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Jüdisches Museum Berlin: una “metafora architettonica”

 

Lucia Signore
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 16 Giugno 2014, n. 716
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Area Architettura

Il Jüdisches Museum Berlin (figg. 1 e 2), altrimenti detto, con una formula più lunga e frutto di continui ripensamenti: «Ampliamento del Dipartimento Giudaico del Museo di Storia Civile di Berlino», è un capolavoro architettonico realizzato da Daniel Libeskind. Tale struttura viene spesso annoverata tra le costruzioni decostruttiviste, edifici che perdono la solidità statica dell’architettura classica per dissolversi in forme fluide che conferiscono grande dinamicità a quelle che non sono più delle scatole architettoniche. Il Jüdisches Museum è una struttura anticlassica, o meglio, al fine di utilizzare espressioni che siano al passo con i tempi, è un’architettura liquida, la cui fluidità è data dal suo profilo zigzagante e scomposto che evade dal mondo euclideo. Il concetto di fluidità architettonica è, probabilmente, difficilmente comprensibile ed accettabile, proprio perché viene associato all’arte del costruire che si è sempre occupata di erigere strutture durature, solide e statiche. Ma nell’era contemporanea dominata dalla fluidità virtuale del World Wide Web o del Cyberspace, è chiaro che il mondo della solidità e della concretezza subisca l’influsso di nuovi concetti. Da questo «labirinto  senza fine» [1] qual è il ciberspazio, si mutua l’elemento del disorientamento, caratteristica tipica della costruzione libeskindiana qui presa in esame, che ben risponde all’idea di destabilizzazione architettonica proposta da Peter Eisenman, maestro di Libeskind, nonché teorico del concetto di decostruzione in ambito architettonico. Il carattere labirintico è onnipresente nel Jüdisches Museum, dal sottolivello ai tre spazi espositivi superiori in cui si viene trasportati fluidamente tra gli svariati oggetti e reperti lì custoditi e disposti caoticamente, i quali, ostacolando insieme alle nere pareti dei vuoti interni il percorso a rete, costringono ad aggirare tali ostruzioni che ripropongono significativamente una storia “tortuosa”. [2] Caos, dinamismo (sia all’interno che all’esterno di questa scultura architettonica) e complessità, sono alla base della geometria di riferimento: non quella euclidea dell’ordine, della solidità e della stabilità, ma quella frattale. [3] Non più figure geometriche, ma linee intersecantesi che non creano più angoli retti, rigettando così la classica griglia dei nove quadrati detestata da Daniel Libeskind sin dal periodo di formazione presso la Cooper Union School. Le riflessioni di Marcos Novak su questa architettura virtuale sempre mutevole, impalpabile, al limite della realizzabilità, ben si confanno all’attività grafica e costruttiva di Daniel Libeskind, il quale ha realizzato molti disegni e progetti di un’architettura immaginaria e utopica in cui le Carceri di Piranesi [4] , o l’eco dell’astrattismo di Kandinskij, solo per citare alcuni esempi, sono particolarmente presenti. Questi artisti vengono indicati da Novak quali precursori degli spazi astratti del Cyberspace, la cui architettura «tende a diventare musica» [5] , una sinfonia continua e mutevole, sfuggente e dinamica, come del resto è il Jüdisches Museum di Libeskind in cui l’arte dei suoni, inoltre, gioca un ruolo non irrilevante.

L’edificio berlinese costruito sulla Lindenstrasse, nel quartiere di Kreuzberg, significativamente accanto alla sede che ha ospitato precedentemente un’esigua collezione ebraica, è stato realizzato a partire dal 1989, anno particolarmente importante per gli sviluppi storici a livello mondiale, nonché per il progresso della cultura tedesca, soprattutto in rapporto con quella ebraica. Gli orrori e i crimini commessi dai nazisti hanno impedito per molti anni di dialogare con il popolo decimato dalle loro stesse mani; il peso della vergogna costringeva a mettere tutto a tacere. Negli anni Cinquanta, ossia nell’immediato dopoguerra, venne coniata una parola quasi impronunciabile, Vergangenheitsbewältigung (confronto con il passato), parola che venne però utilizzata soltanto dopo circa trent’anni. [6] Nel mondo bipolare della Guerra Fredda l’ebreo poteva ancora far discutere, tanto nella Germania dell’Est quanto nella Germania dell’Ovest, terre divise politicamente e ideologicamente, ma unite da un triste e comune passato. La caduta del muro e la conseguente riunificazione hanno permesso al popolo tedesco di riconoscere gli errori e gli orrori commessi precedentemente e di recuperare dall’oblio in cui erano stati repressi fino a quel momento i ricordi di quella tragica parentesi della storia novecentesca. Ricordare era necessario sia per affrontare che per cercare di superare un dramma collettivo che accomunava - e talvolta ancora accomuna - in uno stato di angoscia o senso di colpa, vinti e vincitori, sopravvissuti e discendenti di chi è venuto meno. La memoria storica è il concetto chiave di questo progetto architettonico: non si può e non si deve dimenticare l’Olocausto, l’evento storico più eclatante del passato ebraico, che proprio per la sua tragicità deve spronare le nuove generazioni che si confrontano con esso a costruire un futuro scevro di tanti mali. Kelsey Bankert ha parlato di traumatic architecture (architettura traumatica) al fine di sottolineare che questa struttura non solo rievoca drammaticamente una tragedia storica, ma aiuta nel contempo a superarla con l’allestimento di spazi terapeutici e catartici. [7]

Geniale è Libeskind nel progettare questa metafora architettonica: ogni singolo elemento strutturale e presumibilmente anche i numeri che indicano le dimensioni degli spazi, nonché i colori e l’impianto architettonico nel suo complesso, presentano un particolare significato. Oltre a far riferimento ovviamente alle nozioni scientifiche necessarie per l’erezione di un edificio, Libeskind costruisce sottili rimandi simbolici alle più svariate discipline del settore umanistico, come quelle storico-filosofiche, artistiche, musicali e letterarie. Con certezza sappiamo che alla base di questo progetto vi sono quattro fonti principali di svariata natura: una cartina della città di Berlino, il componimento Moses and Aronne di Schönberg, i Gedenkbuch  e l’Einbahnstrasse (Strada a senso unico) di Walter Benjamin. Ci si chiede a cosa servisse la cartina di Berlino quando nel bando di concorso era stato, ovviamente, già stabilito il luogo di edificazione dove gli architetti si recarono anche per un sopralluogo, lì dove sorgeva un parco giochi, accanto al Kollegienhaus, antico tribunale costruito da Philipp Gerlach nel 1735 e adibito successivamente a sede museale per l’esposizione di reperti storici. Libeskind ha ricercato meticolosamente su quella cartina i civici presso cui risiedevano illustri uomini di cultura, ebrei e tedeschi, dell’Ottocento e del primo Novecento, uniti in una sorta di «connubio» [8] mediante una semplice linea. Ironia della sorte, o forse semplicemente conseguenza di un accurato studio, le linee tracciate sulla cartina della città per unire le coppie di intellettuali hanno dato vita ad una stella a sei punte, la stella di David, l’emblema della religione ebraica divenuto però nel Novecento simbolo discriminatorio. Le coppie da lui individuate sono: Rahel Levin Varnaghen con il teologo luterano Friedrich Schleiermacher (tale linea di congiunzione si sovrappone alla Lindenstrasse su cui è poi sorto il Museo), Paul Celan e Mies van der Rohe, il poeta E.T.A. Hoffmann e Friedrich von Kleist. Entro questa sorta di “cornice” tipicamente ebraica, Libeskind ha collocato il suo museo che nelle forme riprodurrebbe di nuovo una stella a sei punte, ma questa volta decomposta, resa mediante una forma zigzagante che non rende immediatamente comprensibile il suo vero significato. È necessario sottolineare che tale profilo è percepibile soltanto da una veduta aerea e l’impressione che se ne ricava, più spontanea e naturale, è quella di riconoscervi un fulmine, motivo per cui i berlinesi indicano questa struttura con il termine blitz (fig. 3).

