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L’Accademia dei Pittori e degli Scultori di Venezia. Dalla corporazione medievale all’istituzione accademica  
Giulia Chellini
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 23 Dicembre 2013, n. 700
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Il panorama delle corporazioni di mestiere veneziane è fra i più complessi dell’Occidente. Durante il XIII secolo, delle 203 arti dotate di autonomo statuto, sorte nel corso della storia della Repubblica, già 56 risultavano regolarmente registrate presso la magistratura della Giustizia Vecchia [1].

Le corporazioni nell’ambito della propria organizzazione, potevano essere suddivise in specifiche categorie o specializzazioni di mestiere, denominate colonnelli. Tra di esse lo statuto o capitolare più antico di cui si ha notizia è quello dei sarti, del febbraio 1219 [2].

Oltre alle associazioni di natura tecnica, come quelle dei filatori oppure quelle edili, nelle quali confluivano i mestieri dei muratori, fabbri e falegnami, si andava delineando una serie di corporazioni di carattere specificatamente artistico, quali l’arte della vetreria, dell’oreficeria, della tessitura, dell’ebanisteria, della produzione degli arazzi, dei dipintori che andranno a fabbricare impareggiabili prodotti di artigianato lagunare [3].

A Venezia, però, le associazioni di mestiere manifestarono caratteristiche diverse rispetto a quelle di altre città medievali come Firenze, dove avevano acquistato un’autonomia ed una potenza tali da influire spesso nelle questioni dello Stato, costituendosi come dei veri e propri enti politici.

In laguna erano sottoposte ad una stretta sorveglianza del Governo, attraverso speciali magistrature come, per l’appunto, la Giustizia Vecchia [4], per mantenerle nella condizione di organi aventi soltanto funzioni economiche, evitando dunque qualsiasi partecipazione al governo cittadino e venendo disciplinate da norme minuziose, con l’obiettivo di tenere alta la fama e difendere il livello qualitativo della produzione veneziana. Emerge, dunque, da un lato la volontà di permettere all’associazione di svolgere quella funzione di protezione e tutela degli associati per mantener vivo il consenso popolare e il senso di aggregazione, dall’altro, si percepisce, però, la diffidenza dello Stato che, con lo spezzettamento delle professioni in varie specializzazioni, voleva evitare la formazione di un’organizzazione eccessivamente ampia che rischiava di assumere un peso socio-politico troppo forte.

Nel XIII secolo ogni corporazione ebbe uno statuto, capitolare o mariegola, in cui erano fissate le regole per le specifiche attività della professione. Lo statuto dei pittori di Venezia risale al 1271 ed è il più antico di quelli relativi a quest’arte conosciuti in Italia, il che fa affermare allo Zanotto che la pittura a Venezia «era salita in grande onore più che nelle altre città» [5].

Non bisogna pensare, però, che nel Capitolare del 1271 vi siano indicazioni o prescrizioni di natura specificatamente artistica circa i pittori del XIII e XIV secolo, poiché al suo interno si fa riferimento soprattutto alla realizzazione di scudi lignei, foderati in cuoio e poi decorati [6], ovvero al lavoro di quegli artigiani impegnati perlopiù nella produzione e decorazione di sedie, cofani ed altri oggetti diretti sia al mercato veneziano che a quello estero, dando indicazioni soprattutto circa la qualità dei materiali, le modalità di fabbricazione e la commerciabilità del prodotto [7].

L’Arte dei depentori spaziava dai pittori (di affreschi, ancone e tele) agli scudieri (scudi, insegne, targhe e maschere), dai depentori (di tavole da pranzo, piatti, mobili, brocche) ai coffanieri (decoratori di casse per corredi nuziali), agli intaiadori agli scultori in legno, fino ad arrivare ai doradori, carteri e disegnatori: la varietà dei colonnelli fornisce un’idea degli innumerevoli prodotti sfornati da quest’arte [8].

La mancanza di particolari circa la produzione artistica vera e propria fa supporre che la gran parte delle regole costituisse un segreto di bottega, che, d’altra parte, nel Medioevo era comune a molte arti.

Nel 1436 i pittori ebbero un nuovo ordinamento statuario che confluì nella mariegola redatta nel 1517, in cui si ritrovano anche il proemio ed alcune ordinanze dell’antico statuto del 1271 [9].

