che in Grecia e Turchia dal V al VII sec. Quelli 'cosmateschi' di cui si parla, sono tecnicamente un altro mondo, i tagli spesso sono precisi, voluti, lo schema generale segue una simmetria rispetto ad un asse dell'edificio. In questi più antichi i tagli non ci sono quasi mai. Le formelle sono tutte di recupero e spesso  provenienti da pavimenti diversi, quindi con misure e spessori differenti. Tutto questo dà a tali decorazioni una caratteristica 'irregoralità' e asimmetria, cosa che probabilmente, oltre che
una necessità, indica anche uno 'stile' e un 'gusto
'».

É forse vero che in alcuni pavimenti di tarda epoca romana, o comunque del V-VI secolo, si vedono lacerti musivi molto simili a quelli riprodotti in partizioni reticolari nei pavimenti cosmateschi, ma, come afferma A. Lugari, quest’ultimi sarebbero «un altro mondo», e quindi perfettamente riconoscibili rispetto ai primi.  Nel caso di Santa Maria Antiqua, la cosa più sorprendente è che i due pavimenti proposti a confronto nelle immagini di A. Guiglia Guidobaldi sembrano essere  stati realizzati dalla mano dello stesso maestro tanto sono uguali. Non solo, ma nei frammenti pubblicati si scorge anche il consueto ritocco operato già poco tempo dopo dell’epoca in cui il pavimento musivo fu realizzato: tessere originali, si presentano in successione cromatica giusta e in simili condizioni di stato conservativo, mentre le stesse file si alternano a tessere tipologicamente diverse, meglio conservate che indicano forse un restauro antico. La tecnica del sectile è identica, come gli incastri, i tagli precisi e la grandezza delle tessere, fino al materiale che sembra identico. Le diverse condizioni di conservazione che si osservano nelle immagini pubblicate non deve confondere nella valutazione della datazione perché il pavimento della basilica di San Clemente è totalmente ricostruito e restaurato, come anche gran parte di quello della basilica dei Santi Quattro Coronati che la Guiglia Guidobaldi anche prende a confronto per il litostrato di S. Maria Antiqua.

I confronti con la basilica Emilia a Roma, taberna VIII, il cui pavimento è anch’esso datato al VI secolo mostra due cose interessanti: la prima è che esso è diviso in ripartizioni rettangolari del tutto simili a quelle dei pavimenti cosmateschi, sebbene molto più approssimative e larghe; la seconda è che i motivi geometrici, pur essendo analoghi, sembrano essere realizzati con tessere molto grandi e con tecnica diversa.

Il fatto stesso che la Guiglia Guidobaldi dichiari, citando altri autori, il pavimento di S. Maria Antiqua, come «uno dei rari esempi altomedioevali esistenti e quindi accomunato a pavimenti del tutto diversi oppure, guarda caso, cosmateschi ritenuti però anch’essi di epoca altomedioevale», fa riflettere sulla possibilità che si stia discutendo di un caso più unico che raro e che proprio per questo sarebbe da considerare con grande attenzione e prudenza. 

 

 

 

IL PAVIMENTO MUSIVO DI SANTA MARIA ANTIQUA.

Nuove ipotesi dopo l’analisi autoptica dell’ottobre 2012

Alla luce delle nuove osservazioni prodotte in seguito all’analisi autoptica diretta del pavimento della chiesa, le precedenti conclusioni sono risultate imprecise, sebbene l’affinità stilistica con il litostrato della basilica di San Clemente risulti comunque evidente.

In Santa Maria Antiqua è stato sufficiente vedere l’insieme del pavimento in opus Alexandrinum che precede il falso tessellato in stile cosmatesco, di cui solo pochi frammenti rimangono nell’area immediatamente antecedente l’abside con i noti e più importanti affreschi, per capire la sostanziale differenza tra i due pavimenti di questa chiesa e quelli più propriamente cosmateschi dei marmorari romani della bottega di Lorenzo che si vedono nelle altre basiliche di Roma.