La seconda fonte è di natura musicale: Libeskind si concentra sul terzo atto non musicato del Moses and Aronne di Arnold Schönberg, musicista ebreo costretto a lasciare l’Europa negli anni Trenta a causa dell’acceso odio antisemita. Questo è il motivo per cui il suo celebre componimento che esalta personaggi veterotestamentari è rimasto incompiuto, e proprio il concetto di incomunicabilità e il silenzio che caratterizzano il terzo atto hanno ispirato Libeskind. Quest’ultimo ripropone l’assenza di suoni con i voids, ossia con vuoti, spazi non percorribili che scandiscono la struttura architettonica. Il void è l’elemento strutturale cardine di tale costruzione, particolarmente eloquente nel riproporre l’assenza fisica di chi è venuto meno nei campi di sterminio, o il silenzio a cui fisici, scrittori e artisti sono stati costretti. Lo stesso Schönberg, dunque, è rimasto vittima dell’odio hitleriano e viene pertanto ricordato al pari dei numerosissimi ebrei scomparsi o esiliati che hanno lasciato un vuoto, un profondo silenzio, ma almeno il ricordo. In questo museo che si confonde con i luoghi sacri in cui si entra mediante un «rito processionale» [9] , si rende omaggio alle vittime dell’Olocausto con una muta preghiera, o, come avrebbe voluto Libeskind, con la lettura di numerosi nomi di persone scomparse che avrebbero riempito i vuoti. La nostra voce, leggendo quell’elenco interminabile di nomi poi non più incisi sulle pareti, avrebbe modulato in tal modo una sorta di cupa litania, un lugubre lamento funebre che avrebbe fatto rabbrividire. Quei nomi di identità spettrali, non frutto della strabiliante fantasia dell’architetto, sono stati estrapolati dai Gedenkbuch (terza fonte), due enormi volumi custoditi dalle autorità federali in cui compaiono i nomi dei deportati (tra cui figurano molti Libeskind) con le rispettive date di nascita e di deportazione, nonché il campo di concentramento in cui sono stati internati.

Quarta ed ultima principale fonte di ispirazione è il saggio sopracitato di Walter Benjamin, una raccolta di aforismi dedicata agli amici in cui surrealisticamente, seguendo pertanto un percorso non lineare e disorientante, si può ricostruire il profilo topologico e spirituale della Berlino degli anni Venti. Pensieri, sogni e ambienti descritti consequenzialmente suscitano nel «lettore-visitatore la sensazione di una mancanza di un senso di orientamento, il venir meno del senso sia spaziale che temporale» [10] e proprio il carattere surrealistico dello smarrimento accomuna questo testo letterario con quello architettonico di Libeskind, perché l’architettura è un testo, derridianamente parlando. [11]

Facendo l’analisi del contesto urbano in cui è stato inserito il Jüdisches Museum, si può notare la notevole difformità di tale costruzione rispetto a quelle costruite precedentemente (Kollegienhaus e strutture abitative) sullo stesso lato della Lindenstrasse e con cui condivide soltanto l’altezza, in rispetto della normativa alla base del piano regolatore della città. Di fronte però al Kollegienhaus vi è l’Accademia del Jüdisches Museum ultimata da Libeskind nel 2011. [12] Tale struttura dialoga con quelle preesistenti, richiamando in particolar modo il Museo Ebraico mediante il rivestimento (in questo caso ligneo) solcato da linee diagonali, nonché attraverso l’inclinazione del cubo di accesso che ricorda il Giardino dell’Esilio. Il museo sorge in un’ampia area verde, verde che è presente sia nel lotto di costruzione che nella zona retrostante al cortile vetrato realizzato da Libeskind nel 2007 nello spazio quadrato ricavato tra i tre corpi di fabbrica dell’antico tribunale settecentesco. I due giardini sono stati progettati indipendentemente l’uno dall’altro: lo spazio verde sul retro del Kollegienhaus è stato organizzato da Hans Kollhoff e Arthur Ovaska in maniera conforme allo stile del palazzo settecentesco; quello intorno alla struttura di Libeskind, da Cornelia Müller, Jan Wehberg ed Elmar Knippschild, i quali, utilizzando lastre di pietra, creando viali di ghiaia e piantando particolari e significativi arbusti, hanno allestito uno spazio che permette alla struttura libeskindiana di essere integrata nell’ambiente circostante. Interessante è il rimando a Paul Celan, poeta e premio della letteratura commemorato esplicitamente da Libeskind: in uno spazio creato dalle pareti zigzaganti dell’edificio vi è il “Cortile Celan”, accessibile dall’esterno, che presenta un rilievo pavimentale disegnato da Gisèle Celan-Lestrange, la vedova del poeta.

Mentre le strutture adiacenti mostrano alla luce dell’analisi geometrica una composizione basata su forme e volumi geometrici primi - basti pensare al Kollegienhaus inscritto in un quadrato o alle abitazioni disposte ritmicamente l’una di fronte all’altra in maniera proporzionale, riproponendo ancora una volta un volume primo qual è il cubo - il museo di Libeskind tipologicamente si differenzia notevolmente, trattandosi di una struttura con uno sviluppo frammentato su una spezzata aperta. Tracciando i prolungamenti dei singoli segmenti che costituiscono la linea zigzagante si otterranno centri di proiezione propri che non hanno particolare importanza. La forma irregolare è frutto dello sviluppo di due linee direttrici: una tortuosa e tendente ad infinito (quella blu) che funge da modello per l’elevazione, l’altra «dritta ma spezzata» [13] (linea rossa) che determina il vuoto continuo interno (fig. 4). [14] La struttura è mista, ossia è il frutto dell’unione di struttura continua e puntiforme, realizzata con pilastri di acciaio, visibili anche nei “tagli” praticati sulla superficie che superano le dimensioni consentite in una struttura in muratura piena (fig. 5), e con cemento armato, come si evince dalle parti piene a setto continuo (i vuoti interni all’edificio) lasciate volutamente grezze. Ciò permette in pianta di cogliere ulteriori differenze con il preesistente Kollegienhaus dal momento che quest’ultimo, in conformità alle regole architettoniche settecentesche, è una struttura in muratura continua piena che ben trasmette l’idea di solidità e di staticità che viene meno nel fluido museo libeskindiano. Interessante è il rapporto tra spazi pieni e vuoti che sono soggetti ad una trasposizione dall’esterno all’interno e viceversa. Le finestre sottili e lunghe che costituiscono i vuoti della superficie esterna prendono corpo all’interno mediante dei pilastri in cemento armato (fig. 6) disposti obliquamente che incombono come «minacce sempre presenti» [15] sul vano scala principale e che altro non sono che la prosecuzione all’interno dell’edificio delle aperture all’esterno, così come, al contrario, quest’ultime sono la continuazione delle travi interne. In aggiunta, la luce contribuisce a creare un rapporto di continuità tra interno ed esterno, pieno e vuoto, poiché i fasci di luce che entrano mediante le aperture (vuoti per l’appunto) si riflettono sulle bianche e spoglie (ma piene) parenti interne. Seguendo il “codice anticlassico”, le finestre qui sono l’una diversa dall’altra e disposte non in maniera sequenziale e modulare; nell’edificio prospiciente, invece, Gerlach ha scelto di dividere la facciata orizzontalmente con due ordini di finestre e di scandirla ritmicamente anche con lesene che individuano verticalmente cinque moduli rettangolari (fig. 7). Lo studio della facciata, in questo caso, si basa sul concetto di simmetria: il modulo centrale in cui è collocato l’ingresso del Kollegienhaus, ma anche del Jüdisches Museum di Libeskind, è particolarmente enfatizzato mediante l’uso di aperture più ampie, di una balconata al secondo livello, nonché di un coronamento templare, dal momento che il modulo è delimitato in alto da un timpano su cui sono collocate le statue allegoriche della Giustizia e della Prudenza. Altra caratteristica che differenzia le due strutture è possibile scorgerla da una veduta a volo d’uccello: osservando l’antico tribunale si vedrà un tetto rosso a spiovente, mentre l’edificio di Libeskind ha una copertura piatta (e in questo vi è un omaggio a Schinkel che con le sue coperture lisce rivoluzionò l’architettura berlinese dell’Ottocento) su cui si scorgono le tubature e tutte le parti costituenti degli impianti di varia natura (fig. 3): tutto viene messo in luce, nulla è nascosto nella muratura. [16]