La separazione di un colonnello dalla corporazione madre e la nascita di una nuova associazione di mestiere autonoma, in genere, comportava un aggravio di tasse sia per quella vecchia, che vedeva diminuire i propri membri, che per la nuova, i cui associati, in modo autonomo, dovevano infatti sostenere tutte le spese che prima condividevano con numerosi confratelli [10].

L’organizzazione interna ed i rapporti con lo Stato e con l’esterno erano disciplinati dalle norme contenute nel proprio “Capitolare” e allo scopo di garantire il rispetto delle disposizioni statali e delle norme statuarie a capo di ciascuna arte, vennero istituite varie cariche di durata annuale. Tra esse la più importante era quella del Gastaldo, scelto tra gli artigiani più capaci ed esperti, che reggeva l’Arte, era garante del capitolare, presentava i conti a fine mandato; egli era coadiuvato, nelle sue mansioni, da altre figure, quali il massaro, i tansatori per la riscossione delle imposte fiscali, i sindaci per la revisione dei conti, uno scrivano o segretario.

Alla corporazione si accedeva per filiazione o attraverso un periodo di apprendistato, come garzone e poi come lavorante, della durata variabile dai sette ai dieci anni; il lavoratore, poi, doveva sostenere una prova pratica per dimostrare di aver ben imparato il mestiere e passare così alla qualifica di capomastro ed essere iscritto a pieno titolo nell’Arte.

I membri della corporazione avevano precisi obblighi morali e materiali nell’assistenza verso i confratelli inabili, i vecchi, le vedove e gli orfani e devozionali in occasione della festa del Santo patrono e nella commemorazione dei defunti. Nell’ordinamento corporativo veneziano ciascuna bottega artigiana conserva la propria autonomia economica e una parziale autonomia giuridica, disponendo di capitale e utili o perdite propri; ciò fa sì che, ad esempio, nei contratti di apprendistato, il garzone si accordasse con il padrone della bottega e non con la corporazione, anche se il contratto stesso è sottoposto a rigide norme da rispettare.

Al lungo periodo che si è fatto iniziare con la redazione dello statuto del 1436 pose fine la separazione del colonnello dei pittori dall’Arte, ufficializzata dal Senato nel dicembre 1682. Un fatto significativo per i pittori che fino a quel momento erano iscritti all’Arte meccanica dei depentori, i quali, ora, potevano instituire un proprio Collegio, ad imitazione di quelli molto più antichi dei medici o dei chirurghi [11].

Finalmente la loro professione, dopo essere stata per secoli parte di un sodalizio classificato tra le arti di “consumo”, iniziò ad essere considerata arte liberale, consapevole delle proprie capacità e della gloria acquisita in Italia e fuori dai suoi più illustri esponenti.

Risale al 1679 la prima supplica dei pittori al Doge, con l’esplicita istanza di separarsi dagli altri componenti dell’Arte per istituire un’Accademia. Costoro, vedendosi mescolati con «doradori, dipintori, cimbanari, cartolari, miniatori, coridori, naranzeri, fruttarioli e finalmente con i bianchesini, e pignatari, mannalissimi operarij» [12] all’interno della stessa Arte, i cui associati erano definiti in modo quasi dispregiativo una «mistura di gente, che unisce un popolo intero» [13], supplicarono il Senato di «scorporarsi da sì proffusa unione d’operaij, e sotto nome d’Accademia di Pittori obedire per nostro Giudice il Maggistrato degl’Eccelentissimi Signori Provveditori di Commun» [14]. Nella loro supplica, sottolineando la nobile origine della pittura, ne ripercorrevano il decorso maestoso per la Patria, fino a quando essa con la perdita della «propria stima s’andò inviluppando cogl’abusi del tempo con alcune triviali e minutissime arti, et hora trovasi con aggravio et in decoro tra le medesime seppolta»[15]. Dunque, tra le ragioni avanzate per motivare la richiesta, emerse il proposito di dare alla pittura la dignità che le spettava alla pari delle altre attività intellettuali, allontanandola così dalle professioni «triviali e minutissime» [16] con cui era stata aggregata nell’Arte e con le quali era continuamente in lite; contemporaneamente, emerse la volontà di evitare ai pittori di ricoprire «cariche con total distrattione da nostri studij» [17] e di essere allontanati «dalla pace e dalla quiete tanto necessaria alla nostra ideal applicazione» [18]. Non potendo espellere i membri delle altre professioni aggregate, i cosiddetti mestieri “meccanici” dai quali volevano fortemente diversificarsi, chiesero la separazione da essi.