La prima cosa che si evince subito è che questo pavimento musivo [10] è stato completamente ricostruito, essendo  anche qui evidenti le stesse caratteristiche dei pavimenti cosmateschi ricostruiti dal XV al XIX secolo, secondo quanto detto sopra. In Santa Maria Antiqua non si osserva l’opus tessellatum, o la tecnica dell’opus sectile tra gli incastri delle tessere che risultano essere semplicemente pressate nel letto di malta cementizia sottostante e sul quale sono stati completati i  motivi geometrici con il tracciato reticolato, senza l’aggiunta di tessere, né antiche, né moderne. Non si osserva la necessaria simmetria geometrica tra i patterns e policroma nella disposizione delle tessere che compongono i motivi geometrici, come spiegato nelle pagine precedenti, regola basilare di ogni tipo di mosaico, sia nell’impiego di paste vitree che di tessere lapidee.

Non sono a conoscenza di dettagli documentali e storici sulla lenta trasformazione che ha subito questo pavimento dai tempi antichi fino alla sua prima riscoperta nel 1702 [11] per arrivare nello stato attuale ed è quindi difficile, se non impossibile, poter dire qualcosa di preciso su come e da chi sia stato manomesso nel tempo. La chiesa fu appunto riscoperta per la prima volta nel 1702 e non è improbabile che già secoli prima, tale pavimento possa essere stato parzialmente rifatto. D’altra parte, già a vedere la pianta di Petrignani (fig. 1), si può scorgere che qualcosa è cambiato e alcune porzioni sono andate perdute già nel corso dell’ultimo secolo.

Fig. 1 Fig. 2
Fig. 1 Fig. 2

Il Petrignani disegna 19 frammenti di pavimento musivo tessellato come furono visti al momento dello scavo. Credo che il suo disegno sia abbastanza fedele alla situazione reale e ci permette di osservare le notevoli differenze con il pavimento attuale. Le poche tracce delle fasce marmoree che contornano i motivi geometrici, corrispondono nella misura e nella forma a quelle ricostruite, confermando un elemento di grande importanza, quasi risolutivo per il nostro studio. Nella figura che ripropone la pianta disegnata dal Petrignani ho messo in evidenza quindici riquadri (fig. 2), di cui quelli corrispondenti ai numeri 10 e 11 comprendono in realtà diversi frammenti che si trovavano presumibilmente in riquadri diversi. Attualmente il pavimento è stato ricostruito ricomponendo una serie di cinque riquadri in senso longitudinale e sei in senso trasversale per un totale di 30 riquadri. Con buona approssimazione i motivi geometrici si trovano più o meno nella stessa posizione indicata dalla mappa del Petrignani, con qualche significativa differenza per quelli del riquadro 11 nella figura e alcuni frammenti scomparsi, o spostati, indicati nei riquadri 1, 8, 9 e 10, dove oggi lo spazio è occupato maggiormente dal gradino dell’altare. 

Nella fig. 3, Fig. 3  ho riportato alcuni dei riquadri disegnati dal Petrignani e quelli che si vedono oggi dal cui confronto è possibile vedere la differenza dovuta alle aggiunte della ricostruzione. L’orientamento delle foto rispetto ai disegni non è corrispondente, ma le differenze si notano comunque.

Fig. 4 Fig. 5
Fig. 4 Fig. 5

Nelle figg. 4 e 5, si può fare un confronto tra la zona pavimentale disegnata dal Petrignani e la situazione attuale. Come si può vedere, i motivi geometrici sono gli stessi, ma le porzioni non corrispondono tra loro in modo preciso. É evidente che qualcosa del mosaico è andato perduto e il pavimento manomesso, sebbene in minima parte. In ogni caso, grazie alla mappa del Petrignani, e visto l’aspetto odierno del litostrato, si possono fare alcune considerazioni di una certa importanza per approntare le nuove ipotesi.