Daniel Libeskind, inoltre, come già accennato sopra, ricorre all’elemento labirintico, in linea con i principi del Decostruttivismo di cui è un esponente (anche se non ama essere definito tale), al fine di scardinare il classico senso dell’orientamento dato dalle tradizionali scatole architettoniche, in modo tale che il visitatore possa essere coinvolto sia emotivamente che fisicamente. Il cuore, la mente e i sensi vengono sollecitati al fine di favorire l’immedesimazione in un qualsiasi ebreo, cambiando anche la consueta pratica di mettere il visitatore passivamente dinanzi o dentro una struttura architettonica. Forte è il senso di disagio, incertezza e angoscia che si può provare entrando nell’edificio o addirittura ancor prima di addentrarsi in esso, poiché già sostando sulla Lindenstrasse si può riscontrare quella che i più definirebbero un’anomalia: la struttura contemporanea che sembra essere autonoma rispetto a quella prospiciente, tra l’altro così diversa nello stile, nelle forme e nei colori, in realtà è strettamente dipendente da essa perché il museo di Libeskind non ha un proprio ingresso. Questa scelta conforme al canone anticlassico - dato che l’ingresso è spesso enfatizzato nella tradizione classica per collocarlo in posizione centrale nell’apparato simmetrico alla base della progettazione modulare della facciata, come testimonia del resto il Kollegienhaus  -  ha una valenza simbolica. Nel bando di concorso era stato espresso chiaramente che l’edificio sarebbe sorto significativamente nel lotto di forma triangolare accanto al Kollegienhaus e che, presumibilmente, sarebbe stato autonomo. Libeskind invece ha collegato le due costruzioni mediante una ripida scalinata e un percorso sotterraneo che conduce, come lui stesso ha affermato, alle «radici» della storia berlinese in cui non è possibile separare quella tedesca da quella ebraica. Per cui, chiunque voglia far visita al Museo Ebraico di recente costruzione deve entrare nell’adiacente edificio settecentesco e scendere numerosi gradini che suscitano un nuovo e profondo senso di incertezza dovuto all’impossibilità di scorgere cosa ci sia al termine della scalinata. L’insicurezza, soprattutto nella prima parte del percorso espositivo, vige sovrana affinché il visitatore sia partecipe della drammatica esperienza dell’esilio, dell’ultimo viaggio verso la morte e della ripresa della propria vita, per chi si è salvato, dopo aver provato tanta sofferenza. Gli ebrei non hanno avuto certezze e sicurezze nel momento della partenza per nuove, sconosciute e lontane terre; non hanno avuto consapevolezza della meta di quel viaggio, per i più senza ritorno, verso i campi di concentramento; i superstiti non hanno avuto la serenità e la tranquillità nell’affrontare una nuova vita che portava le indelebili tracce di un passato crudele. Come si può allora ricreare quelle spiacevoli sensazioni facendo riferimento all’architettura classica, alle sue forme e ai suoi principi rassicuranti che hanno invece ispirato l’arte del nemico? Era quasi una scelta obbligata rigettare l’angolo retto per quello più acuto, inclinare il pavimento per affaticare il visitatore durante il percorso, rimpicciolire le finestre [17] al fine di far entrare poca luce ed evitare qualsiasi contatto con l’esterno così da ricreare la grigia atmosfera dei campi di sterminio in cui si viveva nella penombra, in completo estraniamento, avendo solo la certezza di essere stati imprigionati, di essere maltrattati e, con molte probabilità, di essere condotti verso la morte. Per un’architettura emotiva o sensibile in cui vengono sollecitati tutti i sensi, anche quelli prima trascurati per favorire «la percezione sensoriale nell’esperienza estetica e nella fruizione culturale» [18] , è obbligatorio rigettare la classica impostazione scatolare e la progettazione stabilita del percorso espositivo che presuppone un comune stato dei visitatori; al contrario, i turisti devono svolgere un ruolo attivo, devono cercare da soli la giusta strada da percorrere e modificare, pertanto, il proprio senso dell’orientamento.

Quest’ultimo viene ulteriormente sconvolto nel sotterraneo in cemento armato a setto continuo in cui vi sono tre corridoi che oltre ad essere spazi serventi o di collegamento, possono essere considerati anche spazi serviti dal momento che lungo i corridoi vi sono delle teche contenenti oggetti appartenuti ad alcuni ebrei  (fig. 8). Effettuata la discesa mediante la scala di congiunzione delle due strutture, ci si ritrova sull’Asse della Continuità, un corridoio terminante con una nuova rampa di scale che riporta in superficie per permettere così di proseguire il cammino sulle tracce della storia, anche se ciò può esser fatto soltanto dopo un processo di purificazione reso possibile percorrendo gli altri assi. Come un “novello Dante”, il visitatore deve scendere negli abissi infernali e sperimentare il male assoluto messo in atto principalmente con la Shoah. Anche se in questo museo sono custoditi reperti di svariato genere che raccontano tacitamente duemila anni di storia, Libeskind decide di porre l’accento sulla parentesi storica più tragica, perché si intreccia inevitabilmente con il passato e con il futuro non solo degli ebrei, ma della popolazione mondiale. Dapprima si è invitati a percorrere l’Asse dell’Esilio terminante con una parete trapezoidale di vetro accanto alla quale vi è una porta che immette nel Giardino dell’Esilio, altrimenti detto Giardino E.T.A. Hoffmann, uno spazio servito di quarantanove metri quadrati (fig. 9). Si tratta di un luogo aperto, ma paradossalmente claustrofobico, perché i colori della natura vengono sopraffatti dal grigio e l’erba viene sostituita da una colata di calcestruzzo armato; perché il cielo lo si può solo intravedere; perché, mediante un rovesciamento, ci si ritrova in una foresta di pilastri sopra i quali però sono stati piantati degli ulivi. Non un classico giardino, dunque, non un’oasi di ristoro, non un luogo verde in cui ammirare le classiche bellezze naturali: entrando in questo giardino forte è il senso di estraniamento che spinge a scappare via. Qui l’elemento labirintico è ben evidente e la mancanza di equilibrio che costringe i più ad appoggiarsi ai ruvidi pilastri, sollecitando in tal modo anche il tatto, è causata non solo dall’uso di pilastri uguali ed equidistanti, ma è anche dovuta all’inclinazione di sei gradi del piano di calpestio. Questo stesso espediente è stato utilizzato, qualche anno dopo, da Peter Eisenman nella realizzazione del Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa a Berlino (fig. 10). Anche in questo spazio, che appare come un grande cretto di Burri, il senso di disagio è molto forte camminando tra gli oltre duemilasettecento parallelepipedi di altezza crescente. Fabio Colonnese ha definito il Giardino E.T.A. Hoffmann «la più labirintica interpretazione della sala ipostila» [19] il cui soffitto è il cielo che poggia sulle morbide chiome degli ulivi piantati sulla sommità dei quarantanove pilastri a simboleggiare la rigenerazione dopo il dramma, nonché, come afferma Zambelli, la capacità di adattamento del “popolo senza terra”. [20] Il numero dei pilastri non è casuale ma simbolico: quarantotto riempiti con terra berlinese rimandano al 1948, anno della nascita dello Stato di Palestina; il quarantanovesimo, posto al centro della superficie quadrata cementificata,  colmato con terra palestinese, rappresenta la città di Berlino in cui la cospicua comunità ebraica ha sin dalle origini svolto un ruolo molto importante non solo dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto culturale. Libeskind definisce tale giardino il «naufragio della storia» [21] , il luogo in cui ogni certezza viene meno e in cui si scontrano sentimenti contrastanti, come la disperazione e la speranza, simboleggiata quest’ultima, ovviamente, dal verde delle chiome.

