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Il problema dell’intenzione dell’autore nell’interpretazione dell’opera [1]

 

Gianluca Lorenzini
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 9 Marzo 2014, n. 707
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Area Estetica

Introduzione

Il 1° giugno 1983 il gruppo rock inglese The Police rilascia l’album Synchronicity, che tra le altre canzoni contiene Every Breath You Take. Grazie soprattutto a tale canzone, l'album rimane ai vertici delle classifiche di vendita per oltre due mesi,  consacrando la fama del gruppo e facendo del disco uno dei più grandi successi della storia della musica contemporanea. La struttura della canzone è quella classica del rock: segue lo schema verso-coro-verso-coro-ponte-coro. Chitarra, basso e batteria concorrono insieme a creare una melodia musicale molto solida, ma al tempo stesso molto suadente e rilassante. Il cantante e autore del pezzo, Gordon Sumner (in arte Sting), abbandona le sue linee vocali acute, che hanno sempre contraddistinto le sonorità del gruppo, e interpreta il pezzo con una voce molto più calda e bassa. Tutti questi elementi formali si sposano bene con la tematica che sembrerebbe appartenere alle  liriche della canzone: l’amore. I fan del gruppo impazziscono ascoltando questa composizione. Il pezzo musicale diventa strumento di dediche romantiche  e presto per il pubblico finisce per essere  la canzone d’amore iconica della band  inglese.

Nel 2009, Sting rilascia  una intervista al secondo canale radio dell'emittente pubblica britannica BBC: «Penso che la canzone abbia qualcosa di molto sinistro e orribile» afferma «e che la gente la abbia fraintesa, considerandola come una piccola e gentile canzone d’amore» [2] . Ascoltando con attenzione la canzone,  ci si accorge che il testo cela effettivamente qualcosa di sinistro e perverso.

 

Every breath you take

 

Ogni respiro che farai

Every move you make

 

Ogni movimento che farai

Every bond you break

 

Ogni legame che spezzerai

Every step you take

 

Ogni passo che farai

I'll be watching you

 

Io ti starò osservando

Every single day

 

Ogni singolo giorno

Every word you say

 

Ogni parola che dirai

Every game you play

 

Ogni gioco che giocherai

Every night you stay

 

Ogni notte che tu rimarrai

I'll be watching you

 

Io ti starò osservando

 

 

 

O can't you see

 

Non riesci a vedere

You belong to me

 

Che tu appartieni a me

How my poor heart aches with every step you take

 

Come piange il mio povero cuore
con ogni passo che fai

                                                          

Le parole utilizzate potrebbero essere considerate come atti di riguardo e di sicurezza che un amante dedica all'amata,  ma allo stesso tempo potrebbero descrivere la fissazione ossessivo-complusiva di un uomo nei confronti di una donna. Potrebbero esprimere tanto i sentimenti  di un  tenero amante quanto i turbamenti di un maniaco.

A giudicare dall’intervista, la seconda lettura sembrerebbe essere quella pensata da Sting. La canzone non tratterebbe quindi delle dolci attenzioni di un amante, bensì della fissazione perversa e malata che un uomo ha nei confronti di una donna, che lo porta addirittura a pensare che quest’ultima sia di sua proprietà (can’t you see – you belong to me?). Alla luce di queste osservazioni come si dovrebbe comportare l’ascoltatore ? Scoprendo quello che l’artista intendeva dire con la canzone cosa succede ? Essa assume solamente quel significato? Le dediche d’amore fatte con quella canzone sono di fatto  esautorate, e tutti gli innamorati  maschi si ritrovano a essere automaticamente maniaci e non più teneri amanti ? Quest'ultima è ovviamente una provocazione, ma le altre domande sono legittime e si riducono a un quesito cruciale: quale ruolo riveste l’intenzione dell’autore nell’interpretazione dell’opera ?

Durante l’intervista Sting adopera una parola chiave che rappresenta il punto focale della nostra ricerca: parla di fraintesi. In quanto creatore dell’opera d’arte in questione, egli è perfettamente consapevole del messaggio che voleva veicolare e ne considera  una misinterpretazione qualsiasi significato diverso da quello che egli stesso ha pensato. Ma le cose sono così semplici ? Non credo. L’esempio di Every Breath You Take presenta caratteristiche particolari che spesso non si possono riscontrare in altre opere. Abbiamo in questo caso un artista conscio della misinterpretazione che il pubblico ha avuto della sua opera, che la vive in prima persona e cerca di correggerla, rendendo note a tutti le sue intenzioni nel momento della creazione, appunto quello di parlare dell’ossessione che un uomo ha per una donna.

Difficilmente questo potrebbe accadere con un quadro di Leonardo o con un dramma di Shakespeare: molte delle opere con le quali critici e pubblico si confrontano tutt’oggi non sono di autori viventi. Non sono quindi in grado di manifestare esplicitamente a pubblico e critica le loro intenzioni.

Che cosa accade a questo punto ? Credo che quello di risalire all’intenzione dell’autore sia, implicitamente, il parametro che il fruitore segue quando cerca di interpretare un’opera d’arte, dove con la parola interpretare s’intende “dare significato”, estrapolare da essa un messaggio. Si cerca di far combaciare il significato che l’autore aveva pensato con quello che si ha leggendo, osservando o ascoltando - e in generale interpretando - un’opera. Questo meccanismo può probabilmente essere considerato il modo più comune per dare consistenza alla propria interpretazione e per renderla il più plausibile possibile. Ma è questa l’unica maniera con cui si può interpretare un’opera ? Si può parlare con sicurezza di intenzioni ? Se un artista muore senza lasciare diari, scritti o filmati nei quali parla delle proprie produzioni, l’unico elemento di analisi che ci rimane sono le opere stesse. Attraverso quest’ultime si può arrivare con certezza al messaggio che l’artista voleva trasmettere?

Infine – ed è il  quesito  più interessante - quanto è importante quest’ultimo aspetto, il “messaggio” pensato dall'artista?

Durante quest’analisi mi muoverò lungo un quesito di ricerca fondamentale: quali sono il valore e l’importanza che possono o dovrebbero avere le intenzioni dell’artista quando si analizza un’opera? Per quanto riguarda l’oggetto di questo quesito mi sono ispirato a un passaggio tratto da La filosofia e le arti di Stefano Velotti il quale, parlando della questione riguardante le intenzioni dell’autore, dice: «Nel dibattito sull’interpretazione e le intenzioni (...) troviamo posizioni decisamente anti-intenzionaliste, che negano ogni rilievo alle (presunte) intenzioni dell’autore per una corretta interpretazione dell’opera: perché ciò che conta è solo la configurazione formale dell’opera, perché le intenzioni dell’autore sono inaccessibili e imperscrutabili (...) Sul versante opposto troviamo posizioni intenzionaliste come quella di Danto, secondo cui, non solo un’opera è costituita nella sua identità da una determinata interpretazione(...), ma l’unica interpretazione corretta è quella che corrisponde alle intenzioni dell’autore» [3] .