 

Le nuove ipotesi

Osservando sul posto questo pavimento, in linea generale si osserva una forte somiglianza con quello fatto costruire dall’abate Desiderio nella chiesa abbaziale di Montecassino nel 1071. Le analogie più forti tra questi due pavimenti sono le seguenti:

1) identità tipologica e stilistica dei riquadri che comprendono i motivi geometrici, in entrambi i casi quadrati, più o meno delle stesse dimensioni, comprese le fasce marmoree;

2) identità tipologica e stilistica dei motivi geometrici, del tutto ascrivibili alle prime opere precosmatesche e dal confronto con le foto del pavimento cassinese, un prototipo di sua derivazione;

3) identità di patterns nello sviluppo modulare ed uso di tessere originali di giallo antico o bianche con l’effetto risaltante del bianco e nero per molti riquadri, cosa che si ritrova nei lacerti di pavimento più antichi ricostruiti nelle cappelle sotterranee dell’abbazia di Montecassino;

4) carenza dei motivi geometrici (solo 4 patterns diversi tra loro su 30 riquadri), ripetitivi e di semplice concezione;

5) assenza di patterns evoluti come quelli sviluppati nella cultura cosmatesca della fine del XII secolo;

 

Chi ha avuto modo di effettuare un’analisi autoptica dei resti del pavimento di Montecassino, non può fare a meno di riconoscere in questo di Santa Maria Antiqua un suo perfetto gemello, forse coevo, o più probabilmente posteriore di qualche decennio. Un’opera benedettina, quindi, o almeno derivata dalla cultura musiva che l’abate Desiderio incentivò grazie alla scuola bizantina istituita nel cenobio benedettino cassinese e in alcune abbazie da essa dipendenti, al tempo in cui si lavorava alla decorazione della chiesa sotto la diretta partecipazione degli artisti bizantini fatti venire dall’abate appositamente da Costantinopoli.

 

 

La datazione e la stratigrafia

Per quanto riguarda la questione della datazione per mezzo dell’analisi stratigrafica degli ambienti interessati, si evidenzia che se l’esame stratigrafico risulta corretto per la datazione al VI o VII secolo del pavimento in opus Alexandrinum, non si può dire lo stesso per quello tessellato, per il quale non sembra evincersi una situazione stratigrafica convincente. Al contrario, il pavimento tessellato potrebbe essere stato realizzato tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo da coloro che diedero un nuovo impulso vitale a questo complesso religioso, curandone anche parte della ricostruzione dopo la completa distruzione avvenuta a causa del terremoto dell’847. In quel periodo, quindi, si dovette procedere a coprire o sostituire l’unico pavimento preesistente in opus Alexandrinum, questo sì di stile, manifattura e origine bizantina sicuramente databile al VI-VII secolo, con quello più consono alle esigenze decorative che la cultura benedettina di allora stava proponendo, cioè in stile precosmatesco. Quindi, alla fine, il nostro pavimento potrebbe essere considerato come una testimonianza diretta della ripresa della vita religiosa nel complesso monastico di Santa Maria Antiqua insieme ai reperti di tipo cosmatesco che fungevano da arredo liturgico e che oggi si trovano repertati nelle gabbie metalliche poste nello spazio antistante all’entrata della chiesa, in attesa di una collocazione museale consona.

 

 

A tutto ciò si può aggiungere anche la possibilità che la piccola porzione di pavimento  cosmatesco dell’abside, considerato che essa è stata ricostruita totalmente, potrebbe essere stata prelevata dal materiale sopravvissuto di un molto probabile pavimento realizzato per la chiesa di Santa Maria libera nos a poenis infernis, ovvero Santa Maria Liberatrice che nel XIII secolo era stata edificata proprio sopra Santa Maria Antiqua.