La proposta venne presa in esame dal Senato, che diede loro il permesso «di far la separazione dell’Arte de’ Pittori, che è liberale dalle altre Meccaniche» [19].

Quasi due anni trascorsero prima che la supplica venisse concretamente valutata e presa in esame. Pare che i pittori, attraverso i loro avvocati, si fossero appellati e che la pratica, di conseguenza, fosse rimasta in sospeso; probabilmente ormai non credevano di ottenere una risposa positiva, poiché rivolsero ben presto una nuova petizione, questa volta ai Provveditori sopra la Giustizia Vecchia, esponendo le difficoltà che incontravano nel difendere gli interessi della professione contro i contravventori e chiedendo per questo di essere dispensati dalle cariche, senza però far parola di separazione.

I Provveditori fecero presente al Senato la situazione dei pittori, insistendo sul fatto che gli iscritti al colonnello erano una minoranza rispetto al numero di coloro che esercitavano la pittura, con gravi conseguenze per il pagamento dei contributi e una scorporazione, dunque, poteva risultare conveniente.

Dagli stessi vennero poi esaminate le proposte formulate dai Pittori e dagli Scultori, le quali erano state avanzate in seguito alla richiesta del Senato, rivolta ai priori del Collegio, di compilare i necessari progetti da approvare per la nascente Accademia: sembrava, dunque, che la situazione volgesse verso un cambiamento. Vi si chiedeva di individuare «il metodo di praticarla […] li mezi che possono contribuire per fondam.te stabilirla e perpetuamente mantenerla […] rintracciare diligentem.te ancora delle dirett.ni e regole di quest’Arti per mag.te promuoverne il desiderato fine» [20]. Veniva così riconosciuta l’importanza dell’istituzione «per far risorgere in questa città a magg.r suo lustro l’arti liberali della Scoltura, Pittura, et Architettura, coll’instituire un Accademia, onde atrahere et allettare à trattenersi à questa parte gl’Oltramontani che necessariam.te vi passano, nel trasferirsi a Fiorenza, Bologna, e Roma» [21]; è evidente che Venezia non voleva restare inferiore nel campo delle arti rispetto alle altre città italiane.

Gli stessi Riformatori suggerivano al Senato di «promovere, et ad accrescere col pub.o aneggio anco l’interessi de privati, risorgere in q.ta Città a fronte dell’estere, l’Arti liberli della Scoltura, Pittura, et Architettura, dalla decadenza, in cui si trovano presentem.te» [22], nell’idea che un’Accademia, alla pari delle altre, potesse «incaminare nell’erudito esercizio la Gioventù» [23].

Il sospirato decreto che rendeva esecutiva la separazione fu emesso dal Senato nel dicembre 1682. In esso si incaricavano i Provveditori sopra la Giustizia Vecchia di sovrintendere all’istituzione del nuovo sodalizio, regolandone l’organizzazione matricolare e il buon governo; si ricordavano, inoltre, gli impegni assunti dai pittori per il pagamento della nuova imposta di cui l’Arte veniva gravata, la cosiddetta tansa insensibile, superiore a quella che in proporzione le spettava in precedenza [24].

Pur di staccarsi dall’antico sodalizio i pittori assecondarono queste richieste, offrendo un contributo annuo ben superiore a quello che fino a quel momento avevano pagato, ma chiedendo al tempo stesso, come arte liberale, di essere esentati dall’obbligo del bossolo. Essi contavano di poter pagare la tassa dopo aver riscattato i capitali con le nuove benintrade, [25] ritenendo che le iscrizioni sarebbero notevolmente aumentate in seguito alla separazione, poiché molti pittori prima restii ad unirsi con gli artigiani delle altre professioni, si sarebbero certamente iscritti al loro Collegio.

La reazione dei membri dell’Arte dei depentori fu immediata: la decisione di separarsi era stata presa unilateralmente dai pittori in contrasto con i loro interessi e perciò tentarono di opporvisi, presentando ai Provveditori alla Giustizia Vecchia un’istanza per ottenere la conferma dell’unione con i pittori e costituire una commissione per difendersi contro le loro pretese. Ma tale richiesta venne negata, giudicandola contraria al decreto da poco emesso.

