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Faustina Maratti e i sonetti delle mulieres illustres : tra la virtus di Livio e la teoria pittorica di Bellori *  

Guido Galetto
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 12 Febbraio 2019, n. 862
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1) Prologo.

Negli studi dedicati a Faustina Maratti1 (Roma 1679 ca.-1745), l’attenzione si è concentrata sulle vicende della sua travagliata vita e sulle sue poesie di tema intimo ed autobiografico. Il presente saggio intende invece analizzare dieci sonetti della poetessa dedicati a mulieres illustres dell’antica Roma, dei quali solo quello su Lucrezia ed in parte quello su Tuzia sono stati oggetto di studi approfonditi: il primo per via del legame con l’episodio del tentato rapimento di Faustina, il secondo perché composto come ἔκφρασις del quadro del padre Carlo Maratti2; agli altri sonetti sono stati dedicati solo veloci e generici cenni3. Sebbene siano stati scritti da Faustina in un lungo arco di tempo, questi dieci sonetti furono da lei concepiti come un ciclo unitario, lo studio nasce pertanto dalla necessità di voler restituire a tale gruppo la loro coerenza d’insieme, trattandoli come una serie unitaria. Ciò ha permesso di comprendere come Faustina abbia voluto creare un ciclo letterario ad imitazione di quello dipinto dal padre, istaurando un rapporto di imitatio-aemulatio con il suo stesso padre, mentre l’analisi dei singoli sonetti ha evidenziato l’ampiezza e la profondità degli insegnamenti che attraverso di essi Faustina volle impartire, nonché la sua padronanza del pensiero di Bellori sui rapporti tra arte e letteratura. Questo ciclo poetico, pertanto, si è rivelato assai interessante per approfondire l’indicazione di Romano Cervone sull’importanza che la cultura classicista dell’ambiente paterno ebbe nella formazione antiquaria di Faustina4.

2) Vita.

Prima di affrontare i sonetti è opportuno riportare alcune informazioni sulla poetessa, essenziali per una loro corretta valutazione. Faustina era figlia del pittore Carlo Maratti (Camerano 1625 - Roma 1713), che alla morte di Bernini era divenuto l’artista più famoso e ricercato di tutta Europa. Egli era strettamente legato al celebre antiquario Giovan Pietro Bellori (tanto che Rudolph lo definisce una sorta di «erudito fratello maggiore» per il pittore)5, grazie al quale Carlo venne in contatto con i circoli eruditi dell’epoca, compreso quello della regina Cristina di Svezia (di cui Bellori era il bibliotecario). Maratti voleva un gran bene a questa sua unica figlia a cui aveva dato il nome della propria madre e fece sì che ricevesse un’educazione di alto livello, che comprendeva: il disegno e i principi della pittura (impartitile dal padre stesso), il canto, la danza, la musica (Faustina sapeva suonare il clavicembalo), la lingua spagnola e soprattutto la poesia, di cui ebbe come maestro Alessandro Guidi. La costante presenza in casa del padre di eruditi come Bellori le giovò, permettendole fin da giovane di venire a contatto con un ambiente culturale vivo e fertile6. Per Giorgetti il merito della poesia di Faustina consiste nel non essere frivola, né artificiosa, poiché nata dalla sua diretta esperienza. Egli infatti loda il suo stile poetico, in quanto nei suoi componimenti traspaiono le sue gioie e sofferenze, con «un candore ed un accento di sincerità notevolissimi»7. Nelle sue opere possiamo trovare influssi della poesia di Petrarca, derivati dagli insegnamenti del Guidi, ma anche una buona conoscenza degli autori antichi, di quelli rinascimentali, come Poliziano8, e dei poeti e delle poetesse del Cinquecento, come Bembo, Giovanni della Casa, Tansillo, la Stampa, la Gambara o Vittoria Colonna. Da essi riprese alcuni spunti neoplatonici, anche se nelle sue poesie il neoplatonismo è meno marcato rispetto ai sonetti del marito9.