Dopo questa esperienza drammatica, il visitatore deve affrontarne un’altra  ancor più tragica: quella dell’Olocausto. Fisicamente il percorso risulta “impegnativo” dal momento che l’Asse dell’Esilio e quello dell’Olocausto presentano una certa inclinazione pavimentale e il corpo del visitatore è sottoposto a forti sbalzi termici. L’Asse dell’Olocausto presenta lateralmente delle teche di forma trapezoidale contenenti oggetti appartenuti alle vittime della Shoah, ma per poterli vedere è necessario avvicinarsi ad esse poiché sono chiuse da vetri opachi, come se fosse necessario un raccoglimento per vedere quella sorta di reliquie. Mediante un gioco di contrasti, questo corridoio, che interseca significativamente gli altri due,  termina con una porta scura che immette in un altro corpo architettonico in cui il tepore viene meno, dal momento che la torre trapezoidale, detta Voided void, anch’essa uno spazio servito, non è dotata volutamente di alcun sistema di riscaldamento o di raffreddamento. La pesante porta infernale viene letteralmente sbattuta alle nostre spalle con un tonfo che rimbomba nel buio della torre illuminata soltanto da una feritoia. Non vi è nulla in questo luogo claustrofobico, solo una scala (forse un rimando alla Scala di Giacobbe che unisce il mondo terreno con quello celeste) non raggiungibile. Non c’è via di scampo. In questo spazio della morte si odono il rimbombo della porta metallica da cui entrano nuovi “deportati” e, attutite, le voci dei bambini dell’asilo che sorge nelle vicinanze; si ascolta il suono della vita che pullula fuori da questo spazio opprimente che rievoca i camini dei forni crematori [22] , o le camere a gas [23] , oppure i vagoni dei treni merci in cui venivano costipati gli ebrei nel loro ultimo viaggio. In effetti quella lama di luce bianca che rischiara leggermente l’oscurità del luogo rievoca un racconto contenuto nel libro di Yaffa Eliach Non ricordare…non dimenticare: l’Olocausto raccontato con la speranza chassidica nell’umanità. Libeskind aveva inizialmente pensato di creare un grande vano completamente buio al fine di riproporre una camera a gas, ma il racconto di questa donna sopravvissuta ha fatto mutare idea all’Archistar dal momento che alcuni sono riusciti a sopravvivere. La donna citata ricorda il suo viaggio in treno da cui vide, attraverso una fessura, una linea bianca, presumibilmente una nuvola, o la scia di un aereo, che infuse in lei la sicurezza che avrebbe prima o poi rivisto il cielo, e così effettivamente è stato. [24]

Nel sotterraneo si ha inoltre la possibilità, una volta entrati nel centro di documentazione alla destra della scalinata di accesso, di ammirare due voids a cui vi si arriva mediante un percorso zigzagante creato con separatori di svariata forma. L’unico vuoto accessibile è il Memory void a cui si giunge dopo aver attraversato la Eric F. Ross Gallery al primo piano dove vengono allestite mostre temporanee. Nel Memory Void vi è l’installazione Shalechet (Foglie cadute) dell’artista israeliano Menashe Kadishman: numerosissimi volti bronzei di svariata misura, con bocche aperte che tacitamente urlano, ricoprono completamente il pavimento (fig. 11). Adesso bisogna immedesimarsi nell’antisemita e calpestare la dignità di uomini, donne e bambini “diversi”: camminando su quei volti non si prova una sensazione piacevole, poiché il rumore metallico è molto fastidioso e il percorso molto accidentato, correndo continuamente il rischio di cadere, di farsi male a causa di una caduta fisica che diviene simbolo di una caduta spirituale. Dopo questo viaggio catartico si è pronti per proseguire e per scoprire gli altri eventi fondamentali della storia ebraica percorrendo l’intera Scala della Continuità o Scala Sackler (dal nome di un sostenitore del museo) sopra la quale incombono oblique travi in cemento armato e al termine della quale vi è una parete bianca. Svoltando a sinistra ha inizio il percorso espositivo che permette di rivivere la storia ebraica dal Medioevo fino ai nostri giorni tramite oggetti artistici, abiti, documenti, fotografie, modellini e racconti di storie visibili o udibili mediante numerosi e svariati oggetti interattivi che sollecitano tutti i sensi. Il percorso è labirintico anche in questo unico corridoio zigzagante che non presenta vani come in un classico museo, ma piccoli spazi raccolti o sopraelevati ricavati con separatori anch’essi zigzaganti o trapezoidali, o da vuoti, riconoscibili dal colore nero delle pareti, che attraversano l’intera struttura. Gli spazi espositivi sono illuminati con luci artificiali, poiché quella naturale che filtra dalla coltre zincata su cui sono state aperte millecinquecento finestre, che altro non sono che i pezzi della stella di David andata in frantumi, è molto fievole. Per quanto concerne le tinte scelte per affrescare le pareti, Marco Biraghi ha parlato di «cromoclastia» [25] , poiché i colori - o non colori – prevalenti, sono il bianco e il nero con l’intermedio grigio per i sei vuoti lasciati simbolicamente in cemento grezzo. Si tratta di tinte giornalistiche che si prestano alla narrazione, ad una narrazione poco lieta che ricorda molteplici storie accomunate da un medesimo tragico epilogo. Il grigio è utilizzato anche per il rivestimento esterno per il quale si è scelto lo zinco che rende innanzitutto cangiante la superficie, destinata nel tempo a diventare bluastra (ecco un altro elemento che rende mutevole questa struttura che dipende dalla fluidità temporale, dal panta rei di Eraclito), ma che permette di fare un ennesimo e sottile rimando ai più noti e tragici eventi della storia ebraica commemorati nel sotterraneo mediante anche il centro di documentazione Rafael Roth Learning Center. È Hugh Aldersey – Williams a cogliere il valore metaforico dello zinco mediante un rimando alla psicanalisi, al mondo onirico, all’interpretazione dei sogni, poiché questo metallo viene associato all’emigrazione, simboleggiata dal Giardino dell’Esilio, ma, essendo inoltre un elemento chimico che si presta al pari del piombo alla sigillatura delle casse mortuarie, viene associato anche alla morte. Lo studioso infatti definisce tale edificio un «grande sarcofago» [26] che ospita le ceneri – simboleggiate a mio avviso dalla sabbia contenuta in una sorta di aiuola trapezoidale ricavata nel giardino esterno - dei milioni di ebrei uccisi dall’Olocausto (di cui la Torre trapezoidale ne è il simbolo) e che permette di preservarne almeno la memoria. Il trapezio, figura geometrica che ricorre continuamente in questa struttura per spazi che rappresentano il vuoto, l’assenza e il silenzio, permetterebbe di cogliere un sottile e presunto rimando all’allestimento dei campi di concentramento e, nello specifico, al primo lager costruito, quello di Dachau, dove, non a caso, i forni crematori a cui la Torre rimanda, erano collocati in un lotto trapezoidale. [27] Tale forma geometrica la si riscontra anche nel Felix Nussbaum Museum in cui si commemora un pittore ebreo ucciso in un campo di sterminio nel 1944 e nel lotto di costruzione del Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa di Peter Eisenman.