Contro il nuovo tributo di cui veniva tassata la nascente Arte, i Priori dei pittori rivolsero per decenni ripetute suppliche al principe, denunciando «l’instabilità della professione dei pittori, che vanno, vengono et che sono poveri» [26], insistendo sulla condizione economicamente difficile in cui versavano la maggior parte di essi, causata da coloro che lavorando all’estero «non possono esser tansati» [27], ovvero quegli artisti che si sottraevano in tutto o in parte al pagamento della tansa, non trovandosi fisicamente in città; altri pittori offrivano una riscossione incerta ed inoltre un ulteriore gran numero non era matricolato nel Collegio poiché era al servizio di famiglie private [28].

La prima riunione del Collegio si tenne il 12 gennaio 1683 nella casa di Pietro Liberi, allo scopo di dare un nuovo assetto all’Arte e di conferire le cariche. Fu eletto priore lo stesso Liberi e suoi consiglieri furono Antonio Zanchi e Carlo Loth. I pittori presenti in riunione erano solamente 24, alla seduta seguente divennero 32 soci.

L’iscrizione al Collegio era aperta, probabilmente per accrescerne le entrate, anche ai “bottegheri” e “maschereri” i venditori di quadri, maschere, tele e colori macinati, i quali, però, non potevano ricoprire alcuna carica [29].

Dopo la separazione il controllo esercitato sul Collegio dallo Stato fu sempre meno rigido e determinante fu l’esenzione che i pittori ottennero per decreto del Senato nel settembre 1761 dalle tasse della Milizia da Mar. L’Arte ormai non rientrava esattamente in alcuna delle categorie sotto le quali erano classificate le altre: d’industria, di consumo e vittuaria.

Ma fu soltanto dopo un quarto di secolo dalla loro richiesta, nel 1750, che il Senato, con il decreto del 24 settembre, concesse «alla gioventù per lo studio del Dissegno l’uso di certa stanza nella casa del Fondaco alla Farina in San Marco» [30] ribadendo nello stesso che «già con Decreto 14 Dec.e 1724 fu promessa la Pubblica protezione alla sin da allora palesata d’istituir un’Accademia di queste Arti» [31].

L’istituto si chiamò, inizialmente, “Accademia del nudo” [32] e nei primi anni di vita fu retto in via provvisoria dallo stesso Collegio, di cui, di fatto, era una derivazione, affidandone il controllo amministrativo ai Riformatori dello Studio di Padova [33].

Come primo direttore della scuola fu scelto Giambattista Piazzetta; non vi sono documenti riguardanti la sua attività in Accademia, quindi non possiamo sapere con certezza le modalità dei suoi insegnamenti. Tuttavia Gian Battista Albrizzi, il quale conferma la sua carica nella breve biografia premessa all’opera, Studi di pittura, edita sei anni dopo la scomparsa dell’artista, verificatasi nel 1754, pubblica, nella stessa, un gruppo di studi propedeutici di figura che lo aveva convinto ad eseguire prima della sua morte; inciso dal Pitteri con accurata ombreggiatura [34] sicuramente, dovette essere una guida più efficace di qualsiasi istruzione verbale per i suoi allievi [35].

E che il Piazzetta fu «prescelto a primo Direttore della Pubblica Accademia di Pittura e Scultura eretta in Venezia nel 1750» [36] lo attesta anche Alessandro Longhi nel Compendio delle vite dei pittori veneziani (1762).

La scelta della figura con cui dare avvio all’attività didattica ricadde su di lui probabilmente perché risultava la personalità più idonea in quanto aveva già sperimentato la sua propensione all’insegnamento, istruendo numerosi allievi nella fiorente e ben organizzata bottega a San Zulian, dove, almeno dal 1722, teneva una scuola privata [37] così bene avviata che aveva persino un direttore, Giuseppe Angeli, presso la quale si svolgevano, per tirocinanti ma anche per artisti di ogni età, lezioni dal vero; molti di coloro che transitarono in essa diverranno poi membri del Collegio Accademico.

L’impostazione didattica della sua scuola molto probabilmente rispecchia quella prima organizzazione che, in via sperimentale, venne data alla neonata istituzione pubblica, la quale si può immaginare in un disegno del 1720 circa, Scuola di nudo, del giovane Giambattista Tiepolo, in cui si rappresenta una lezione dal vero, dove una ventina di allievi di diverse età, sono intenti a copiare un nudo maschile, disposti tutt’intorno al modello in posa, il quale sarà stato posizionato dai maestri ispirandosi ad opere d’arte celebri [38]. Non tutti gli studiosi sono concordi nell’individuare il luogo rappresentato con la scuola del Piazzetta, avanzando anche l’ipotesi dello studio di Gregorio Lazzarini, presso cui Tiepolo si formò.