Fig. 6 Fig. 7
Fig. 6 Fig. 7

Nelle figg. 6 e 7 si vede il confronto tra il disegno del Petrignani e il pavimento attuale nella zona sinistra antistante l’abside. Come si vede, il muro con gli affreschi ricade sui riquadri appartenenti all’antico pavimento del VII secolo e tale situazione è identica nel disegno del Petrignani a conferma che ciò è quanto ci è pervenuto dall’antico, almeno dal XII secolo. Niente di più probabile che per la caduta sulla chiesa dei palazzi sovrastanti a causa del terremoto dell’847, il pavimento davanti l’abside andò distrutto, salvandosi, come può essere logico, solo la parte limitata al perimetro del muro che in questo caso corrisponde solo al lato sinistro. Durante la ripresa, la comunità monastica, probabilmente benedettina, fece ricostruire il pavimento mancante, tra il 1080 e il 1100, secondo lo stile dettato dalla scuola musiva cassinese e secondo lo standard del pavimento dell’abbazia di Montecassino del 1071, ragione per cui oggi possiamo osservare tra i due pavimenti le strettissime analogie viste sopra. Tuttavia è da rilevare che i muri perimetrali non cadono sul pavimento in modo correttamente allineato con gli scomparti musivi, né su quelli di tipo bizantini, né su quelli di tipo tessellato. Questa condizione non è facilmente spiegabile se non pensando ad un adattamento forzato dei riquadri che però oggi si vedono in una situazione non di facile lettura. Sul perimetro del muro a destra, guardando l’abside, invece l’allineamento sembra essere corretto probabilmente perchè i marmorari iniziarono a ricostruire il pavimento da questo lato, allineando le fasce marmoree con il lato del muro e arrivando dalla parte opposta prima del muro, in prossimità della fila di riquadri bizantini che probabilmente scamparono alla distruzione del terremoto. Infatti, il disegno di Petrignani [12] lascia intravedere la giusta corrispondenza delle fasce marmoree originali residue con l’allineamento di detti riquadri bizantini. E’ anche logico pensare che nel VI-VII secolo il pavimento bizantino si estendesse a tutta la chiesa e non solo alla zona che precede il presbiterio.

Fig. 8 Fig. 9 Fig. 10
Fig. 8. Il pavimento che precede il presbiterio. Non rimane più nulla dell’originale Fig. 9. Il pavimento bizantino del presbiterio, risalente al VI-VII secolo Fig. 10. Il pavimento tessellato del presbiterio, risalente alla fine dell’XI secolo o ai primi anni del XII

Nelle figg. 8, 9 e 10, si vede chiaramente la differenza tra i tre pavimenti: quanto rimane dell’antico e quanto trasformato nel tempo.

Ciò che difficilmente potrà essere svelato, però, è se il pavimento tessellato fu concepito e realizzato per questa chiesa o se fu prelevato da un altro luogo ed ivi reimpiegato per il rifacimento del litostrato dopo il terremoto. Qualche perplessità può derivare dalla constatazione che la scuola bizantina di Montecassino sembra che avesse già delineato i canoni stilistici decorativi dei pavimenti musivi di questo genere, secondo i quali le zone di grande importanza della chiesa, come il presbiterio e la Schola cantorum, dovevano essere decorati con lavori sostanzialmente più importanti rispetto a quelli delle zone periferiche. Nel disegno di Erasmo Gattola [13] , in cui si può vedere l’unica rappresentazione conosciuta del pavimento antico di Montecassino fatto realizzare dall’abate Desiderio nel 1071, si vede chiaramente questa scelta, dove longitudinalmente alla navata maggiore si estende una larga fascia decorativa ricchissima di motivi musivi, rotae, tessere a forma di losanghe, oppure oblunghe e intrecci di ogni tipo; mentre affianco a questa fascia e nelle navate minori vengono sviluppate, in senso longitudinale, file di partizioni reticolari rettangolari musive con i più consueti motivi geometrici, la maggior parte dei quali di stile precosmatesco ma che danno un’idea della ricchezza decorativa dell’opera. Non si comprende, quindi, il motivo per cui nel presbiterio di Santa Maria Antiqua sia stato realizzato un pavimento in opus tessellatum con 30 riquadri 19 dei quali presentano frammenti dei motivi geometrici di cui erano composti e in totale solo 4 patterns, tra i più elementari del repertorio musivo, risultano essere diversi tra loro.  Una scarsità d’arte musiva che non si addice certo ad un’opera decorativa concepita per un presbiterio di una chiesa così antica e prestigiosa, come invece gli affreschi stanno a testimoniare.

 

 

Perchè un pavimento precosmatesco benedettino ?