Vediamo come la questione dell’intenzionalità dell’autore arrivi a riflessioni completamente opposte. Prenderemo in esame, per meglio approfondire quest’aspetto del problema, due critici americani con posizioni molto diverse l’una dall’altra: Arthur C. Danto e Monroe Beardsley. Danto si può classificare come intenzionalista e Beardsley può essere considerato un anti-intenzionalista. Il primo cerca di risalire alle intenzioni dell’autore per trovare il suo parametro di correttezza interpretativa e il secondo le considera totalmente irrilevanti, vedendo nell’opera stessa l’autosufficienza per l’attività ermeneutica.

Commentando l’analisi effettuata da Geoffrey Hartman su una poesia di Wordsworth intitolata Lucy’s Poem, Umberto Eco spiega: «Certamente Hartman non sta insinuando che Wordsworth volesse produrre quelle associazioni, né rientrerebbe nella sua poetica critica questo andare alla ricerca delle intenzioni dell’autore. Vuole semplicemente dire che un lettore sensibile è autorizzato a trovarle, perché il testo, sia pur potenzialmente, le contiene o le suscita, e perché il poeta può aver (magari inconsciamente) creato degli ʻarmoniciʼ al tema principale» [4] . Le associazioni menzionate da Eco sarebbero i richiami che Hartman, in alcune parole della poesia, avrebbe trovato alla tematica della poesia stessa: la morte di una fanciulla. Per fare un esempio, Hartman considera l’utilizzo della parola «diurnal» (diurno), parola che poco si associa con la morte, al sesto verso come un richiamo alle parole «die» (morire) e «urn» (urna), evocando così implicitamente il campo semantico della morte. Queste associazioni di Hartman sono definite “armonici” da Eco. Questa è una tipologia interpretativa che tenta di coniugare il lavoro di autore e il testo, presi come entità distinte. È un tentativo di armonizzazione tra i due assi di ricerca che ci siamo prefissati, anche se, come vedremo, il confine tra “intenzionalità inconscia” e intenzione del testo è molto labile.

Proveremo a vedere, per tornare all’esempio introduttivo, quale sia (se effettivamente esiste) il significato di Every Breath You Take, se solamente quello pensato da Sting o se possa valere anche quello utilizzato dagli amanti per manifestare il loro amore a chi ne è ispiratore/ispiratrice. E vedremo se, all’interno del testo stesso, Sting non abbia potuto inserire/immettere dei significati dei quali non era egli stesso consapevole.

 

La Linea e il tricheco

Non esiste niente di più semplice e allo stesso tempo di più costitutivo della linea. Un postulato che non può avere dimostrazioni, ma che ha una sua evidente verità empirica. Fisicamente così labile e fatua, tende a scomparire e a nascondersi quando la utilizziamo. Eppure la sua presenza è determinante, basti pensare alle linee di un semplice quaderno. In architettura la linea  può essere matrice ed elemento di partenza di studi e progetti, determinare il piano su cui lavoriamo,  indicare le direzioni. La linea ritorna in diversi aspetti, riveste i significati più vari: da quella che una squadra di calcio deve tenere quando difende, alla linea vocale che un cantante deve seguire quando canta. Linee immaginarie, come quelle che dividono i continenti, assumono un significato immenso: le frontiere che non esistono in natura sono linee create dall'esperienza umana. La linea ha la capacità di essere presente anche quando non la possiamo vedere; di rimandarci ad un qualcosa di fisicamente assente ma che noi sappiamo esistere nel nostro intelletto e nella nostra mente. Il concetto di linea è tanto contingente e vicino che a volte ne dimentichiamo l'esistenza.

Un campo nel quale la linea dà il suo apporto indiscutibile è quello della pittura. La linea può essere la preparazione a un'opera. Pensiamo a uno schizzo preparatorio: esso è lo scheletro che “dà il là” alla composizione, la base sulla quale si crea il resto. Ma non è solo questo. La linea in pittura è poliedrica, è necessaria in diversi campi e trova sempre un posto quando l’artista dipinge. Qualcuno la ha nascosta, altri la hanno valorizzata con tutto il suo potenziale, non solo formale, ma anche concettuale.

Penso ai grandi pittori francesi del primo ‘800 e al loro rapporto con la linea. In particolar modo penso ad Ingres e David. La loro linea è così definita e chiara da portare alla luce la loro poetica. Una linea che delimita le figure e ne ingabbia i colori nettamente. Una linea che è insieme  il prodotto finale della loro arte e la matrice della perfezione delle loro opere.

Tra gli artisti che hanno  catturato in toto la grande forza e importanza della linea c'è Paul Klee. Il pittore svizzero ha trovato in essa il mezzo per manifestare la sua poetica e la sua concezione di arte. Nato a Münchenbuchsee nel dicembre del 1879 e cresciuto in una famiglia di musicisti, Klee vive il suo periodo di formazione scolastica galleggiando tra lo studio del violino e la coltivazione della sua grande passione: il disegno. Questo parallelo tra arte e musica sarà sempre vivo nella sua poetica.  Lo dice egli stesso nei suoi diari: «Sempre mi sono spinto a fare dei paralleli fra musica e arte figurativa. Ma non mi riesce alcuna analisi. Certo è che ambedue sono arti nel tempo, come si potrebbe facilmente dimostrare» [5] . Le due forme d’arte, come le concepisce il pittore svizzero, presentano infatti affinità strutturali e concettuali. Entrambe si cimentano nel tentativo di evocare e non di rappresentare e condividono la medesima dimensione temporale: «il suo disegno è di tipo non spaziale bensì temporale e musicale: gli elementi devono essere colti in ordine di successione e tuttavia simultaneamente» [6] . Questo parallelo regge particolarmente se si applica alla pittura dello stesso Klee. Il fine ultimo del pittore svizzero, infatti, non è quello di raffigurare bensì di “rendere visibile”: «nell’arte non è tanto essenziale il vedere quanto il rendere visibile» [7] . La sua arte tenta di portare alla luce quel campo del guardare umano  che oscilla tra il visibile e l’invisibile, di dare spazio a quella parte della visione che in noi lavora prima ancora di rilevare e classificare le figure che si vedono. Un lavoro che cerca di mettere a nudo le nostre sensazioni e i nostri istinti, che si rapporta al mondo visibile in maniera particolare. L’occhio, secondo Klee, è “vagabondo”: gira, si sofferma, si stanca, ma poi ritorna sulle cose. La visione incapsula ogni volta qualcosa di nuovo, anche se ci si ferma su un’immagine. Questo è l’invisibile di cui parla Klee, quel qualcosa che rende la visione sempre nuova anche se l’abbiamo già vista, quella componente che accompagna fedelmente il visibile,  ma che non si rivela mai e proprio per il suo mistero rende la visione stessa affascinante.