L’insegnamento accademico del nudo, cioè la trattazione in senso razionale di un canone di bellezza corporea, incideva notevolmente nella svolta del gusto che anche a Venezia si affacciò dal settimo decennio. L’importanza del disegno come fondamento di ogni arte è un’impostazione che non può esimersi dal riferimento con l’Accademia romana di San Luca, sotto il cui controllo venne posta la Scuola di nudo in Campidoglio, fondata nel 1754 per opera di Benedetto XIV. Qui l’obiettivo di fornire ai giovani artisti i modelli ideali per ogni tipo di educazione accademica era conseguito attraverso la possibilità di accesso alla statuaria ed, insieme, alla pinacoteca. La pratica del disegno del nudo era per i giovani un passo obbligatorio per accedere alla pittura di figura e alla grande statuaria: un tirocinio che era prassi comune già presso gli studi privati di molti artisti, quali Sebastiano Conca, Pompeo Batoni, Raphael Mengs, ma a differenza di esse, la Scuola Capitolina di Nudo era un’istituzione pubblica, aperta a tutti e gratuita [39].

Appare palese che anche l’Istituzione veneziana avesse posto come procedimento “ufficiale” da privilegiare nelle modalità didattiche e pratiche, lo studio del disegno dal naturale, e tendesse ad identificarsi con esso. Nonostante la produzione locale si sia contraddistinta e resa famosa dal Cinquecento in poi per i caratteri coloristici e la considerazione della superiorità del colore sul disegno grafico, primato invece fiorentino, lo studio del nudo non era mai mancato negli ateliers veneziani; la stessa denominazione “di nudo” che inizialmente si scelse per identificare l’istituzione lascia intendere come, anche nel contesto lagunare, venisse indicato il disegno e, nello specifico, la copia dal vero e dai modelli antichi, come fondamento della pratica artistica.

Ora, la nuova fondamentale importanza data al disegno in tale cultura figurativa, è conseguente alla diffusione delle teorie di Winckelmann e dei suoi seguaci, le cui idee e scritti furono importanti per la costituzione o ristrutturazione di molte Accademie europee.

Preso atto dell’importanza del disegno nell’iter di formazione dell’artista e nel processo creativo, appare in ogni caso evidente il diverso approccio ad esso che il primo direttore dell’Accademia manifestò rispetto alla prassi di altri contesti accademici: confrontando i suoi disegni con quelli della scuola romana, ad esempio, di Domenico Corvi, emerge come al suo studio del corpo e dell’anatomia resa sul foglio in modo lucido sin nei minimi dettagli, venga privilegiata in Piazzetta la visione d’insieme, l’andamento del corpo colto attraverso il suo impatto con la luce e nel contrasto con le zone d’ombra, evidenziandone così la plasticità nelle vibrazioni luministiche.

Piazzetta, iscritto alla Fraglia dei pittori di Venezia dal 1711 [40], non abbandonò mai la laguna fatta eccezione di quando, dal 1704 circa, «trasportato dal desiderio di veder più davvicino le Opere de’ celebri Professori di altre Scuole fuori della Veneziana, se ne andò a Bologna» [41], stringendo rapporti con Giuseppe Maria Crespi, divenuto poi suo maestro e rivolgendosi allo studio della grande tradizione classica, dai Carracci al Guercino «di cui parve che volesse imitare il gusto, e la maniera» [42].

Sebbene, dunque, non seguisse la moda e il gusto dominante tra i ceti aristocratici, paradossalmente, a Venezia godeva di così tanto prestigio che appena fu fondata l’Accademia ne venne nominato direttore, quando ormai aveva raggiunto l’apice della sua fama.

Egli, in aggiunta, si muoveva anche nel campo dell’incisione e dell’editoria, oltre ad essere fortemente stimato per i suoi disegni che «vengono ricercati dalle più colte nazioni e veduti con piacere ad estimazione» [43]. Dunque, si mostrava come una figura non nuova nell’ambiente “istituzionale”, un uomo che, con autorità, fiducia e capacità, grazie al suo inserimento capillare nel contesto artistico cittadino, poteva assumere la direzione di una nascente scuola pubblica di cui era necessario impostare la struttura non solo organizzativa ma anche didattica.