Il 29 maggio1703 il giovane Duca Giovangiorgio Sforza Cesarini, innamorato di Faustina, tentò di rapirla mentre lei si stava recando a messa con la madre e tre servitori. La Maratti si oppose con forza, riuscendo a divincolarsi dagli assalitori e riportando una ferita alla testa10. La notizia sconvolse il padre che chiese l’aiuto dei suoi più potenti protettori: il cardinale Francesco Barberini ed il papa Clemente XI Albani. Il Papa accolse le sue istanze decretando nei confronti dello Sforza Cesarini la condanna a morte per decapitazione e la confisca dei beni e, dal momento che egli era fuggito dai territori dello Stato Pontificio, mise una taglia su di lui. Sebbene iniziassero a circolare alcune voci non lusinghiere sul conto di Faustina, che pretendevano un suo coinvolgimento sentimentale con lo Sforza Cesarini11, negli ambienti colti frequentati dal padre lei divenne un vero e proprio exemplum virtutis (soprattutto di pudicizia) e fu vista alla stregua di varie eroine romane12. Giampietro Zanotti, che divenne uno degli amici più fidati della Maratti13, la lodava scrivendo che la sua bellezza eguagliava quella della spartana Elena, ma, a differenza della moglie di Menelao, Faustina aggiungeva quella «Virtù che sempre a beltà pregio accrebbe», tanto che se fosse stata rapita lei al posto di Elena, avrebbe acceso e fatto risplendere in Asia un «sol d’onestate»14. Anche altri poeti contemporanei la lodavano come «austero miracol di bellezza e d’onestate».

Grazie al padre e a Guidi, venne in contatto con gli esponenti dell’Accademia dell’Arcadia15, di cui padre e figlia divennero membri il 2 maggio 1704: lei con il nome di Aglauro (talvolta Aglaura) Cidonia16 e lui di Disfilo Coriteo.

3) I sonetti dedicati a mulieres illustres dell’antichità romana.

Ognuno dei dieci sonetti qui indagati, tratta di un celebre personaggio femminile della storia romana. La loro composizione impegnò la poetessa per diversi anni; il terminus ante quem per quelli di Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia è il 1716, quando compaiono per la prima volta nel secondo volume delle Rime degli Arcadi (Roma, 1716). Fernando Antonio Ghedini, un membro dell’Arcadia, in un sonetto dell’inizio del 1716, scriveva che Faustina aveva superato in virtù le illustri latine che era allora intenta a cantare17, ulteriore indizio che a quella data questi quattro sonetti circolavano nell’ambiente arcade. I tre dedicati a Virginia, Claudia ed Arria, accompagnati dai quattro precedenti, furono editi nella raccolta curata da Bartolomeo Lippi (Rime scelte de’ poeti illustri de’ nostri tempi, Lucca 1719). I due su Cornelia ed Ortensia furono pubblicati nel decimo volume delle Rime degli Arcadi (Roma, 1747), due anni dopo la morte della Maratti. L’ultimo, quello dedicato a Clelia, è invece rimasto inedito, fino a quando Cracolici non l’ha riportato per intero nel suo articolo del 201818.

L’ultimo sonetto sopra citato si trova in un libretto, situato nell’Archivio Zappi, che reca il titolo Scritti autografi e Stampati di o relativi a Faustina Maratti Zappi apposto da una mano recenziore19. Nel libricino Faustina, di propria mano, trascrive tutti e dieci questi sonetti uno dopo l’altro, con la numerazione da 1 a 10, e ciascuno è intitolato con il nome dell’eroina romana lì cantata. L’ordine in cui Aglauro li ha qui disposti è il seguente: Veturia, Porzia, Lucrezia, Tuzia, Virginia, Claudia, Arria, Ortensia, Cornelia, Clelia20. Questo libricino conferma pertanto il fatto che, anche se all’inizio Faustina non avesse pensato di farne una serie unitaria (il sonetto di Tuzia forse è precedente agli altri), da un certo momento in poi la poetessa sicuramente pensò di fare di questi sonetti un gruppo compatto ed unitario, tanto da curare nel libretto persino il loro ordine21.