Klee, come i grandi compositori di musica ai quali era particolarmente affezionato, non vuole mostrare  la realtà attraverso la sua mera riproduzione, bensì mettere su tela una parte della realtà che si percepisce prima ancora di vederla: vuole raccontare la genesi della visione. Come la musica riesca a comunicare qualcosa con strumenti non rappresentativi - le note - Klee cerca di operare la stessa composizione a livello grafico. E proprio come le note in uno spartito vanno recepite individualmente e complessivamente allo stesso tempo per fruire l’opera, lo stesso si può dire dell’arte del pittore. E le note che Klee utilizza per comporre i suoi quadri-spartiti sono appunto le linee. Attraverso la linea Klee prova a fermare il vagabondare dell’occhio. In una lettera datata 1904 il pittore utilizza una metafora molta poetica e esemplificativa: parla delle “passeggiate” che la sua matita fa sul foglio. Passeggiate che formano dei ponti, dei ponti che cercano di congiungere la sfera del visibile e dell’invisibile, che cercano di armonizzare e sintetizzare questi due volti di un'unica e complessa realtà. L’arte di Klee si potrebbe quasi definire un gioco, dove gli interpreti sono la realtà che ci circonda e il suo rapporto con le mani e l’inconscio dell’artista: «L’operazione artistica , per Klee, è simile a quella del ricercatore che grazie a strumenti, ricorrendo a certi mezzi tecnici, rende visibili (ma non rappresenta) i microrganismi che certamente ci sono, ma non sarebbero altrimenti visibili. Klee opera sui microrganismi che popolano le regioni profonde della memoria inconscia; ed essi cominciano a esistere , come fenomeni, solo nell’istante in cui vengono rivelati» [8] . Tirare fuori qualcosa che esiste, estrapolare da noi stessi qualcosa che a noi stessi sfugge e sfuggirà sempre se non viene rivelato, è il compito dell’artista, la “ludica sfida” che deve intraprendere.

Per affrontare questa sfida, saranno due i mezzi che accompagneranno il pittore: la linea e il colore: «tale capacità della linea, e successivamente del colore, di ri-velare, nel senso di svelare e allo stesso tempo di velare, l’invisibile che è ad esse interno, costituisce il fulcro dell’intera elaborazione teorica e artistica di Klee» [9] , scrive Di Giacomo. E  continua: «la linea ci mostra quell’irrappresentabile nella rappresentazione che rende possibili rappresentazioni sempre nuove e diverse, senza che nessuna di esse sia unica e definitiva, in grado cioè di togliere l’invisibile, rendendolo totalmente visibile; c’è rappresentazione proprio perché qualcosa resta irrappresentabile all’interno della rappresentazione stessa». Linea e colori sono i ponti attraverso i quali si cerca di rendere manifesto il non visibile.

Ritornerò più avanti su questo argomento che si rapporta bene con la mia analisi,  ma adesso vorrei concentrarmi sul quesito particolare: il rapporto tra opera e fruitore. Questo rapporto,  come vedremo, presenta aspetti molto interessanti nell’ambito che stiamo trattando. Qual è infatti il peso o l’importanza che il fruitore nella sua interpretazione dell’opera deve dare all’intenzione dell’artista? E prima ancora di rispondere a questa domanda bisogna chiedersi se è possibile risalire all’intenzione vera dell’artista stesso.  Su questo tema si è fermata l'analisi di due critici americani del secondo dopoguerra: Arthur C. Danto e Monroe C.Beardsley. Per comodità ho deciso di concentrarmi sulle opere di questi due studiosi, arrivati a conclusioni e a “linee” di pensiero diametralmente opposte e che quindi ci permettono di vedere i due poli più distanti della questione. L’unico aspetto che accomuna le due “linee” di questi critici è la loro focalizzazione nell’analisi sull’asse opera-fruitore. Questo non implica necessariamente, come vedremo, che l’intenzione o l’intenzionalità dell’autore non verrà mai chiamata in causa, ma semplicemente che tutti e due gli studi hanno come corpo d’indagine primario non il rapporto artista-opera, ma quello spettatore-opera.

È lecito ammettere che tra un fruitore e un'opera d’arte (di qualsiasi tipo si tratti: un quadro, una canzone, un libro, etc.) si crei un collegamento. Questo collegamento, che può essere di vario tipo (emotivo, razionale, mnemonico...), è  il motivo che ci permette e ci spinge, allo stesso tempo, di entrare in contatto, o rientrare in contatto più volte, con un’opera d’arte. Guardo La Vergine e Sant’Anna e rimango stupito, ascolto Every Breath You Take dei Police cento volte e ogni volta mi emoziono in maniera diversa: questi sono tutti collegamenti che instauro con l’opera d’arte, la quale a seconda delle sue caratteristiche mi trasmette un’emozione o un sentimento particolare. A questo punto si potrebbe aprire un enorme dibattito sull’estetica, intesa nella sua accezione originale aisthesis, che si traduce dal greco come percezione, ma questo esulerebbe, o meglio, ingrandirebbe il campo di ricerca sul quale ci stiamo concentrando. Se ammettiamo che si crea un collegamento tra opera e fruitore, quello che ci interessa analizzare  è quale ruolo rivesta in questo collegamento l’intenzione dell’artista.

Nel 1964, Arthur C. Danto partecipa a una mostra di Andy Warhol tenuta presso la Stable Gallery di New York. In questa occasione si trova davanti alle famose Brillo Boxes dell’artista statunitense. Queste ultime erano pressoché identiche alle scatole “Brillo” che contenevano spugnette abrasive in vendita nei supermercati al tempo. L’unica differenza tra le scatole in commercio e quelle esposte da Warhol erano la dimensione e il materiale: quelle di Warhol erano leggermente più grandi ed erano fatte di compensato, mentre quelle in vendita erano fatte di cartone. Alla luce di questa osservazione Danto si chiede come mai una veniva classificata come opera d’arte e l’altra no: «e la questione era perché mai le scatole di Warhol costassero 300 dollari mentre i prodotti dell’altro artista non valevano nemmeno 10 centesimi» [10] , scrive nella sua opera più importante,  La Trasfigurazione del Banale. Da dove traggono “l’artisticità” le Brillo di Warhol ? Se l’occhio non ci può dare nessuna informazione utile, essendo i due oggetti percettivamente identici, il motivo dell’artisticità di una dovrà essere colto in un qualcosa di invisibile che esula dalla percezione, ragiona Danto. «Vedere qualcosa come arte esige niente di meno che questo: un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte» [11] , scrive il critico. Un’opera d’arte si separa dalla sua contro parte, l’oggetto alla quale è identica, grazie al suo collegamento con questo «mondo dell’arte», (artworld) [12] . Per tornare alla domanda iniziale, le Brillo Box di Warhol guadagnano il loro status di opera d’arte poiché si allacciano a questo mondo dell’arte.