Solo la grande passione e l’amore del Piazzetta riuscirono a far vivere l’Accademia nei primi anni della sua istituzione, costretta in una sola stanza del secondo piano del Fonteghetto alla farina [44]; l’iniziale richiesta del Collegio di individuare nel Fondaco alla Farina in San Marco il luogo dove potesse «aprirsi nella Gioventù ben inclinata l’emulazione nell’Arti liberali» [45], venne accolta dal Senato, poiché tale istanza fu letta nell’obiettivo «di mantenere ed accrescere sempre più in q.sta Città l’antico splendore delle due Arti tanto pregevoli della Pittura, e Scoltura» [46].

Attraverso un porticato si accedeva all’Accademia, mentre a piano terra e nel cortile permanevano le normali attività dell’edificio; questa divisione dello spazio aveva dato origine a molti disguidi causati dalle difficili condizioni logistiche in cui si trovava l’istituzione, disposta in ambienti inadatti e a cui si aggiunse il fatto che tali locali erano di pubblico dominio e dunque «in caso di qualche rilevante pubb.a urgenza per cui indispensabile fosse il serv.o di questa stanza» [47], era necessario renderla, contribuendo così all’instabilità organizzativa della Scuola [48].

Purtroppo Piazzetta mori di lì a poco, nel 1754, insegnando solo gli ultimi anni di vita; alla sua morte, un altro grande esponente dell’orizzonte artistico della Venezia settecentesca, Giambattista Tiepolo, assunse la presidenza dell’Istituto.

Nel 1756 venne approvato dai Riformatori [49] il primo statuto dell’Accademia, fissando a 36 il numero degli Accademici, 28 pittori e 8 scultori; mentre Piazzetta era stato definito “direttore”, ora, nel primo articolo, si parlò, di “presidente”, carica che venne conferita a Giambattista Tiepolo: segnale, probabilmente, dell’ufficialità a questo punto raggiunta dall’istituzione rispetto al carattere sperimentale dei primi anni di direzione.

Accanto al neoeletto presidente furono indicati il pittore Giambattista Pittoni e lo scultore Gian Maria Morlaiter nel ruolo di consiglieri [50] atti a supervisionare questioni inerenti gli studi e il regolare svolgimento dell’attività dell’Istituto, prevedendo una durata di due anni per ogni carica.

Il presidente e i consiglieri riuniti in “congregazioni” avevano l’onere di nominare quattro Maestri, in carica un anno, ognuno dei quali, una volta al mese, «sarà obbligato à collocare l’ignudo in quell’atto, in cui dovrà dissegnarsi, ed insieme rivedere li dissegni à studenti, e correggerli» [51], oltre a mantenere la quiete negli ambienti di studio e controllare il profitto degli allievi. Il cassiere doveva supervisionare le questioni fiscali «tenendo esatto registro di Cassa d’Entrata, et Uscita» [52], sul cui operato svolgevano un lavoro di revisione i due sindaci, scelti tra i maestri di maggior età; mentre il cancelliere custodiva «tutti gl’atti, ordini et altro attinente»[53] riguardanti l’Accademia e al bidello era riservato un ruolo di custode della Scuola, nonché il compito di mantener puliti gli ambienti e predisporli all’insegnamento.

Ad inizio anno era previsto un concorso che prevedeva la divisione degli allievi in due classi: gli studenti principianti, pittori e scultori, presentavano un disegno o una scultura, copia di un’opera celebre loro assegnata, mentre per i più esperti era previsto un soggetto d’invenzione; successivamente, all’interno dell’Accademia, dovevano eseguire nuovamente, in due ore, un disegno o un bassorilievo per far sì che «si veda se il primo col secondo si accordi» [54], ovvero per dimostrare di essere i veri autori delle prime opere. Presidente, consiglieri e maestri esprimevano successivamente i loro giudizi sulle opere mantenute anonime e colui che, in ogni classe, otteneva il maggior numero di voti, riceveva un premio.

Ogni Accademico doveva avere almeno 25 anni e al momento del suo ingresso nella Scuola era richiesto un dipinto o un bassorilievo che poi divenivano dell’Istituto, anche se, non pochi erano gli artisti che latitavano in questa consegna, tanto che spesso venivano inviate loro le tele o il materiale per eseguirlo [55].

Con la volontà di emulare altre città italiane come Roma, Firenze e Bologna e di conformarsi come un organismo che al suo interno radunava molti degli artisti più importanti, instaurava, quasi, uno scambio con loro, i quali, ricevendo opportuni strumenti corporativi e protettivi, cercavano di perpetuare, con la loro fama e le loro opere, il prestigio di una tradizione e di una scuola ormai in difficoltà [56].