Nell’ipotizzare un’opera di cultura benedettina, viene spontaneo chiedersi se per caso in questa chiesa, o nelle immediate vicinanze, non si fosse insediata una comunità di monaci benedettini, dopo l’abbandono della struttura a causa della distruzione del terremoto dell’847. Al riguardo sembra che non siano note prove documentali, ma la presenza benedettina è stata accertata da diverse osservazioni. Fra tutte si menziona quella di J. Osborne [14] ripreso da Pietro De Leo [15] secondo cui il monastero greco di Santa Maria Antiqua, dopo il suo abbandono alla metà del IX secolo, fu occupato da una comunità monastica benedettina. Lo studio del pavimento della chiesa, potrebbe aiutare nella datazione di tale insediamento che, secondo una conseguenza logica, dovrebbe essere postumo alla consacrazione della nuova basilica di Montecassino e corrispondere così con quella ripresa di vita religiosa del complesso di Santa Maria Antiqua che gli studiosi riferiscono attorno all’XI secolo. Lo stile del pavimento, nella sua essenza e nell’analisi dei moduli geometrici dei patterns, confrontati con quelli di Montecassino, anche per quanto riguarda il taglio e la tipologia delle tessere lapidee, sembrano indicare una datazione posteriore al pavimento di Desiderio, di un periodo che può essere stimato non più avanti di mezzo secolo, quindi tra il 1080 e il 1130. Le analogie, infatti, non sono riferibili solo al pavimento cassinese, ma trovano corrispondenza, per esempio, anche con alcune parti più antiche del pavimento della basilica dei Santi Quattro Coronati, i cui elementi precosmateschi sono riferibili ai primi decenni del XII secolo. Non è un caso che a Roma nella maggior parte delle basiliche in cui furono realizzati pavimenti precosmateschi e poi restaurati o rifatti dagli stessi Cosmati del XIII secolo, vi erano insediamenti benedettini ed è anche ovvio che la cultura del pavimento musivo nello stile del prototipo cassinese venisse diffusa nell’architettura e nell’arte decorativa delle comunità monastiche benedettine a Roma, come nel Lazio, nella Campania e del resto dell’Italia centro-meridionale. Da quanto detto, risulta ovvio, quindi, l’accostamento per analogia stilistica del pavimento di Santa Maria Antiqua (solo la parte dei riquadri in tessellato) a quello quasi coevo di Montecassino e alle produzioni simili della fine dell’XI secolo. 

Fig. 11 Fig. 12 Fig. 13
Fig. 11. Roma, Santi Quattro Coronati Fig. 12. Roma, Santa Maria Antiqua Fig. 13. Montecassino, Frammento del pavimento di Desiderio (1071) nel Museo
Fig. 14 Fig. 15 Fig. 16
Fig. 14. Roma, Santa Maria Antiqua Fig. 15. Montecassino, Museo Fig. 16. Roma, Santa Maria Antiqua, pattern derivato da quello della figura seguente di Montecassino
Fig. 17 Fig. 18 Fig. 19
Fig. 17. Montecassino, Museo. Qui le losanghe sono esagonali e il modulo sovradimensionato Fig. 18. Roma, Santa Maria Antiqua Fig. 19. Montecassino, Chiesa sotterranea di San Martino, tessitura orizzontale
Fig. 20 Fig. 21 Fig. 22
Fig. 20. Roma, Santa Maria Antiqua, frammento Fig. 21. Roma, Santa Maria Antiqua Fig. 22. I due listelli marmorei di giallo antico, resti del reperto probabilmente originale, indicano che quasi sicuramente anche gli altri erano dello stesso colore, formando così una griglia di giallo antico contrapposta al serpentino delle tessere triangolari e quadrate; mentre i quadrati grandi centrali potevano essere di porfido rosso. Sotto, il pavimento misto di frammenti originali e parti moderne