Tra il ’600 ed il ’700 queste tematiche furono spesso affrontate nell’arte22 e nel teatro. I tragediografi, per riportare il teatro agli alti ideali di un tempo, fecero infatti delle virtù dei personaggi antichi, soprattutto di quelli romani, il soggetto prediletto delle loro rappresentazioni23. Era poi di moda collezionare opere antiche (o imitazioni moderne) rappresentanti illustri personaggi dell’antichità spesso suddivisi per categorie (i filosofi, i poeti, gli oratori, ecc.), creando gallerie di viri illustres che esemplificavano specifiche virtù24. Bellori stesso si era inserito in questo filone di studi con un trattato25 dedicato alla regina Cristina di Svezia, che possedeva numerose gemme e monete antiche di homines illustri, molte delle quali sono lì riprodotte26. Si tratta infatti di una raccolta di incisioni di celebri personaggi (suddivisi in tre sfere: filosofi, poeti, retori e oratori) riprese da opere antiche (soprattutto cammei e monete). Bellori per il volume tenne a mente tre precedenti di analogo genere: le Imagines di Fulvio Orsini; il volume (formato da tre libri) di Pirro Ligorio27; l’ Iconografia cioè disegni d’Imagini de’ famosissimi Monarchi, Regi, Filosofi, Poeti e Oratori dell’Antichità, di Giovanni Angelo Canini, pubblicata postuma dal fratello Marcantonio nel 1669.

Sotto Clemente XI, per volere del papa, il rapporto tra l’Accademia di San Luca e quella dell’Arcadia divenne molto stretto, con la conseguenza che diversi pittori (tra cui il padre di Faustina) divennero membri dell’Arcadia, così come letterati di quest’ultima vennero accolti nell’Accademia di San Luca. Nel 1702, il Papa, con l’appoggio di Carlo Maratti, principe dell’Accademia di San Luca, e Giuseppe Ghezzi (segretario dell’Accademia di San Luca dal 1674 al 1716), decise di dare alla tradizione dei concorsi accademici seicenteschi dell’Accademia di San Luca, un volto più solenne, istituendo nel 1702 i concorsi Clementini, alla cui cerimonia di premiazione, in Campidoglio, partecipavano anche i letterati dell’Arcadia, recitando orazioni e poesie28. Il tema delle prime due classi di concorso di pittura e scultura, e delle orazioni e poesie recitate dagli arcadi durante la cerimonia di premiazione, era legato alla celebrazione della virtus, esemplificata da grandi personaggi del passato29, ed è interessante osservare che il tema di Lucrezia fu assegnato agli artisti nel concorso del 1709 (Pittura: I classe, Suicidio di Lucrezia; II classe, Tarquinio che violenta Lucrezia. Temi analoghi anche nella I e II classe di scultura)30 ed il tema di Porzia nel concorso del 1710 (Pittura: II classe, Suicidio di Porzia. Scultura: II classe, tema analogo)31, anni abbastanza vicini alla pubblicazione dei sonetti della poetessa dedicati a queste due eroine.

Dalla Vita di Maratti di Bellori apprendiamo che il padre di Faustina, negli anni ’90 del Seicento, aveva ricevuto dal signor Montioni la commissione di dipingere sei quadri con illustri figure femminili a mezzo busto tratte dalla storia antica, che dovevano fungere da exempla di determinate virtù. Bellori ne descrive quattro: una Cleopatra con la perla in mano, una Lucrezia col pugnale in atto di suicidarsi, una Proba Falconia poetessa nell’atto di parlare dei libri di Omero, Virgilio ed Ovidio lì raffigurati, ed una Tuzia vergine vestale col cribro in mano. Di questi quadri a noi restano quello di Cleopatra e quello della vestale Tuzia, a cui si aggiungono i disegni preparatori dei quadri di Lucrezia e di Proba Falconia32.