Nell’elenco dei primi Accademici eletti dal presidente e dai consiglieri, individuiamo nei ventotto pittori una predominanza dei cosiddetti “figuristi”, mentre i prospettici e i paesaggisti sono appena rappresentati, conformandosi, quindi, in questo, alle altre pubbliche accademie [57]. In ogni caso tutti coloro che entravano a far parte del corpo accademico dovevano risultare iscritti al Collegio dei pittori [58], il quale, se inizialmente aveva un ruolo predominante nella gestione dell’Accademia, perse progressivamente di importanza a favore della giovane Istituzione.

La figura di Giambattista Tiepolo deve essere inquadrata nel XVIII secolo, come l’ultimo grande esponente del contesto veneziano, in quanto il periodo a cui appartiene rappresenta l’ultima stagione della gloriosa tradizione artistica, pur corrispondendo a una fase politica, sociale ed economica che preannuncia l’ormai imminente fine della secolare Repubblica.

Al ridimensionamento politico ed economico della città, tuttavia, corrispose uno straordinario fervore culturale, che trovò riscontro sia nel talento dei suoi numerosi artisti sia nel clima cosmopolita e aggiornato sulle mode internazionali e sul gusto; tant’è che Anton Maria Zanetti scrive che «si videro allora in Venezia tante maniere quanti erano quelli che dipingevano» [59], cui concorre la massiccia presenza di viaggiatori stranieri, uomini d’affari, mercanti, collezionisti che transitano e risiedono in città [60].

Se abbiamo definito Piazzetta “non-conformista”, Tiepolo si può identificare con l’espressione “genio conformista”, in quanto assecondò con le proprie opere la nobiltà cittadina, interpretandone in modo unico e fantasioso le glorie e le ambizioni private, nel solco del gusto propriamente settecentesco; è necessario valutare come Tiepolo riuscì a coniugare l’ambito accademico e per di più la nomina di Presidente ricevuta nel 1756, con le proprie istanze artistiche che di primo impatto non sembrano rientrare nei canoni accademici.

La scelta ricadde su di lui probabilmente perché, dopo la fase sperimentale e di assestamento, era necessario far decollare l’istituzione ed egli era il pittore di affreschi più acclamato e ricercato del suo tempo, operando per una facoltosa e colta committenza in Italia e all’estero, e dunque, al suo nome si poteva far appello per assestare l’istituzione e al tempo stesso accrescerne il prestigio attirando l’attenzione sul contesto lagunare.

Il rigore promulgato da Winckelmann sarà quello che all’interno delle Accademie verrà profuso come lo standard dominante, tanto che egli fu nominato membro onorario dell’Accademia romana nel 1760 ed in seguito accolto in altre istituzioni italiane ed europee, evidenziando i forti legami che lo univano ai nuovi istituti e come i programmi delle Accademie si conformassero alle nuove teorie.

In quest’ottica al Tiepolo, anche dalla successiva critica neoclassica, verrà imputata frivolezza e superficialità, e paragonato al suo indiscusso eroe neoclassico, Winckelmann affermerà che «Il Tiepolo fa più in un giorno che Mengs in una settimana, ma quegli appena veduto è dimenticato, mentre questi rimane immortale» [61], criticandone dunque quella facilità e rapidità di esecuzione che invece tanto era apprezzata dai suoi committenti, ed affermando come, a differenza del suo prediletto immortale, la sua opera cadrà ben presto nell’oblio.

Un’accusa ingiusta, alla luce soprattutto del fatto che la sua pittura ebbe tale successo in virtù delle richieste dei contemporanei e degli stimatori di cui fu l’interprete gioioso e brillante, tanto che verrà, come si è detto, considerato l’ultimo grande artista della laguna, nella quale si raggiungerà il risollevamento delle sorti artistiche solo con Canova.

Il valore del Tiepolo nel contesto lagunare e, nello specifico, in quello accademico, era così riconosciuto che, scaduto il suo mandato di Presidente, si era pensato anche a una ri-elezione, idea che però venne accantonata poiché non sarebbe stata accolta dai Riformatori [62].

 

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NOTE

[1] A. Manno, I mestieri di Venezia: storia, arte e devozione delle corporazioni dal XIII al XVIII secolo, Cittadella 1997, p.2.

[2] Monticolo, Il Capitolare dei pittori composto a Venezia nel 1271 e le sue aggiunte (1271-1511) in “Nuovo Archivio Veneto”, II, 1891, p.25.