Ipotesi di attribuzione

Se la datazione del pavimento musivo tessellato della chiesa di Santa Maria Antiqua presenta difficoltà tali per cui non si possono avere certezze e l’approssimazione è la sola via di uscita senza prove documentali sicure, la sua attribuzione è ancora più problematica. Non è possibile, infatti, individuare con precisione, nell’ambito della cronologia dei marmorari romani, i maestri a cui l’opera pavimentale può essere riferita. Tuttavia, se si accetta la sua datazione al periodo compreso tra il 1080 e il 1120, le uniche ipotesi di attribuzioni possibili sono le seguenti:

 

1) Magister Paulus

2) Tebaldo Marmoraro

3) Giovanni Marmoraro, padre di Ranuccio

4) Christianus magister

 

Christianus magister è il più antico marmoraro romano conosciuto, ma egli è attestato attorno al 964 per la realizzazione della tomba del cardinale Pietro nella basilica di Santa Prassede, in un’epoca, quindi, troppo anteriore a quella considerata [16] ;

Giovanni marmoraro, operante dal 1100, come generalmente accettato dagli studiosi nella cronologia, è il padre di Ranuccio le cui famiglie eredi credo abbiano lavorato quasi esclusivamente agli arredi liturgici e progetti di microarchitetture delle basiliche romaniche, ma quasi mai ai pavimenti musivi dei quali i pochi oggi generalmente a loro attribuiti, si sono rivelati come opere della bottega di Lorenzo [17] ;

Tebaldo marmoraro, attivo anche lui attorno al 1100, è il padre di Lorenzo della famosa bottega dei Cosmati veri e propri [18] ;

Magister Paulus, attivo nel 1106 a Ferentino, potrebbe essere un candidato probabile. In ultima analisi, i due artisti più probabili potrebbero essere Tebaldo e Paulus i quali forse frequentarono la scuola per mosaicisti bizantina istituita dall’abate Desiderio a Montecassino. I patterns del pavimento sono pochi e troppo generici, tutti derivati dal repertorio precosmatesco di Montecassino, ma anche dalla tradizione musiva romana e bizantina. Tra l’altro non si ha la certezza che il pavimento sia stato concepito in origine per quella chiesa, mentre se fosse stato trasportato da una delle basiliche romane in tempi precedenti e coevi al papato di Pasquale II, allora l’attribuzione a uno di questi due maestri sarebbe ancora più legittima.

In definitiva, non è possibile proporre una attribuzione che abbia un qualche fondamento sicuro, ma se la datazione è approssimativamente corretta, il pavimento potrebbe essere o una parte derivata da un’altra chiesa e realizzato da una delle due famiglie dei marmorari predetti, o realizzato in situ per S. Maria Antiqua da allievi poco attenti o da operai che adoperarono materiale di riuso allo scopo di sostituire il precedente  pavimento bizantino del VI-VII secolo e andato parzialmente distrutto con il terremoto dell’847.

Infine potrebbe affacciarsi la possibilità che la porzione di pavimento tessellato sia stata prelevata dai resti del pavimento tessellato che doveva esistere nel monastero benedettino annesso alla chiesa per il quale sembra documentata una ripresa di vita religiosa nel periodo in esame.







NOTE

[1] Credits

Si ringrazia per la gentile collaborazione: dott. Giuseppe Morganti, direttore dei lavori di restauro, per le comunicazioni in merito al pavimento della chiesa, il dott. Alessandro Lugari che ha pubblicato una tesi di laurea sui pavimenti di S. Maria Antiqua per il dottorato in Tecnologia dei Beni Culturali all’Università della Tuscia di Viterbo, per avermi comunicato il proprio parere in merito al pavimento musivo della chiesa, il monaco benedettino Don Gregorio Don Francesco dell’abbazia di Montecassino per avermi permesso di studiare ed analizzare il pavimento musivo di età desideriana, venuto alla luce sotto il pavimento settecentesco della chiesa abbaziale in seguito al tragico bombardamento della seconda guerra mondiale, e conservato in diverse cappelle sotterranee dell’abbazia e nel locale Museo, il monaco benedettino Faustino Avagliano ancora dell’abbazia di Montecassino, archivio manoscritti, per l’acquisizione dei dati del mio libro Il pavimento precosmatesco dell’abbazia di Montecassino, infine la dott.ssa arch. Lucia Prandi, dell’associazione Roma Sparita, per avermi concesso la possibilità di visitare la chiesa di S. Maria Antiqua nell’ultima apertura straordinaria al pubblico dell’ottobre 2012.  Roma, 29 ottobre 2012

[2] http://www.ilmiolibro.it, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, Cromografica, 2012

[3] Pantoni Angelo, Le vicende della basilica di Montecassino attraverso la documentazione archeologica, Montecassino 1973, pp. 101-193.