Ma come avviene questo collegamento? Descritta in questi termini la soluzione dettata da Danto appare molto categorica e a tratti quasi religiosa: gli oggetti diventano opere d’arte attraverso un collegamento quasi mistico a questo “mondo dell’arte”  che non può essere colto dalla semplice percezione del mondo sensibile e quotidiano.  Le cose non stanno così. Secondo Danto, infatti, l’allacciarsi degli oggetti a questa particolare “atmosfera” non avviene attraverso delle proprietà che hanno gli oggetti in sé nel momento in cui  vengono prodotti, gli oggetti non nascono come opere d’arte. È invece l’osservatore, il fruitore che nell’osservazione,  ma soprattutto nell’interpretazione dell’oggetto permette loro di effettuare questo cambio di status: «... grazie al carattere costitutivo dell’interpretazione, l’oggetto non era un’opera finché non è stato reso tale. Come procedura trasformativa, l’interpretazione è uguale a un battesimo, non nel senso del conferimento di un nome, ma di una nuova identità, di una partecipazione a una comunità di eletti» [13] . Il fruitore gioca un ruolo fondamentale, è lui che stabilisce il collegamento tra l’oggetto e il regno dell’arte.

Se si ammette questa teoria si corre però un grave rischio: riponendo, infatti, sul fruitore la possibilità di decidere cosa è arte e cosa non lo è, traslando quindi i criteri di definizione dell’arte dall’oggetto al soggetto, si rischia di sfociare in un mare di interpretazioni. Mi potrei ritrovare a camminare per strada e trovare in quel momento un lampione particolarmente bello e definirlo un’opera d’arte. Oppure a fare un giro per l’Accademia di Firenze e interpretare il David di Michelangelo come un omaggio ai trichechi dato la sua testa leggermente sproporzionata al resto del corpo. Per ovviare a questo rischio Danto chiama in causa l’intenzione dell’artista. Quest’ultima deve essere il limite entro il quale ci dobbiamo muovere. È interessante notare come la posizione di Danto sull’interpretazione cambi drasticamente. Se inizialmente sembriamo infatti trovarci, da fruitori, in pieno possesso e in qualche maniera in piena libertà davanti a un’opera, essendo addirittura noi stessi con la nostra interpretazione a conferirgli lo status di opera d’arte, scopriamo poi  di essere in realtà strettamente vincolati nella nostra operazione ermeneutica: «... è difficile sapere che cosa governa il concetto di un’interpretazione corretta o scorretta se non si fa riferimento a ciò che potrebbe o non potrebbe essere stata l’intenzione dell’artista» [14] . Dal rischio dell’universalismo ermeneutico si passa all’idea di interpretazione corretta o scorretta. L'intenzione dell’artista nell’elaborazione di Danto gioca un ruolo fondamentale: essa è il parametro, l’indice di correttezza che valuta le interpretazioni. Tutte le interpretazioni sono ammesse, ma esse possono essere giuste o sbagliate. Secondo Danto la “linea” che separa l’interpretazione corretta o scorretta è molto netta, non è una linea che si utilizza per un schizzo preparatorio, una linea guida e che può essere cambiata in fieri, bensì è la linea di Ingres e David, presente e corposa che ben definisce i campi dentro i quali si può operare e che stabilisce la perfezione dell’opera, la correttezza dell’interpretazione.

Nel 1954, dieci anni prima che Danto vedesse le Brillo Boxes di Warhol e cominciasse a ragionare sul problema dell’ontologia dell’opera d’arte e dell’intenzione dell’autore, Monroe C. Beardsley e W.K. Wimsatt pubblicano un saggio intitolato The Intentional Fallacy [15] . Ancora oggetto di questo saggio è la questione dell’intenzione dell’autore nell’interpretazione dell’opera, ma il ragionamento di Beardsley arriva ad un’angolazione sul problema molto diversa rispetto alle conclusioni di Danto. Come quest'ultimo, anche Beardsley nella sua carriera si è occupato di diverse problematiche nel campo dell’estetica, a partire dal tentativo di definizione dell’arte stessa. A differenza di Danto, a Beardsley non interessa il tema dell’ontologia dell’opera d’arte. Il critico americano nei suoi lavori si guarda bene infatti dall’utilizzare il termine opera d’arte e lo rimpiazza con la più vaga espressione «oggetto estetico» (aesthetic object). Mi sembra doveroso sottolineare che il lavoro presentato da Beardsley è pensato prevalentemente per le opere scritte,  ma, come vedremo, molte delle conclusioni alle quali il critico arriva possono essere applicate al campo dell’arte figurativa ed il saggio sopra citato è quello che meglio si pronuncia sulla problematica da noi qui trattata.

Uno dei caratteri principali del saggio di Beardsley riguarda esattamente quello spostamento di paradigma che abbiamo lasciato alla fine del capitolo precedente: dal rapporto tra opera e artista a quello tra opera e fruitore. «La poesia non appartiene né al critico né all’autore (si distacca da esso non appena nasce, e va errando per il mondo senza che il suo creatore la possa spiegare o controllare). La poesia appartiene al pubblico» , scrive Beardsley [16] .

Va comunque precisato che il critico americano non sposta l'asse dell'analisi sul versante del rapporto tra opera e singolo fruitore, ma su quello tra opera e più generico concetto di pubblico. Parlando di pubblico, Beardsley è  interessato a sottolineare il carattere collettivo delle opere: il discorso portato avanti dal critico è consapevole in nuce che un’opera d’arte avrà diverse interpretazioni proprio per il fatto che si confronterà con diverse persone, arrivando a negarne la “proprietà” dell’artista e donandola invece al pubblico che ne usufruirà. Lasciato a sé, questo discorso sulla “proprietà” dell’opera potrebbe apparire inutile ai fini dell’interpretazione, ma invece si sposa bene con la logica del saggio. Secondo Beardsley infatti un’opera «non esiste per sbaglio», e «le parole escono fuori da una mente e non da una mazza» [17] . C’è, in altri termini, un intelletto creatore che produce l’opera, ma questo intelletto, e soprattutto le sue intenzioni, non sono il parametro, o lo “standard” come lo definisce Beardsley, attraverso il quale bisogna interpretare l’opera. Utilizzando una metafora molto acuta e ingegnosa Beardsley procede con il  paragonare l’opera d’arte a una macchina: «Giudicare un poesia è come giudicare una macchina. Si pretende che essa funzioni. Una poesia non deve significare, ma essere. Una poesia può essere attraverso il significato eppure esiste, semplicemente è, nel senso che non abbiamo nessuna scusa per chiederci quale parte è intenzionale o intesa. La Poesia e’ un impresa di stile attraverso la quale una serie di significati sono presi in considerazione tutti insieme» [18] .