Nel Settecento, cicli pittorici dedicati a celebri personaggi dell’antichità presentati come exempla virtutis, si diffusero sempre più anche in paesi stranieri, come la Gran Bretagna, proprio grazie ad artisti italiani e Roma giocò un ruolo importante per via delle numerose opere antiche di homines illustres lì presenti. In questo periodo, infatti, gli artisti cercavano di attenersi “filologicamente” all’iconografia di questi personaggi ricavata dalle opere antiche che li rappresentavano o dai volumi, soprattutto quello di Bellori, che contenevano incisioni di opere antiche dove essi erano già disposti in categorie33.

La serie dipinta da Maratti e l’interesse nell’ambiente culturale da lui frequentato verso questi temi, unito al fatto che l’occasione per cui Faustina scrisse il sonetto su Lucrezia, uno dei primi di questo ciclo, fu proprio il quadro di Lucrezia del padre, permette di supporre che l’idea di comporre un ciclo poetico dedicato a eroine romane sia venuta alla poetessa dalla serie pittorica del padre34. Che Faustina usasse l’arte e la letteratura artistica come fonte d’ispirazione è del resto già stato scorto da Romano Cervone nel sonetto Ah, rio velen delle create cose, dove Faustina, per la descrizione dell’Invidia, tiene conto, in parte, delle descrizioni di tale vitium presenti nell’Iconologia di Ripa35.

Se l’idea della serie venne dal padre, per le virtù espresse il modello è letterario. È infatti opportuno ricordare che nel creare questi cicli pittorici, gli artisti si basavano sulle fonti letterarie, in particolar modo sui testi di Livio, Valerio Massimo e Plutarco, letti nei vari volgarizzamenti disponibili all’epoca o negli originali (magari con l’aiuto di qualche erudito), da cui traevano sia la vicenda sia la virtù esemplata da quel personaggio; per esempio Francesco Saverio Baldinucci, nella biografia di Maratti, afferma che Carlo dipinse una seconda Lucrezia per il marchese Niccolò Maria Pallavicini, nella quale si attenne a quanto narrato da Livio36. Anche Faustina in questi sonetti dimostra di avere un’ottima conoscenza dei passi di Livio, Valerio Massimo e degli altri autori antichi relativi alle mulieres illustres dell’antica Roma, ma al tempo stesso entra in competizione con essi, compiendo volutamente alcune “variazioni” funzionali al suo discorso (si vedano quelli su Tuzia e Virginia). L’originalità di questi sonetti traspare proprio dalla prospettiva nella quale le protagoniste sono viste, poiché Faustina le presenta in una luce capace di persuadere i lettori degli ideali lì espressi, che sono sempre precetti da lei particolarmente sentiti, come rivelerà la loro analisi. Scrivere poesie in cui si celebrava la virtù di famose donne antiche proponendole come modello, per Faustina, infatti, non era un semplice esercizio retorico, come invece spesso accadeva al suo tempo, perché ella scorgeva forti affinità con quei personaggi, soprattutto con Lucrezia, per via delle sue vicende personali, e veramente vedeva in esse un exemplum da imitare. Faustina fa quindi un uso ‘personale’ di queste eroine, in quanto nei loro comportamenti virtuosi trova una conferma della virtuosità del comportamento da lei tenuto durante la vicenda del tentato ratto37. Personalizzando e sviluppando in nuove direzioni le virtù di queste eroine, Faustina rinnova un genere letterario e pittorico tradizionale che spesso veniva all’epoca ripetuto senza troppe variazioni.