[4] Studi e Restauri nelle chiese di Roma: San Giorgio al Velabro e S. Prassede, in Capitolium VI, n. 9, 1927, p. 447.

[5] I marmorari romani, Milano, 1935.

[6] The Cosmati. The roman marble workers of the XII and XIII centuries, London, 1950.

[7] Dorothy F. Glass, Studies on cosmatesque pavements, British Archeological Report Series, Oxford 1980.

[8] Tradizione locale e influenze bizantine nei pavimenti cosmateschi, “Bollettino d’Arte”, 26, 1984, pp.57-72.

[9] D. Glass, op. cit. pag. 32

[10]   Da questo momento per “pavimento musivo” si dovrà intendere qui, a meno che sia specificato diversamente, la porzione di pavimento che ci interessa direttamente, essendo essa la sola simile alle opere cosmatesche, e che si trova dopo l’altare, nell’area antistante l’abside.

[11]  La notizia è riportata in Christian Hülsen, Il Foro Romano, Storia e Monumenti, Torino, Ermanno Loescher & Co. Editori di S. M. la Regina d' Italia, 1905, pag. 142: “Nel 1702, scavando a caso dietro questa chiesa, fu trovata la parete di fondo del presbiterio con l' abside della chiesa antichissima, ma lo scavo fu ricoperto subito. Demolita la chiesa di S. Maria Liberatrice nel 19001901, l'antica basilica fu messa alla luce e restaurata con molta cura”.

[12] P. Romanelli, P. J Nordaghen, S. Maria Antiqua, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 1964, Tav. 6

[13] In realtà il disegno del pavimento di Montecassino fu eseguito dall’architetto napoletano A. Guglielmonti, probabilmente sul finire del XVII secolo e poi inciso da A. Maliar per essere pubblicato come «Pavimentum ecclesia cassinensis diversorum lapidum varietate constructum», nella nota opera di Erasmo Gattola, Historia abbatiae cassinensis per seculorum seriem distribuita..., Venetiis, 1733, Tav VI.

[14] J. Osborne, The Atrium of S. Maria Antiqua, Rome: a History in Art, in “Papers of the British School at Rome”, LV,1987, pp. 186-223.

[15] San Bruno di Colonia: un eremita tra Oriente e Occidente, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore, 2004, p. 259.

[16] Inoltre in quel periodo non sono conosciute particolari attività di botteghe marmorarie romane alle quali si possa riferire questi lavori.

[17] Questa considerazione è scaturita dalle ricerche effettuate da chi scrive nel 2012 sui più importanti pavimenti cosmateschi di Roma e del territorio compreso tra la Tuscia e la Sabina, molti dei quali sono stati finora attribuiti alla famiglia di Ranuccio, solo sulla base della presenza di opere di arredo, come amboni e plutei,  firmate da quei maestri e non sull’osservazione autoptica stilistica del pavimento stesso.

[18] Infatti, gli artisti meglio attestati che hanno dato origine alla definizione di “arte cosmatesca”, sono Cosma di Iacopo e Cosma della famiglia dei Mellini, ma quest’ultimo visse alla fine del XIII secolo, mentre i Cosmati che ci hanno lasciato quei “meravigliosi lavori”,come furono definiti da Anna Maria Bessone Aurelj nel 1935, sono proprio gli artisti che si avvicendarono nel periodo compreso tra gli ultimi decenni del XII e la prima metà del XIII secolo, appunto Lorenzo, Iacopo di Lorenzo, Cosma di Iacopo, e Luca e Iacopo II figli di Cosma.







 

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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