Dalla sommaria descrizione si può evincere che Daniel Libeskind è stato particolarmente coinvolto emotivamente nella progettazione di tale architettura, come se i suoi genitori, entrambi internati nei campi di lavoro e costretti anche dopo la liberazione a continue e rocambolesche fughe, gli avessero trasmesso geneticamente la sofferenza patita. I racconti, i documenti consultati, nonché la discriminazione da lui stesso subita in tenera età, gli hanno permesso di vincere un concorso e di materializzare per la prima volta un suo progetto. Sì, il Jüdisches Museum Berlin è il primo edificio da lui costruito, parallelamente al Felix Nussbaum Museum a Osnabrück [28] (figg. 12, 13), all’età di cinquant’anni. Precedentemente ha dedicato la sua vita alla carriera didattica e all’attività grafica in cui l’eco dechirichiano, surrealista e cubista (ma non solo), è particolarmente presente. Perché, allora, proprio in quel momento, proprio con questo progetto, riuscì a superare una lunghissima fase di pura ideazione? Questo quesito gli venne posto nel 1991 da Vittorio Magnago Lampugnani al quale Libeskind rispose dicendo che «idea, metodo e desiderio» si fusero in un rapporto di evoluzione e continuità rispetto a quanto fatto precedentemente. [29] Sulla sua scrivania di bandi ve ne sono molti, ma ne sceglie pochi, solo quelli attraverso i quali può davvero trasmettere un messaggio, e l’ampliamento per il Dipartimento Giudaico è uno di questi. Del resto nella sua autobiografia asserisce che le sue architetture devono essere “lette” come dei testi [30] , «testi architettonici destabilizzanti» [31] , afferma d’altro canto Eisenman, che sono soggetti a diverse interpretazioni e che presentano continui rimandi ad altri scritti, di qualsiasi natura. Questa metafora rafforza ulteriormente il collegamento con il mondo filosofico-letterario da cui scaturisce il Decostruttivismo con cui si designa un gruppo di opere architettoniche in cui riemergono «impurità represse» [32] e con cui si riscattano tutti coloro che hanno tentato nel passato, anche quello più remoto, di parlare una nuova lingua architettonica, talvolta senza essere compresi. [33]

Il progetto del Museo Ebraico è noto con il nome Between the lines (Tra le righe) rievocando, presumibilmente, anche il between eisenmaniano. Peter Eisenman, che a partire dagli anni Ottanta si avvicina alle teorie decostruzioniste al fine di favorire la destabilizzazione dell’architettura, definisce il between «una giustapposizione di strutture», al fine di non far prevalere l’una sull’ altra; parla di «forme interstiziali intermedie che ammettono l’irrazionale nel razionale, così come il presunto brutto nel presunto bello i cui rispettivi confini non sono più ormai così distinti e universalmente riconoscibili». [34] Questa mescolanza di elementi eterogenei è possibile riscontrarla anche nell’operato di Libeskind, il quale, ad esempio, crea “armonici contrasti” mediante l’accostamento di strutture stilisticamente diverse, come accade per il Jüdisches Museum, una struttura contemporanea e liquida unita ad una settecentesca e dal tradizionale impianto scatolare. [35] Quel che banalmente può essere definito un contrasto, Libeskind lo definisce armonia, esplicitando questo concetto con un’immagine musicale: nell’insieme della musica classica vengono posti disparati brani che presentano molteplici differenze l’uno dall’altro, eppure convivono sotto lo stesso nome e la loro esecuzione in successione non produce nessun contrasto stridente. Il riferimento al mondo musicale è frequente nelle disquisizioni sull’operato di Libeskind, poiché lui non ha mai abbandonato questa grande passione coltivata sin da bambino e poi solo apparentemente accantonata per quella grafica e quindi architettonica. Lo stesso titolo scelto per il progetto ha letteralmente uno sfondo musicale: le linee non sono solo quelle di pensiero, nonché quelle tracciate e intersecantesi per creare i vuoti  interni alla struttura museale, ma sono anche e soprattutto le linee del pentagramma sui cui presentò in maniera grafica e descrittiva il suo progetto per sottoporlo alla commissione. Il rapporto con la musica è stato anche molto sofferto, dal momento che non ha avuto modo di suonare il pianoforte perché questo strumento musicale poteva destare sospetti. Fu costretto ad accontentarsi di una fisarmonica, strumento suonato per la musica folk e quindi non oggetto di rivalse antisemite, con cui, tuttavia, riuscì a vincere anche un prestigioso premio. Anche quando decise di dedicare il suo tempo al disegno, la musica continuò a svolgere un ruolo importante e ciò è confermato dal frequente riferimento alla pittura di Kandinskij (influenzato, a sua volta da Arnold Schönberg [36] ), il cui astrattismo è ispirato all’arte dei suoni, genere artistico non regolato dal principio di mimesis a cui la cultura accademica, invece, costringe a far riferimento nell’ambito figurativo. Libeskind è sempre stato un antiaccademico, rigettando, sin dal periodo di formazione, il confronto con l’angolo retto, con il «problema dei nove quadrati» e con la geometria euclidea. [37] «(Libeskind) non utilizza  il mondo reazionario dei morfemi classici, quanto le immagini appartenenti alle esperienze avanguardiste del Novecento» [38] , afferma Antonello Marotta, e il Museo Ebraico ne è la dimostrazione. Motivo per cui è stato necessario attendere dieci anni prima di vedere ultimata la struttura, correndo continuamente il rischio di dover abbandonare il progetto, dovendo spesso rettificarlo, come accadde con le pareti esterne progettate inizialmente inclinate. Pochi confidavano nella sua opera così eccentrica e quasi utopica, tanto da suscitare scetticismo anche nei più grandi architetti del Novecento, come Philip Johnson che rimase sbalordito quando Libeskind gli mostrò il progetto. Eppure Daniel Libeskind ce l’ha fatta, resistendo tenacemente alle critiche, come quella pubblicata dalla redazione della celebre rivista Casabella, nel cui numero del novembre 1989 si può leggere un articolo in cui si annuncia il vincitore del concorso, ma si esalta il secondo classificato, Walter Nobel, di cui viene presentato il progetto. [39] Ricordo inoltre che il museo venne aperto al pubblico nel 1999 (anno in cui Libeskind vinse il Premio di Architettura Tedesca), registrando un numero cospicuo di visite ancor prima che al suo interno venisse allestita la collezione. Questo evento suscitò altre polemiche, poiché dopo l’inaugurazione ufficiale nel settembre 2001 (data alquanto significativa per Libeskind a causa del crollo delle Torri Gemelle) [40] , si diffuse l’opinione che il museo, opera d’arte tridimensionale, dovesse rimanere vuoto, poiché l’impatto emotivo sarebbe stato maggiore. Il senso di vuoto, nichilismo e assenza sarebbe stato ancor più forte; la visita sarebbe stata ancor più emozionante. Del resto, come afferma non a torto Bruno Zevi, questa struttura è «Espressionismo a scala metropolitana, non più pago di urlare, deciso a rievocare l’orrore in modo gelido, tagliente, spietato». [41] Il riferimento all’Espressionismo ben sintetizza l’operato di Libeskind e degli artisti ebrei in genere, poiché tale corrente artistica, mediante figure spesso inquietanti e mostruose – immagini deformate e dunque non riscontrabili nella realtà perché non realizzate con il principio classico della mimesi - è volta ad esternare i sentimenti dell’artista. Libeskind, del resto, non progetta architetture che scardinano i principi classici al fine di esprimere al meglio il suo pensiero o, come in questo caso, il suo dolore? Il collegamento con l’Espressionismo diventa ancor più calzante anche dal punto di vista linguistico e terminologico poiché il gruppo tedesco espressionista, ispirandosi alla filosofia di Nietzsche, scelse il nome Die Brücke, ossia Il Ponte, mentre Kelsey Bankert nel descrivere «l’architettura del trauma», utilizza l’immagine del ponte per indicare la funzione di tale edificio: « a bridge between the memory of tragedy and the future of traumatized people». [42]