[3] Franco Brunello, Arti e mestieri a Venezia, Vicenza 1981, p. 11.

[4] La Giustizia è l’ufficio istituito dal doge Sebastiano Ziani nel 1173 per sovrintendere alle Arti. Il suo scopo era quello di tutelare il consumatore contro le frodi alimentari e, successivamente, venne ad assumere il controllo anche sulle altre corporazioni.

[5] Francesco Zanotto, Storia della pittura veneziana, Venezia 1837, p.139.

[6] Manno, p. 84.

[7] Monticolo, II, p.12.

[8] Brunello, p.16.

[9] Favaro, L’arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975, p.37.

[10] Manno, p. 17.

[11] Ivi, p.85.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] R.Archivio di Stato di Venezia, Senato, Terra, f. 1023, 1682 decembre, in E.Bassi, La Regia accademia di belle arti di Venezia, Firenze, 1941, pp.127-128.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19]R.Archivio di Stato di Venezia, Senato, Terra, f. 1029, 1682 decembre in E.Bassi, 1947, pp.129-130.

[20] R.Archivio di Stato di Venezia, Senato, Terra, f. 1630, 1724 decembre, in E.Bassi, 1941, pp.138-139.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Montecucoli degli Erri, La condizione dei pittori a Venezia nel Settecento in Antonio Guardi: Opera completa, a cura di F.Pedrocco, F.Montecuccoli degli Erri, Milano 1992, p.10.

[25] Favaro, p.37.

[26] R.Archivio di Stato di Venezia, Milizia da Mar, b. 550-551, Pittori, in E.Bassi, 1941, pp.45-48.

p.168.

[27] Ibidem.

[28] Montecucoli degli Erri, p.9.

[29] Ivi, p.10.

[30] Ibidem.

[31] Ibidem.

[32] E. Bassi, Atti e memorie dell’accademia di belle arti di Venezia, Venezia 1959, p.9.

[33] Ivi, p.26.

[34] U. Ruggeri, Giambattista Piazzetta in Giambattista Piazzetta, il suo tempo, la sua scuola, Venezia 1983, p.52.

[35] G. Nepi Scirè, Giambattista Piazzetta e l’Accademia, in Giambattista Piazzetta, il suo tempo, la sua scuola, Venezia 1983, p.216.

[36] A. Longhi, Compendio delle vite de’ pittori veneziani, Venezia 1762, p.15.

[37] G. Nepi Scirè, 1983, p.215.

[38] A. Morassi, A ‘scuola del nudo’ by Tiepolo in Master Drawings, New York, 1971, n. 1, p.10.

[39] C. Nicosia, Accademie e artisti nel Settecento in La pittura in Italia: Il Settecento, II, Milano 1990, p.583.

[40] R. Pallucchini, Il Piazzetta e la sua scuola in Giambattista Piazzetta, il suo tempo, la sua scuola, Venezia 1983, p.27.

[41] U. Ruggeri, Giambattista Piazzetta in Giambattista Piazzetta, il suo tempo, la sua scuola, Venezia 1983, p.43.

[42] Albrizzi, Studi di pittura, Venezia 1760, riportato in Ruggeri, p.45.

[43] A. M. Zanetti, Della pittura veneziana, Venezia 1797, p.456.

[44] Titolo di un dipinto di Canaletto che ritrae il Fondaco, sede della prima scuola di Nudo, prima delle manomissioni ottocentesche.

[45] R.Archivio di Stato, Terra, 1750 Settembre, seconda, Senato, I, f. 2123 in E.Bassi, 1941, pp. 140-140.

[46] R.Archivio di Stato, Terra, 1750 Settembre, seconda, Senato, I, f. 2123, E.Bassi, 1941, pp.143-144.

[47] E.Bassi, p.147.

[48] Fogolari, p.253.

[49] E.Bassi, 1941, p.27.

[50] App. XII, p.159.

[51] Primo statuto dell’Accademia riportato in E. Bassi, 1941, pp. 146-153.

[52] Ibidem.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Fogolari, p.174.

[56] S.Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani, in Storia dell’arte italiana, vol. 2, tomo II, Firenze 1971, p.860.

[57] Elenco dei primi accademici in App. XIII, p.160.

[58] Bassi, 1941, p.65.

[59] Zanetti, p.396.

[60] Ibidem.

[61] A. Pallucchini, L’opera completa di Giambattista Tiepolo, Milano 1981, p.10.

[62] Bassi, 1941, p.30.

 





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