L’analisi unitaria delle dieci poesie ha pertanto evidenziato un dato importante: la funzione paideutica. A differenza della maggior parte delle sue poesie, questo gruppo di sonetti fu composto appositamente per insegnare alle fanciulle (ma in generale a tutti coloro che li leggevano) quale sia la via della virtus e la gloria che si ottiene se si segue tale sentiero38. Su questo aspetto conviene soffermarsi. Uno dei più celebri quadri del padre, L’ascesa di Niccolò Maria Pallavicini al Tempio della Virtù39, mostra Apollo che indica al Marchese la strada che lo condurrà in cima al monte della Virtù. Questa strada erta ed aspra è ripresa dal mito di Eracle al bivio e dal celebre quadro di Annibale Carracci40 che lo rappresenta. Nel mito41, la strada che conduce in cima al monte della Virtù è dura da percorrere, ad indicare la fatica che bisogna compiere per arrivare a possederla. Nel quadro di Maratti, in cima al monte della Virtù vi è il tempio della Gloria con davanti la sua personificazione a denotare la gloria eterna acquisita da chi giungerà sulla sommità di questo monte. Il dipinto, cronologicamente non molto distante dai primi sonetti della presente serie, era ben noto alla figlia, che probabilmente è l’autrice di un’ottava scritta in accompagnamento al quadro42, dove nei primi due versi, in positio princeps quindi, si celebra questo specifico elemento («Viddi, o Signor, che della Gloria al Tempio | Ti toglieva il bel Genio»). Faustina si andò formando proprio negli anni in cui Carlo dipingeva questa tela, che costituisce una sorta di manifesto degli ideali paterni, e sicuramente, attraverso le incisioni e la descrizione belloriana, doveva aver studiato il celebre quadro di Annibale Carracci ed il mito che rappresenta; l’idea di gloria eterna che ottiene chi segue la difficile via della virtus, espressa costantemente in questi sonetti (come la loro analisi mostrerà), e di un ciclo che intenda guidare i lettori su tale sentiero, è pertanto uno degli insegnamenti che le proviene dall’educazione pittorico-letteraria ricevuta e dall’ambiente culturale in cui era immersa43.

Nel creare codesta serie, Faustina non si prefigge certo di copiare il padre o gli scrittori antichi; vuole invece rivaleggiare con questa tradizione, pittorica e letteraria, precedente, riprendendone le virtù, ma rinnovando le tematiche, che sono legate alle sue vicende personali. Il fine, però, è sempre quello di insegnare ed è interessante notare che nel comporre un ciclo di poesie didascaliche, Faustina, l’eroina dell’Arcadia di Crescimbeni, segua qui quel genere di poesia paideutica professata da Gravina44.

Se Carlo Maratti era riuscito nell’impresa di creare brani in cui «s’avanza la poesia della pittura», Faustina, «con raro effetto», chiude il cerchio scrivendo pitture parlanti che rivaleggiano con le poesie mute dipinte dal padre. Del resto se, nel tracciare linee su una tela o delineare parole su un foglio, «la mano [opera] serva ubbidiente all’operazione della mente»45, allora la base dell’operazione artistica e poetica è la medesima (l’ingegno), differenziandosi poi nel modo in cui si esprimeranno. Pertanto un ciclo poetico poteva prefiggersi di competere non solo con la tradizione letteraria, ma anche con quella artistica. È in questa tradizione classicista portata avanti dal padre e da Bellori, che Faustina si è formata ed è con essa che la poetessa qui si confronta.

3.1) Veturia.


Prese per vendicar l'onta, e l'esiglio,

Marzio de' vinti Volsci il sommo Impero,

E impaziente, inesorabil, fero

Cinse la Patria di fatal periglio.

E ben potea sotto l'irato ciglio

Servo mirar lo stuol de' Padri intero,

Ma si oppose Vetturia al rio pensiero,

E andò sola, ed inerme incontro al Figlio.

Quando a baciarla ei corse; allor costei:

Ferma, che Figlio tu di rupi alpine,

E non di Roma, o di Vetturia, sei.

Egli allor rese pace al Campidoglio:

E quel, che non potean l'armi Latine,

Fè d'una Donna il glorioso orgoglio.