Con tale riferimento si ribadisce l’anticlassicismo liquido alla base della propria architettura, e soprattutto di questa architettura, o «anarchitettura» [43] , che può essere inserita nell’insieme degli anti-monumenti realizzati nella Berlino post-riunificazione. La scelta di rigettare la monumentalità e i principi classici che la sottendono è simbolica, poiché la monumentalità è stata portata all’esasperazione dal nazismo e ciò ha sollecitato gli artisti chiamati a commemorare le vittime dell’Olocausto a scegliere uno stile antitetico rispetto a quello utilizzato per esaltare l’ideologia nazista. A Kassel, ad esempio, con “l’anti-fontana” costruita nella piazza antistante al municipio si è letteralmente rovesciato il monumento, dal momento che l’antica fontana in stile neogotico fatta erigere da un ebreo e distrutta alla fine degli anni Trenta è stata sì ricostruita, ma al contrario, non facendo zampillare l’acqua verso l’alto, ma facendola convergere nel terreno. È proprio con il riproporre la sua assenza, piuttosto che nel restituirle la sua originaria forma, che talvolta si può rendere più vivo il ricordo. Il concetto di assenza e vuoto è riproposto, tornando a Berlino, anche da Micha Ullman a Bebelplatz (fig. 14) dove nel 1933 furono bruciati ventimila libri dai nazisti, il cui ricordo è stato materializzato da una finestra aperta sul manto stradale che fa scorgere nel sottosuolo una biblioteca vuota. Non si può allora non fare un collegamento con i voids di Libeskind progettati per il Dipartimento Ebraico del Museo di Berlino poiché  il messaggio che i due architetti in questione vogliono comunicare è identico: ricordare anche se materialmente non è rimasto nulla.

 

«Only the spirit of the books and the people remains; they meet each other in the heavens».

 

Dopo la costruzione del Museo Ebraico, Libeskind ha avuto grande notorietà, divenendo subito un’Archistar, e oggi molti paesi nel mondo gli chiedono di lasciare la sua firma sul proprio territorio mediante una delle sue meravigliose costruzioni, costringendolo così a fare continui spostamenti. Da buon ebreo, Libeskind è un “architetto nomade”, costretto più volte, sin da quando era bambino, ad emigrare in cerca di un luogo in cui non fosse costretto quotidianamente a confrontarsi con il “diverso”. Gli Stati Uniti, e nello specifico il quartiere del Bronx, gli hanno concesso la serenità e soprattutto la libertà, simboleggiata dalla statua più nota al mondo, nonché la prima immagine apparsa dinanzi ai suoi occhi nel momento dello sbarco. Dopo la parentesi americana però Libeskind ha ripreso a viaggiare per specializzazioni, per la  carriera didattica e ora per la costruzione di edifici: è ancora, e forse ancor più di prima, un apolide, ma adesso, almeno, conduce la sua vita all’insegna del nomadismo con uno spirito diverso.

 

 

 

CRONOLOGIA


Pubblicazione del concorso:

1988

Presentazione progetto per il concorso:

giugno 1989

Posa della prima pietra:

9 novembre 1992

Periodo di costruzione:

1993-1999

Data di completamento:

22 gennaio 1999

Apertura al pubblico:

1999 (Il Museo era privo della collezione)

Riconoscimenti:

nel 1999 Daniel Libeskind riceve il Premio Tedesco per l'Architettura

Allestimento della collezione:

1999-2001

Inaugurazione ufficiale:

13 settembre 2001





NOTE

[1] M. NOVAK, Architetture liquide nel ciberspazio, in Cyberspace. I primi passi nella realtà virtuale, Padova, F. Muzzio, 1993, p. 257

[2] Fabio Colonnese, nell’affrontare la tematica del labirinto, afferma che la tipologia dei labirinti a rete ricorda i modelli ipertestuali del World Wide Web, anche perché essi si confanno piuttosto alle liquide, mutevoli e pulsanti architetture virtuali, che a quelle statiche del mondo reale.

[3] Per approfondimenti rimando al seguente testo: N. SALA, G. CAPPELLATO, Architetture della complessità: la geometria frattale tra arte, architettura e territorio, Milano, F. Angeli, 2004

[4] A. MAROTTA, Daniel Libeskind, Roma, Edilstampa, 2007, p. 25

[5] M. NOVAK 1993, p. 261

[6] V. VANNUCCINI, F. PEDRAZZI, Piccolo viaggio nell’anima tedesca, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 65

[7] K. BANKERT, The Architecture of Trauma: Daniel Libeskind in New York City and Berlin, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2013.

Partendo da studi di natura psicanalitica effettuati su comunità che hanno subito traumi collettivi, la studiosa ha preso in esame due strutture costruite da Libeskind con lo stesso coinvolgimento emotivo: il Museo Ebraico a Berlino e il progetto Ground Zero per ridare vita al quartiere in cui sorgevano le Twins Towers. Pur con le dovute differenze, i due progetti sono molto affini soprattutto per il concetto di dramma, associato a quello di assenza, materializzato attraverso il vuoto architettonico. Sei più un settimo, il Voided void, sono gli spazi impenetrabili e più significativi di tutta la struttura architettonica berlinese, così come la voragine di ventuno metri di profondità a New York, dove Libeskind è sceso e ha scorto il muro di contenimento del fiume Hudson, è il nucleo centrale del sofisticato progetto newyorkese. Quel muro imponente, che se fosse crollato nel giorno dell’attentato avrebbe causato l’inondazione dell’intera città, nonché unica testimonianza materiale di quel complesso architettonico andato in frantumi, è il fulcro del progetto, come del resto i voids a Berlino, in cui si materializza l’assenza delle numerosissime vittime. Una delle maggiori differenze è data dal tempo trascorso tra l’evento tragico e la commemorazione architettonica: negli Stati Uniti ci si è immediatamente attivati per non dimenticare e per superare il dramma, in Germania, invece, è stato necessario attendere numerosi e lunghi anni per le ragioni politiche di cui si è fatto cenno sopra, nonché per il semplice fatto che gli artefici del “tragico sacrificio” siano stati i tedeschi stessi.

[8] S. CRICHTON, D. LIBESKIND, Breaking Ground. Un’avventura tra architettura e vita, New York, Sperling & Kupfer, 2005, p. 87. In queste pagine dedicate all’elencazione delle fonti di ispirazione, Libeskind si sofferma sui sei nomi che hanno costituito i  sei vertici della stella di David e nello specificare le coppie di nomi utilizza il verbo «sposare» per indicare il collegamento dei rispettivi indirizzi. Le personalità enunciate da Libeskind sono particolarmente significative non solo perché ognuna di esse ha dato un contributo alla cultura tedesca, ma anche perché questi personaggi hanno trascorso esistenze particolarmente contrastate, caratterizzate da esili o da suicidi, come nel caso di Paul Celan che dopo continui spostamenti di città in città, si gettò nella Senna all’età di cinquant’anni. Per un approfondimento sulle fonti è consigliabile anche il volume di L. SACCHI, Daniel Libeskind: Museo Ebraico, Berlino, Torino, Testo & Immagine, 1998, pp. 50-51. Altri riferimenti sono inclusi nel saggio di D. LIBESKIND, Trauma, in Image and remembrance: representation and the Holocaust, a cura di S. Hornstein e F. Jacobowitz, Bloomington, Indiana University Press, 2003, pp. 43-59

[9] L. SACCHI 1998, p. 59

[10] W. BENJAMIN, Strada a senso unico, a cura di Giulio SCHIAVONI , Torino, Einaudi, 2006, p. IX. L’Arianna che permette di uscire dal labirinto benjaminiano è Asja Lacis, donna di cui si invaghì l’autore del testo, e a cui è intitolata una strada, quella aperta nel cuore di Benjamin. La donna viene definita a grandi lettere «ingegnere», utilizzando un termine che, come ricorda Schiavoni, era molto caro ai Costruttivisti, esponenti di un movimento artistico d’avanguardia russo che, ispirandosi al Futurismo e al Cubismo (movimenti che possono essere ricollegati al Decostruttivismo sia per il carattere antiaccademico, che per il concetto di scomposizione), vengono richiamati in vita dai Decostruttivisti, come afferma Mark Wigley, curatore, insieme a Philip Johnson, della mostra sul Decostruttivismo organizzata al MoMA nel 1988.