Questo ragionamento calza bene con l’idea iniziale della “proprietà”. Esulando infatti dall’intenzione dell’autore come filtro interpretativo, questo lascia l’opera d’arte svincolata. È possibile “impossessarsi” dell’opera, la quale come una macchina è tenuta semplicemente a essere e a funzionare, e sono i suoi fruitori ad avere le chiavi per attivarla, donandogli un significato. Alla luce di questo ragionamento, si capisce molto meglio l’assunto iniziale del saggio: «Stiamo dibattendo sul fatto che l’intenzione dell’artista non è né accessibile né utile ai fini dell’interpretazione e la valutazione dell’opera» [19] .

In un’altra opera intitolata The Possibility of Criticism, Beardsley avanza tre tesi volte a svalorizzare il ruolo dell’intenzionalità autoriale nel processo interpretativo. La prima prende in analisi gli errori di stampa: può accadere infatti che delle opere vengano interpretate anche se presentano delle parti non pensate o progettate dal suo autore, date da errori di macchina o tipografici.  L’attività ermeneutica continuerà il suo corso non curante di questo aspetto. La seconda si occupa del cambiamento di accezione che parole o frasi possono avere nel tempo. Una volta che un autore è morto non può avere la possibilità di ovviare al cambiamento testuale che la sua opera subirà con il passare del tempo. L’esempio riportato per descrivere questa occorrenza è dato da una verso di una poesia del 1744 che recita: «alzò il suo plastico  braccio». Secondo Beardsley il significato che dà l'autore al termine «plastic»  sarà sicuramente diverso da quello che potrà avere un lettore del ventesimo secolo.  In una traduzione italiana di «plastic arm» potremmo, per esempio, trovare «plastico braccio», ma anche «braccio di plastica».

Questi primi due esempi, come detto pensati e applicati prevalentemente per le forme d’arte scritte, presentano delle lacune. Entrambe le problematiche si confrontano infatti con delle caratteristiche che potrebbero essere aggiustate con un’adeguata ricerca filologica e testuale dell’opera. Più interessante, e anche meglio applicabile all’ambito dell’arte figurativa che qui ci interessa, è la terza tesi proposta da Beardsley, che ci è utile anche come con quanto analizzato nel capitolo precedente. In questa terza argomentazione Beardsley si interroga circa la possibilità di un’opera di avere significati del quale il suo autore non è al corrente o che non ha minimamente previsto. Beardsley sostiene che vi sia una profonda differenza tra il “significato autoriale” di un’opera e il suo “significato testuale”. E da dove origina e dove sfocia il “significato testuale” ? Naturalmente dal testo stesso il quale ha dentro di sé, indipendentemente dalla volontà  del suo autore, tutti i suoi possibili significati che sono gli stessi fruitori a tirare fuori. Mi sembra giusto notare che nello spiegare questo concetto Beardsley adopera l’espressione «speech act potential», la  quale si riferisce al potenziale utilizzo che si può effettuare di un’opera scritta. Ma penso che l’esempio possa essere facilmente traslato anche nel campo figurativo o musicale. Every Breathe You Take contiene nel suo testo - ossia i suoi caratteri formali – l’interpretazione iniziale adottata dal pubblico, che la vedeva come una semplice canzone d’amore. Secondo Beardsley, questa e tutte le altre diverse chiavi di lettura risiedono nell’opera stessa, non nell’intenzione di Sting.

Anche il critico americano traccia una linea di pensiero: quest’ultima assomiglia però più alla linea di uno schizzo preparatorio che a quella dei pittori francesi. Beardsley ci prepara in qualche maniera all’atto interpretativo, restituisce l’opera al pubblico come un oggetto dato, un oggetto estetico appunto, che deve essere sviscerato e analizzato,  ma non necessariamente in funzione del pensiero originario dell’artista. Siamo noi, in quanto fruitori, a disegnare sullo schizzo di preparazione il nostro quadro. Ci riappropriamo della linea e disegniamo la nostra interpretazione non dovendo fare necessariamente capo a nessun altro fattore.

Torniamo adesso a Paul Klee. Nel 1918 il pittore dipinge un acquarello intitolato Una volta emerso dal grigio della notte... (fig. 1). L’opera è  composta da due registri, uno superiore e uno inferiore, divisi da un grosso rettangolo marrone e grigio in mezzo. All’interno di questi due registri troviamo una serie di piccoli quadrati di diverso colore, tendenzialmente opachi. All’interno di questi quadrati si possono intravedere una sequenza di lettere, le quali, lette in sequenza, formano una poesia scritta dallo stesso Klee. Le lettere utilizzate sono tutte maiuscole e sono disposte e disegnate in maniera tale da nascondersi all’interno dei quadrati. L’effetto che si ottiene è quello di non realizzare inizialmente di trovarsi davanti a lettere alfabetiche. Visto per la prima volta il quadro infatti apparirebbe come una semplice serie di forme geometriche - triangoli, cerchi e quadrati - disposte a caso. Solo dopo un’analisi più attenta ci si rende conte che le forme geometriche inizialmente viste sono il risultato dell’intreccio tra semplici quadrati e lettere alfabetiche. Vedendo l’opera la prima volta, direi che questo è un gioco ottico, dove l’artista vuole lavorare con la percezione del fruitore donandogli due modi di vedere il quadro allo stesso tempo, quello dove si legge la poesia e quello che ci appare come una semplice disposizione di figure geometriche colorate. Anche l’idea di nascondere la poesia all’interno del quadro è interessante: la si riesce a leggere solo se si presta molta attenzione all’opera, non appare immediatamente. L’acquarello potrebbe apparire come un invito a vedere sempre con molta attenzione e molta arguzia, mai soffermandosi solamente sull’apparenza.

Non considero quest’interpretazione univoca, ma penso non sarebbe un azzardo considerarla quanto meno plausibile. Dopo la consultazione di alcuni libri e dei diarî dell’artista stesso vengo a conoscenza del principio della sua poetica, da lui stesso stabilita. Conscio di quello che abbiamo chiamato il tentativo di Klee di “rendere visibile”, ma anche di dati biografici - l’acquarello in questione fu creato durante il periodo di guerra che segnò molto la persona di Klee - mi chiedo se la mia interpretazione vada rivista. Di Giacomo, parlando dell’opera, la definisce come “una composizione poetica tradotta in chiave pittorica” con “la consapevolezza che nella superficie pittorica debbano darsi sia visibile che invisibile” [20] . Sempre commentando quest’acquarello Foster e Krauss parlano invece di una “tensione verso l’astrazione” dettata da un rigetto nei confronti del periodo bellico [21] . Vediamo insomma come le interpretazioni di studiosi, più qualificati e informati di me, e le informazioni dettate dai diari di Klee stesso ci forniscano dati importanti. L’acquarello sembrerebbe parlare di uno stato d’animo molto angosciato che segnava in quel periodo l'artista  e sembrerebbe riduttivo parlarne come di  un’opera che richiami un semplice gioco ottico e un invito a guardare le cose con attenzione. Alla luce di queste informazioni mi chiedo se la mia interpretazione iniziale del quadro debba essere cambiata.