Faustina nel sonetto crea un esplicito contrasto tra il gesto del figlio e quello della madre. Coriolano, per vendicare l’onta dell’esilio subito, tradì la vecchia patria marciando con un esercito nemico (quello dei Volsci) contro Roma e sconfiggendo in più occasioni l’esercito romano46. Ma quando ormai era giunto vicino Roma, a questo rio pensiero si oppose la madre che andò incontro al figlio. Coriolano, quando la vide, corse a renderle omaggio, ma Veturia, mostrando tutto l’orgoglio romano e anteponendo l’amore della patria a quello di madre, lo fermò dicendogli che, finché continuava in quel folle proposito, non era più figlio suo o di Roma. Da notare come nel discorso di Veturia l’essere suo figlio non può essere scisso dall’essere figlio di Roma e pertanto tradire la madre Roma significa tradire automaticamente anche la madre biologica. Alle sue parole, il figlio cede e, negli ultimi due versi, l’efficace rielaborazione del celeberrimo v. 75 del XXXIII canto dell’Inferno di Dante, serve a Faustina per creare una forte contrapposizione: quello che non riuscirono a fare le armi romane47, riuscì a fare una donna e quest’impresa divenne pertanto il glorioso orgoglio di una donna e non di un esercito. Nelle parole che Veturia rivolge al figlio, in soli due versi Faustina riesce a esprimere i concetti ed i valori che traspaiono dal discorso riportato in Livio48 e la sua figura viene usata per dimostrare come le donne possiedano un amor patrio uguale a quello degli uomini con il quale possono aiutare la patria49.

3.2) Porcia.


Per non veder del Vincitor la sorte,

Caton squarciossi il già trafitto lato:

Gli piacque di morir libero, e forte

Della Romana libertà col fato.

E Porzia, allor che Bruto il fier consorte

Il fio pagò del suo misfatto ingrato,

Inghiottì ’l fuoco, e riunissi in morte

Col cener freddo del Consorte amato.

Or chi dovrà destar più meraviglia

Col suo crudel, ma glorioso scempio,

L'atroce Padre, o l'amorosa Figlia?

La Figlia più. Prese Catone allora

Da molti, e a molti diede il forte esempio;

Ma la morte di Porzia è sola ancora.


Porcia era la figlia di Catone l’Uticense. Nel sonetto, Faustina vuole restituire all’estremo gesto di Porcia la stessa dignitas e lo stesso valore del suicidio compiuto dal padre. In seguito alla sconfitta della fazione filosenatoria a Farsalo, dove Cesare aveva trionfato, Marco Porcio Catone si suicidò ad Utica (48 a. C.) per morire da uomo libero e non da suddito. Anche il marito di Porcia, il celebre cesaricida Marco Giunio Bruto, in seguito si tolse la vita a Filippi per non cadere nelle mani dei vincitori (42 a. C.)50. Porcia allora si suicidò e Faustina scrive che lo fece per ricongiungersi in morte al marito, attenendosi alla versione di Valerio Massimo che ne fa un esempio di amore coniugale (il suicidio è posto nella sezione De amore coniugali)51. Nelle due terzine Aglauro pone la domanda su chi dei due, con lo scempio crudele, ma glorioso, che fecero di loro stessi, abbia compiuto il gesto maggiormente da lodare: il padre che si suicidò per la libertas o la figlia che lo fece per amore? Faustina non ha dubbi: Porcia52. Entrambi compirono un nobile gesto, ma il motivo per cui fu compiuto da Porcia è ancor più nobile di quello del padre (e già gli aggettivi usati al v. 11, l’atroce padre, o l’amorosa figlia, sono indicativi della risposta fornita al verso seguente). Nel rispondere al quesito, Faustina mostra di volersi rapportare con il testo di Valerio Massimo, perché il memorialista latino, nella parte finale della sezione dedicata a Porcia53, confessa di non saper decidere se fu più coraggiosa la morte del padre o la sua, anche se, scrivendo che il modo in cui si suicidò il padre era già stato usato, mentre quello di Porcia fu innovativo, rivela una profonda ammirazione per la forza di lei. Faustina vuole esprimersi su questo dubbio lasciato aperto dallo scrittore, stabilendo così un rapporto attivo con il modello.