[11] Jacques Derrida è un filosofo del Novecento che ha incentrato gran parte del suo pensiero sulla teoria della decostruzione applicata inizialmente al solo testo letterario in cui si possono riscontrare svariati livelli interpretativi grazie al processo di divisione dell’intero testo in numerose piccole parti. Questo discorso è stato poi da lui stesso esteso all’architettura, concepita al pari della letteratura, quale espressione metaforica di numerosi messaggi. Si è passati dall’uso del termine “decostruzione” a quello di “decostruzionismo” per arrivare infine nel 1988, in occasione di una celebre mostra al MoMA  (Deconstructivist Architecture), a parlare di “decostruttivismo”, riprendendo terminologicamente gli altri movimenti  artistico-architettonici del Novecento. Derrida ha traslato le sue idee decostruzioniste dall’ambito letterario a quello architettonico grazie all’aiuto di due noti architetti: Bernard Tschumi e Peter Eisenman. Quest’ultimo, maestro di Daniel Libeskind presso la Cooper Union School, ha ulteriormente approfondito tale concetto, al fine di poter rendere la sua architettura maggiormente conforme ai precetti artistici della cultura ebraica a cui appartiene, mediante una copiosa produzione di trattati nonché di strutture che si avvalgono di tale scomposizione.

Per ulteriori approfondimenti rimando al testo di C. ROSETI, La decostruzione e il decostruttivismo: pensiero e forma dell’architettura, Roma, Gangemi, 1997.

[12] L’Accademia del Jüdisches Museum, costruita lì dove sorgeva il mercato dei fiori, è costituita da tre corpi di fabbrica contenenti un auditorium, una biblioteca con sala lettura e l’ingresso, il cubo inclinato di cui si è parlato sopra. Al fine di sottolineare l’uso di tale costruzione, sull’ingresso sono state riproposte due lettere dell’alfabeto ebraico, Alef e Bet, in forma di lucernari. Anche il materiale di rivestimento ha un significato simbolico, il che permette di collegare tale struttura al Museo Ebraico. Sulla parete bianca alla sinistra del varco di accesso vi è la scritta tradotta in varie lingue, «Hear the truth, whoever speaks it».

[13] B. ZEVI, Libeskind, in L’architettura: cronache e storia, n. 7, luglio- agosto 1994

[14] Tale schema compositivo ritengo che sia riproposto anche nel giardino che circonda l’edificio di Libeskind, poiché vi sono due lunghe lastre di cemento intersecantesi su cui sono rispettivamente riproposte una linea dritta e una spezzata in dieci segmenti. Tuttavia non si tratta di una rappresentazione tridimensionale del progetto poiché, in tal caso, la linea dritta e tendente ad infinito avrebbe dovuto intersecare tutti i segmenti. Pertanto gli architetti hanno, probabilmente, solo fatto un richiamo alle linee direttrici e alle linee di pensiero del progetto, senza riprodurre fedelmente, forse anche per ragioni di spazio, l’intersezione delle linee.

[15] M. ZAMBELLI, Museo Ebraico a Berlino, in Sopralluoghi, Arch’it, www.architettura.it/sopralluoghi, 24 settembre 2000

[16] Dall’alto è possibile anche vedere i due lucernari paralleli che indicano una delle linee direttrici (la linea rossa evidenziata in fig. 04) e che, pertanto, illuminano i vuoti interni, creando un contrasto luminoso tra gli spazi espositivi bui e illuminati da luci artificiali e quelli vuoti e inaccessibili particolarmente luminosi.

[17] Le soluzioni architettoniche citate sono tipiche di una struttura edificata in base ad un «codice anticlassico» che viene ben illustrato da Bruno Zevi in un saggio del 1973. Nella decade successiva, quando incominciano ad essere realizzati da molte future Archistar progetti decostruttivisti, sembra che i suoi suggerimenti vengano presi alla lettera. Anche Bruno Zevi parla di linguaggio, di una lingua architettonica ormai morta, com’è quella della classicità, che esige un accurato studio dal momento che, deviati dalle Beaux Arts, non ci si è resi conto che persino nel luogo sacro della classicità, qual è l’Acropoli ateniese, vi sono delle imprecisioni, delle lievi asimmetrie, come nel caso dell’Eretteo. Per approfondimenti rimando al saggio di B. ZEVI, Il linguaggio moderno dell’architettura: guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi, 1973.

[18] I. PEZZINI, Architetture sensibili. Il Museo Ebraico e il Monumento alle Vittime dell’Olocausto a Berlino, in EǀC, Rivista on-line dell’ AISS Associazione Italiana Studi Semiotici, www.ec-aiss.it, 16 ottobre 2009

[19] F. COLONNESE, Il labirinto e l’architetto, Roma, Kappa, 2006, p. 297

[20] M. ZAMBELLI 2000

[21] D. LIBESKIND, Jewish Museum Berlin, Berlino, G+A Arts International, 2000, p. 41

[22] I. PEZZINI 2009

[23] M. ZAMBELLI 2000

[24] S. CRICHTON, D. LIBESKIND 2005, p. 53

[25] M. BIRAGHI, A. FARLENGA, Architettura del Novecento. Teorie, scuole, eventi, Torino, Einaudi, 2012, p. 193

[26] H. ALDERSEY – WILLIAMS, Favole periodiche. La vita avventurosa degli elementi chimici, Milano, Mondolibri, 2011

[27] Molteplici dibattitti sono stati effettuati sulle planimetrie dei numerosi campi di concentramento, alcuni dei quali, come quello di Treblinka, sembrano essere stati allestiti in lotti di forma trapezoidale. Facendo ricorso a fotografie aeree e alle confuse ed imprecise testimonianze dei deportati sopravvissuti, si è cercato di ricostruire quegli spazi della morte smantellati, come insegna la storia, prima dell’arrivo del nemico. Nonostante i livellamenti e le piantagioni di lupini innestate su quei lotti sterminati, qualche traccia risulta essere ancora visibile e sulla base di tali dati si continua a ricostruire i profili tragici di quei lager.