Le divergenze teoriche che intercorrono tra Danto e Beardsley sono molto accentuate. Ci troviamo davanti a due linee nettamente distinte e divergenti. Danto, all’interno dell’interpretazione, ha un fine verso il quale tendere, un parametro di correttezza che è l’intenzione dell’autore. La mia interpretazione del quadro di Klee sarebbe quindi lecita,  ma probabilmente scorretta, poiché sarebbe più opportuno prendere in considerazione i fattori rivelati dai  suoi scritti e  rapportarli il più plausibilmente possibile all’opera. C’è da dire che per quanto acuta e brillante possa essere l'opera principale di Danto, La Trasfigurazione del Banale, essa non manca di pecche e lacune interne. Prima di parlare del problema dell’intenzionalità,  Danto scrive: «...l’interpretazione appartiene analiticamente al concetto di opera d’arte. Vedere un’opera d’arte senza sapere che si tratta di un’opera d’arte è paragonabile, in un certo senso, all’esperienza che si ha delle lettere stampate prima di aver imparato a leggere; e vederla come un’opera d’arte è allora come passare dal regno delle mere cose a quello del significato» [22] , per poi contraddirsi e dire che siamo noi stessi ad attivare le opere con la nostra interpretazione, come abbiamo visto in precedenza. Il critico insomma si chiude in un circolo vizioso all’interno del quale ciò che si assume e ciò che si vuole dimostrare si rincorrono vicendevolmente senza soluzione di continuità. Oltre a questo rimarrebbe sempre il problema basilare dell’intenzione: come faccio a parlare con sicurezza di intenzione per esempio un autore è morto e non ha lasciato informazioni sulle proprie opere ?

Beardsley è  l’altra faccia della medaglia. Il critico sembrerebbe non curarsi del legittimo problema che si pone Danto sulla questione dell’interpretazione: il rischio dell’universalismo ermeneutico. Se infatti Danto nella sua teoria mette in gioco idee molto ben definite come quelle di interpretazioni corrette e incorrette, il lavoro  di Beardsley sembra soffrire di assenza di qualsiasi forma di restrizione. Forse l’esempio, sicuramente iperbolico, fornito da me precedentemente sul David di Michelangelo e sul suo esprimere una rappresentazione della figura del tricheco è esagerato. Ma la domanda sorge spontanea: avendo come parametro d’indagine solamente l’opera d’arte, di qualsiasi tipologia si tratti, e esprimendo un giudizio in “buona fede”, ossia essendo fermamente conviti dell’interpretazione che si sta dando, cosa mi potrebbe impedire di vedere un tricheco nella celebre opera dello scultore rinascimentale se è quello che effettivamente vedo ?

Forse quella che dobbiamo cercare non è una linea davidiana o la linea di uno schizzo preparatorio. La linea di ricerca potrebbe assomigliare di più a quella pensata e utilizzata da Paul Klee. Una linea flebile che cerca di raccontare l’irraccontabile: la genesi della visione. Una linea che è consapevole di non potersi mai compiere definitivamente, perche se lo riuscisse a fare non avrebbe più motivo di esistere.

Quello dell’intenzionalità è sicuramente un tema delicato: abbiamo preso in considerazione, come ho stabilito all’inizio, due visioni molto radicali sulla questione. Si potrebbe fare capo all’intenzione dell’artista come parametro, ma questo implicherebbe quasi un atto di fede dogmatico, dove senza prove empiriche stabiliamo quale fosse l’intenzione dell’autore. Si potrebbe esulare completamente invece da questa intenzione e portare alla luce uno dei mille volti che può avere un’opera. Ma forse si potrebbe anche cercare di trovare una via di mezzo: trovare una linea che galleggia tra l’intenzione dell’autore e l’interpretazione del fruitore. Una linea kleeiana che cerchi di far convivere visibile e invisibile, recezione del fruitore e intenzione dell’autore. Una linea che cerchi far combaciare l’interpretazione data da me su Una volta emerso dal grigio della notte ... con quella dell’intenzione di Klee, una linea che metta d’accordo il David michelangiolesco con i trichechi, se è possibile.

Paul Klee, Una volta emerso dal grigio della notte ..., 1918, acquarello e penna, Berna, Kunstmuseum


Conclusioni

Nell’introduzione di Forme dell’intenzione, Baxandall spiega: «...quanto si offre in una descrizione è la rappresentazione del pensiero a proposito di un quadro piuttosto che la rappresentazione del quadro stesso. E dire che spieghiamo un dipinto tramite una descrizione può essere allora considerato come un altro modo di dire che spieghiamo innanzitutto i pensieri che abbiamo avuto in riferimento al quadro, e solo in secondo luogo il quadro» [23] .

Riprendiamo l’esempio introduttivo di questo lavoro: Every Breath You Take. Posso descriverla come una canzone d’amore, ma questo non implica che effettivamente lo sia. Nel dare questa interpretazione, descrivo i miei pensieri a proposito della canzone. Se poi vengo a scoprire che l’autore aveva pensato il pezzo in maniera diversa dalla mia descrizione e mi venisse chiesto di cosa parla la canzone, probabilmente risponderei dicendo quello che l’autore ha detto su di essa, anche se la mia descrizione – o interpretazione – iniziale era diversa. Senza dubbio l’autore mantiene un’aurea di auctoritas sulle proprie creazioni e, se decide, o ha l’opportunità, di rendere manifeste le sue intenzioni, plasma e influenza le interpretazioni dei fruitori delle sue opere.

Da questo punto di vista si può essere d’accordo con Danto. Il pubblico, confrontandosi con un campo aperto e in qualche misura irrazionale come l’arte, cerca di auto-controllarsi e di dare un senso alle proprie affermazioni, e l’unità di misura che appare più certa e sicura in questo caso è l’intenzione dell’artista. Bisogna anche tener presente che sicuramente c’è un fattore di narcisismo nella ricerca dell’intenzione autoriale. Se infatti l’interpretazione che diamo di un’opera combacia con l’intenzione dell’autore automaticamente ci riusciamo a porre intellettualmente al livello dell’artista stesso. Sapere quello che voleva dire Sting, almeno consciamente, quando ha scritto questo brano è indubbiamente appagante. Ci permette di entrare in una parte della fruizione che esula dal percettivo e sfocia nel campo intellettuale. La logica che governa questa forma di narcisismo è molto simile a quella che ci fa gustare le citazioni o i richiami intertestuali, i quali sono tendenzialmente intenzionali.

Il fumetto italiano Dylan Dog è un esempio lampante di questa dinamica. Il suo creatore,  Tiziano Sclavi,  ha sempre ammesso in prima persona di avere un debole per le citazioni e gli omaggi. Nel primo albo della serie il protagonista (che di “mestiere” fa “l'indagatore dell'incubo”) si presenta alla sua prima cliente con la frase «Mi chiamo Dog, Dylan Dog». Nell’intuire l’omaggio che Sclavi ha voluto fare a 007, il celebre personaggio di Ian Fleming, che si presenta dicendo «mi chiamo Bond, James Bond», il lettore del fumetto rimarrà quanto meno piacevolmente sorpreso e solo per aver capito la citazione si sentirà più appagato nell’avere letto l’albo.

È forse proprio questo sentimento di soddisfazione e di narcisismo che spinge i fruitori a cercare l’intenzione dell’artista ?

Un’opera ha vari livelli di fruizione: posso vedere un quadro di Klee e godere solamente nel vedere le caratteristiche formali. Ma se poi mi vado a leggere i suoi diarî e i saggi critici sulle sue opere sarò sicuramente più conscio delle sue possibili intenzioni e della sua poetica; questo mi permetterà di fruire della sua arte sia sensibilmente sia intellettualmente. Ma per godere intellettualmente di un’opera è necessario risalire alle intenzioni degli autori ? Le cose, come abbiamo visto, si complicano ancora di più se ammettiamo l’ipotesi dell’intenzionalità inconscia. «Del resto possiamo sapere qual è l’occasione comunicativa per cui un quadro è stato dipinto, non l’intenzione dell’artista. Come si fa a conoscerla, se l’intenzione è precisamente celata in lui, e talvolta anche a lui stesso, e l’unica cosa che possiamo giudicare è il prodotto che ne è  venuto fuori ?» [24] , scrive il filosofo Emilio Garroni. Se le intenzioni sono celate anche all’autore stesso è allora ammissibile dire che vi possano essere anche delle intenzioni inconsce, che possono variare da influenze culturali - ciò che Riegl chiama kunstwollen - a influenze che arrivano dal profondo dell’inconscio dell’artista.

In un’intervista del 1993, precedente quindi a quella citata nell’introduzione, Sting racconta la genesi di Every Breath You Take: «Mi svegliai nel mezzo della notte con quella frase in mente (ogni respiro che farai), mi misi a suonare il pianoforte e in mezz’ora la canzone era scritta. Il pezzo è di per generico, un aggregato di altre centinaia di canzoni, ma le parole sono interessanti. Suona come una confortante canzone d’amore. Non mi resi conto al tempo quanto era sinistra. Credo che stessi pensando al Grande Fratello, sorveglianza e controllo» [25] . Vediamo, dunque, che nonostante la spiegazione della canzone, l’artista ammette la sua non consapevolezza del significato del testo durante la creazione. Parlare di intenzionalità inconscia è rischioso quanto parlare di intenzionalità conscia. Non si possono avere certezze da questi filtri, ma semplicemente creare ulteriori supposizioni e possibilità interpretative. 

Ci si potrebbe chiedere a questo punto: qual’è la motivazione nell’interpretare un’opera se non sarò mai sicuro di quello che dico ? Penso che il fatto di non poter avere la certezza delle proprie affermazioni  sia esattamente il divertimento del “gioco interpretativo”. Questo “gioco” presenta varî campi di lavoro: l’intenzione del testo, la possibile presenza di una intenzionalità inconscia e  l’intenzione dell’autore. Sono convito che quest’ultima sia uno dei fattori da tenere in considerazione, rammentando, però, che essa è una condizione utile ma non necessaria ai fini dell’interpretazione. Si può, e si deve, attivare un’opera, come dice Danto, ma è sempre il fruitore ad attivarla. Quello della canzone Every Breath You Take, come abbiamo detto nell’introduzione, è un caso particolare. L’autore ha esposto le proprie intenzioni coscienti. Ma generalmente questo non accade. Come sostiene Beardsley, il testo-opera ha una logica propria, la quale, è legittima dal momento che viene esposta dal fruitore, anche se non è stata concepita dall’autore. Anche in questa maniera, autodeterminata, si può fruire l’opera intellettualmente. Gli armonici rilevati da Hartman nella poesia di Wordsworth sussistono dal momento in cui sono stati individuati, come le interpretazioni degli amanti che hanno sentito in Every Breath You Take una canzone d’amore. Si può fare appello all’intenzione dell’autore per giustificare la propria interpretazione ma ricordandosi sempre che questa supposta intenzionalità può non essere chiara anche all’artista stesso. Il testo nasce come  intenzione ma vive dell’interpretazione altrui. Lo stesso Sting nel descrivere la genesi della propria canzone mostra qualche incertezza.

L’unica certezza che abbiamo è quello che vediamo, leggiamo o ascoltiamo: il testo stesso. Il singolo fruitore può arrivare a una verità che considera univoca su un’opera, ma di certo  qualcun altro ne può trovare un’altra e questo meccanismo permette il confronto e dunque la vitalità dell’opera. L’interpretazione conforme alle intenzioni dell’autore è una delle possibili interpretazioni dell’opera, ma questa non può essere né certa né corretta. Bisogna aggiungere che la verità (interpretazione) – sia quella conforme all’intenzioni autoriali che alle intenzioni del testo - alla quale si arriva non è fissa. Ha invece la propria valenza epistemologica dal momento in cui viene elaborata, ma può cambiare nel tempo. Posso osservare un quadro da adolescente e vederci dentro la speranza in un futuro migliore e rivedere lo stesso quadro da adulto e trovarci la placida serenità del presente. Il fruitore attiva l’opera, ma per attivarla proietta anche se stesso nell’opera. Cambiando lo stato d’animo della persona può cambiare anche l’interpretazione. Gli amanti che hanno dedicato Every Breath You Take agli amati  lo hanno fatto convinti della loro interpretazione, ossia che stavano manifestando il loro amore attraverso una canzone. L’opera è stata attivata in quella maniera e ha comunicato quel messaggio e ha funzionato.

Nel libro di Robert M. Pirsig Lo zen e l’arte della manutenzione della bicicletta troviamo un passaggio che per certi versi spiega questo concetto appena espresso. Pirsig ci parla degli studî del matematico Lobacevskij e della nascita del geometria non euclidea. Partendo dal presupposto che la geometria euclidea si basa su postulati ed assiomi che hanno una logica interna, il matematico russo prova a cambiare uno dei postulati, per la precisione il quinto. Il risultato è  che cambiando uno dei postulati il sistema logico impostato da Euclide non crolla, bensì arriva ad altre conclusioni, ad altre verità. Nella geometria di Lobacevskij la logica interna persiste: è  semplicemente diversa da quella euclidea. Come facciamo a sapere quale di queste geometrie è giusta ? Si domanda Pirsig nel libro. Se sia la geometria euclidea che quella non-euclidea hanno una logica interna che non prevede contraddizioni come si fa a sapere quale è quella giusta, o meglio quella “vera” ? Questa domanda, secondo Pirsig, non ha senso e infatti aggiunge: «Una geometria non può essere più vera di un’altra, può essere solo più utile. La geometria non è vera, è vantaggiosa” [26] . Una logica non esclude l’altra. Se un fan si è sposato con la canzone dei Police come sottofondo alla festa di matrimonio è perché ha attivato in quella maniera la canzone. Non è stata necessaria la spiegazione del testo».