[28] Molteplici sono le affinità che accomunano i due musei, tanto nell’impianto architettonico destrutturato, quanto nel simbolismo sotteso. Il museo ad Osnabrück è stato realizzato per commemorare il pittore ebreo, non particolarmente noto ai più, Felix Nussbaum. Ennesima vittima dell’odio della razza ariana, dopo continui esili venne internato con la moglie nel campo di concentramento di Auschwitz da cui non fece più ritorno. La sua produzione pittorica è costituita prevalentemente da autoritratti realizzati durante le rocambolesche fughe in spazi angusti, spazi che Libeskind ha voluto ricreare nel corpo centrale della struttura larga solo due metri. Anche qui, ai fini dell’immedesimazione, si ricorre ad espedienti che producono un forte senso di claustrofobia, qui reso ancor più evidente dalla difficoltà di trovare l’uscita (a Berlino, al contrario, non si riesce ad individuare l’ingresso, come se fosse - e forse lo è stato -  difficile avere un approccio con la storia ebraica). Per scoprire altri riferimenti simbolici cito articoli pubblicati su riviste di settore: M. DE MICHELIS, Museo Felix Nussbaum, Osnabrück, Germania, in Domus n. 809, novembre 1998, pp. 20-27; D. LIBESKIND, The Felix Nussbaum, Osnabrück, Germany, in A+U: Architecture and Urbanism, n. 12, dicembre 1998, pp. 82-101; C. WEGSCHEIDER, Museo Felix Nussbaum a Osnabrück, in L’industria delle costruzioni, n. 328, febbraio 1999, pp. 6-17

[29] D. LIBESKIND, Tra metodo, idea e desiderio, in Domus 731, 1991, pp. 17-28

[30] S. CRICHTON, D. LIBESKIND 2005, p. 89

[31] C. ROSETI 1997

[32] M. BIRAGHI, A. FARLENGA 2012, p. 283. Questa espressione è stata pronunciata da Mark Wigley in occasione della presentazione della mostra Deconstructivist Architecture, al fine di evidenziare il collegamento con il movimento Costruttivista che è stato cancellato dal Realismo storico di Stalin, il quale, al pari degli altri dittatori, ha voluto ripristinare il classicismo per dare di sé e del proprio operato un’immagine aurea. Come se fossero degli psicanalisti, gli architetti degli anni Ottanta del Novecento hanno rimosso i numerosissimi tabù imposti alle discipline artistiche da lunga data.

[33] Mi ricollego al saggio di Bruno Zevi sopra citato. Egli individua anomalie non solo nel mondo classico greco-romano, ma, conseguentemente, anche nel periodo rinascimentale che al classico si ispira, in cui ravvisa la presenza di architetti che pur essendo classificati tra i maggiori esponenti del Rinascimento italiano, in realtà sono talvolta anticlassici. Esempio eclatante è dato dalla personalità di Michelangiolo, il quale con il progetto per la piazza del Campidoglio, o con quello per le Mura di fortificazione della città di Firenze, scardina i principi classici di proporzione, simmetria e modulazione. A seguire si citano Borromini, Palladio, definito «non inquadrabile» anche da Giulio Carlo Argan, fino ad arrivare, mediante un salto cronologico, a Le Corbusier che con l’elaborazione dei Cinque Punti  della nuova Architettura va alla ricerca della libertà, parola d’ordine dell’architettura anticlassica, e a Wright, le cui strutture sono realizzate con «libertà democratica», quella repressa dalla «dittatura della linea retta».

[34] C. ROSETI 1997, p. 126

[35] L’accostamento di edifici stilisticamente diversi e appartenenti ad epoche differenti è spesso riscontrabile, talvolta per puro caso, in svariati progetti di Libeskind. Ad esempio ciò è evidente nel Felix Nussbaum Museum che sorge accanto ad un ponte del XVII secolo che Libeskind ha valorizzato ed integrato nel progetto, rivestendolo con nuovi materiali e utilizzandolo come struttura d’accesso alla nuova costruzione.

[36] Arnold Schönberg ha dato molti contributi alla cultura artistica del primo Novecento, non solo nell’ambito musicale, ma anche figurativo, con la partecipazione al gruppo Der Blau Reiter, di cui, come ricordato sopra, Kandinskij era uno dei maggiori esponenti. Fu il promotore della dodecafonia e dell’atonalismo che affondano le proprie radici nell’Espressionismo. Con tale «emancipazione della dissonanza» - come la definisce Zevi nel  saggio Ebraismo e architettura – rifiuta il rapporto gerarchico delle note e la loro successione temporale.

[37] Libeskind nei suoi progetti fa riferimento non (o comunque non esclusivamente) alla geometria euclidea, ma a quella frattale, una geometria che si occupa dello studio delle forme presenti in natura. In essa vige la casualità, il disordine, la complessità, tutto ciò che invece viene represso nelle strutture classiche che sono realizzate all’insegna dello studio, dell’ordine e di una semplicità strutturale modulare. L’arte, che sin dalle origini si è spesso ispirata alla natura, di conseguenza riprende le forme studiate dalla geometria frattale, come dimostrano le incisioni rupestri o i capitelli egizi e, facendo un grande salto cronologico, anche alcuni progetti, in cui vige il principio dell’autosomiglianza, realizzati da Michelangelo e dal Palladio. Gli architetti della contemporaneità, grazie anche all’uso di calcolatori elettronici sofisticati, si cimentano nella progettazione di edifici complessi che nella loro inverosimiglianza si ispirano alle forme della natura, basti pensare al fiore architettonico progettato da Frank O. Gehry, quale è il Guggenheim Museum a Bilbao. Si veda N.SALA, G. CAPPELLATO 2004.

[38] A. MAROTTA 2007, p. 21

[39] L’ampliamento del Berlin-Museum, in Casabella n. 562, novembre 1989, pp.31-32

[40] Libeskind, pur essendo nato in Polonia (1946), si sente americano, poiché dopo numerosi spostamenti narrati nella sua autobiografia, ha trovato finalmente riparo negli Stati Uniti. In quanto americano, ha vissuto un nuovo dramma collettivo, quello dovuto all’attentato terroristico del 2001 che ha causato numerosissime vittime. Anche in questo caso il forte coinvolgimento emotivo gli ha permesso di vincere un nuovo bando di concorso, quello per Ground Zero, in cui ha ripreso e adattato a nuove circostanze, anche se sempre drammatiche, i concetti chiave alla base del progetto berlinese.

[41] B. ZEVI, Ebraismo e architettura, Firenze, Giuntina, 1993, p. 81

[42] K. BANKERT 2013, p. 9

[43] C. ROSETI 1997, p. 44




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Bruno ZEVI, Il linguaggio moderno dell’architettura: guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi, 1973

ZEVI 1993 EBRAISMO
ID., Ebraismo e architettura, Firenze, Giuntina, 1993



Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA



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Fig. 1
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999. Particolare di una delle numerose facciate dell'edificio su cui compaiono dei "tagli", finestre lunghe e strette che asimmetricamente sono state aperte sulla superficie di zinco riproponendo un disegno andato in frantumi

Fig. 2
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999

Fig. 3
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Veduta aerea che svela il profilo zigzagante della stella di David destrutturata. Accanto a quel che i berlinesi definiscono "fulmine" architettonico, vi sono da un lato la Torre dell'Olocausto e il Giardino dell'Esilio, dall'altro il Kollegienhaus con la corte vetrata realizzata sempre da Daniel Libeskind nel 2007

Fig. 4
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Pianta del museo. In blu e in rosso le due linee di pensiero, nonché quelle strutturali su cui si basa l'intero progetto

Fig. 5
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Particolare delle aperture

Fig. 6
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Travi interne in cemento armato

Fig. 7
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Confronto stilistico tra il Museo Ebraico di Berlino e il Kollegienhaus.

Fig. 8
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Particolare dell'intersezione degli Assi sotterranei

Fig. 9
DANIEL LIBESKIND, Museo Ebraico, Berlino, Germania, 1989-1999
Giardino dell'Esilio o Giardino E.T.A. Hoffman. È possibile percepire la pendenza del piano di calpestio

Fig. 10
PETER EISENMAN, Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa, Berlino, Germania, 1998-2005

Fig. 11
MENASHE KADISHMAN, Shalechet (Foglie cadute), Memory Void.
Si notino i due lucernari, visibili anche dalla veduta aerea, che illuminano il vuoto e che ripropongono una delle due linee direttrici

Fig. 12
DANIEL LIBESKIND, Felix Nussbaum Museum, Osnabrück, Germania, 1994-1998. Veduta aerea dei tre corpi di fabbrica

Fig. 13
DANIEL LIBESKIND, Felix Nussbaum Museum, Osnabrück, Germania, 1994-1998. Particolare

Fig. 14
MICHA ULLMAN, Bibliothek, Berlino, Germania, 1995




	

Foto cortesia Lucia Signore

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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