Tutto questo ragionamento non implica però che l’essere umano  non senta il bisogno di  conoscere il più possibile l’opera. Alcune persone si accontentano delle proprie interpretazioni autodeterminate (come hanno fatto gli amanti che hanno dedicato la canzone dei Police alle amate). Ma altre sentono il bisogno di spingersi più in là, andando ad approfondire tutti i fattori che caratterizzano la storia e lo spirito di un’opera, anche perché, come abbiamo detto in precedenza, questo lavoro permette di godere dei vari livelli che un’opera possiede. Questa spinta è dettata dalla sete di conoscenza innata nell’essere umano e da una strana forma di narcisismo nell’interpretazione. L’intenzione dell’artista è uno dei fattori che caratterizza l’opera d’arte, anche se è andata perduta con la morte dell’artista: alcuni fruitori la cercano, tendono verso di essa per meglio apprezzare l’opera, per sentirsi loro per primi più appagati. Ma dove finiscono le certezze su queste intenzioni e dove cominciano le speculazioni? Come si arriva alla corretta interpretazione osannata da Danto?

Non si potrà mai arrivare alla certezza assoluta – al massimo si può affermare l’intenzione dell’autore attraverso una specie di dogmatismo ermeneutico. Certezza e correttezza non possono esistere in questo campo di ricerca, al massimo si può parlare di più plausibile e meno plausibile. Se esistesse un’interpretazione “giusta”, dove per “giusta” si intende conforme alle intenzioni dell’autore, questo implicherebbe che le altre interpretazioni siano fallaci. Ma come avviene per la geometria euclidea e non euclidea, una logica non deve escludere l’altra. L’unica certezza che abbiamo è il testo/opera. L’interpretazione deve fare capo a esso non alle intenzioni autoriali. Se il testo ammette un’interpretazione fornita – come il sentire l’amore nella canzone dei Police o trovare gli armonici di Hartman – allora quest’ultima è valida. L’intenzione dell’autore è subordinata al testo, ci può fornire indicazioni, dare più “sapore” all’interpretazione ma non darci certezze.

«L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pur serviva, era priva di senso» [27] , con questa metafora il personaggio del frate francescano Guglielmo  da Baskerville chiude la storia di cui è protagonista,  narrata nel libro Il nome della rosa di Umberto Eco. La ricerca dell’intenzione dell’autore assomiglia un po’ alla scala citata dal personaggio di Umberto Eco: seppur ci serve nella misura in cui placa, in parte, la nostra sete di conoscenza e il nostro giocare con l’opera, non potremo mai essere sicuri universalmente delle suddette intenzioni, motivo per cui, proprio come la scala, la ricerca dell’ intentio autoris ha una sua logica e motivo di essere ricercata ma è anche priva di senso proprio.






NOTE

[1] Il presente testo è un estratto dalla tesi Il problema dell’intenzione dell’autore nell’interpretazione dell’opera. La tesi è stata presentata nel dicembre del 2012, scritta da Gianluca Lorenzini e avuto come relatore il Professor Stefano Velotti. Il testo è stato scritto come esame finale per il completamento degli studi di Laurea Triennale in “Scienze Storico-Artistiche”, presso l’Università di Roma “La Sapienza”.

[2]       L’intervista è riportata sulla pagina Wikipedia inglese. http://en.wikipedia.org/wiki/Every_Breath_You_Take, ma può anche essere ascoltata sul sito ufficiale della BBC http://www.bbc.co.uk/radio2/soldonsong/songlibrary/indepth/everybreathyoutake.shtml. (Traduzione mia).

[3]       Velotti, S. (2012), p. 156.

[4]       Eco, U.(1990)  p. 104.

[5]       Klee, P. (1898-1918), pp. 183, 640.

[6]       Di Giacomo, G. (2003), p. 17.

[7]       Klee, P. (1898-1918),  pp. 410, 1134.

[8]       Argan, G.C., Bonito Oliva, A. (2002), p. 163.

[9]       Di Giacomo, G. (2003), p. 23.

[10]      Danto, A.C. (1981), p. 55.

[11]      Danto, A.C. (1981), p. 163.

[12]      Danto, A.C. (1981), p. 164.

[13]      Danto, A.C. (1981), p. 153.

[14]      Danto, A.C (1981), p. 157.

[15]      Beardsley, M.C.- Wimsatt, W.K, Jr (1954).

[16]      Beardsley, M.C.- Wimsatt, W.K, Jr (1954), p. 5.

[17]      Beardsley, M.C.- Wimsatt, W.K, Jr (1954), p. 3.

[18]      Beardsley, M.C.- Wimsatt, W.K, Jr (1954), p. 4.

[19]      Beardsley, M.C.- Wimsatt, W.K, Jr (1954), p. 1.

[20]      Di Giacomo, G. (2003), p. 45, nel libro il titolo tradotto è Dapprima innalzatosi dal grigio della notte.

[21]      Foster, H.-Krauss, R.- Bois, Y.- Buchloh, B. (2004), p. 138.

[22]      Danto, A.C. (1981), p. 151.

[23]      Baxandall, M. (1985) p. 16.

[24]      Garroni, E (2005) p. 85.

[25]      L’intervista è citata sulla p.ina Wikipedia http://en.wikipedia.org/wiki/Every_Breath_You_Take (traduzione mia).

[26]      Pirsig, R.M. (1974) p. 258.

[27]      Eco, U. (1980) p. 495.

 



 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Argan, G.C., Bonito Oliva, A.(2002) L’Arte moderna, 1770-1970. L’Arte oltre il Duemila, Milano, Sansoni Editore, 2002.

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Danto, Arthur Coleman, La trasfigurazione del banale: una filosofia dell'arte, a cura di Stefano Velotti, 2.a ediz., Roma - Bari, GLF editori Laterza, 2010.

 

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Foster, H.-Krauss, R.- Bois, Y.- Buchloh, B. (2004) Arte dal 1900, Bologna, Zanichelli Editore, 2006.

Garroni, E. (2005) Immagine Linguaggio Figura, Roma-Bari, Editori Laterza, 2010.

 

Klee, P. (1898-1918), Diari 1898-1918, prefazione di Giulio Carlo Argan, con una nota di Felix Klee, Milano, Editore Mondadori, 1990 [trad. it. Alfredo Foelkel].

Pirsig, R.M. (1974) Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi editore, 1981, [trad. it. di Delfina Vezzoli].

Velotti, S. (2012) La filosofia e le arti, Bari, Editori Laterza, 2012.







 

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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