Se però il gesto del padre, suicida per la libertà, è sempre stato lodato54 ed è divenuto un esempio per molti, la morte di Porcia è sola ancora: essa non è stata lodata e non è divenuta un esempio. Con questi versi, la poetessa intende porre rimedio a questa situazione che percepisce come un’ingiustizia.

Da notare il contrasto che si viene a creare nei vv. 7-8 tra il fuoco che Porcia inghiottì per morire55 ed il cener freddo del marito amato a cui la morte l’aveva ridotto. Porcia, bruciando dall’interno, diverrà cenere riunendosi così a quelle di Bruto, ormai fredde, perché era passato del tempo prima che a Porzia giungesse la notizia della sua morte.

C’è, infine, da chiedersi se, nella scelta di questo personaggio, Faustina non possa aver in parte tenuto conto delle opere realizzate per la II classe ai Concorsi Clementini del 1710. Infatti, nella nota in cui si stabilisce l’argomento della II classe di concorso, si legge «Porzia, figlia di Catone e moglie di Bruto, sconsolata per la morte del marito, s’ingoiò molti carboni accesi e ne morì»56. È interessante notare che dei primi quattro sonetti di codesta serie, due trattano temi di due concorsi clementini svoltisi solo alcuni anni prima; questo potrebbe essere un’altra prova che il ciclo pittorico del padre e i temi dell’ambiente da lui frequentato (o meglio, da lui diretto) abbiano fatto venire in mente alla poetessa di realizzare una serie poetica che rivaleggiasse con queste pittoriche. Anche ammesso che lo spunto per il sonetto le fosse venuto da quel concorso (eventuale ulteriore dimostrazione di quanto l’ambiente classicista del padre fu determinante per Faustina), si preme però sottolineare l’originalità con cui Aglauro affrontò l’argomento, nei modi sopra espressi57.

3.3) Lucrezia.

Giovan Battista Felice Zappi aveva scritto due sonetti dedicati a Lucrezia, ma vi è una profonda differenza tra quello di Faustina e i due del marito. I due di Zappi traggono spunto dal quadro dipinto da Maratti che rappresentava Lucrezia58. Zappi, oltre ad essere un poeta, era un avvocato e di ciò bisogna tener conto per la composizione delle sue due poesie. In accordo con l’antica pratica delle controversiae e delle suasoriae59 egli compose due sonetti: nel primo difendeva Lucrezia, nel secondo l’accusava60. Essi furono letti da Zappi il 2 febbraio 1716 in Campidoglio, in occasione della cerimonia di premiazione degli artisti che avevano vinto nei concorsi Clementini di quell’anno, alla presenza del papa Clemente XI Albani, di vari cardinali e dei membri dell’Accademia dell’Arcadia e dell’Accademia di San Luca. I due sonetti sono riportati per la prima volta proprio nella Relazione scritta dal segretario dell’Accademia di San Luca, Giuseppe Ghezzi61.

In quello in accusa, Zappi si allontana decisamente dalla tradizione romana (Livio per esempio) che faceva di Lucrezia uno dei più alti exempla virtutis.


«Invan resisti: un saldo cuore e fido

Tu vanti invano, e sia pur ghiaccio o smalto:

Renditi alle mie voglie, o qui t’uccido,»

Disse Tarquinio, colla spada in alto.

«Nè sola Te, ma Te col Servo ancido:

E poi dirò, che in amoroso assalto

Ambo vi colsi.» Alzò la donna un grido:

«Giove;» ma non udia Giove dall’alto.

Ella dopo il fatale aspro periglio

Che fe’? si uccise, e nel suo sangue involta

Spirò; ma con improvido consiglio.

Rendersi al fallo, e poi morir, non basta.

Pria morir, che peccare. Incauta e stolta

Ebbe in pregio il parer, non l’esser casta.


Il poeta accusa Lucrezia di ipocrisia, perché si è uccisa solo dopo la violenza e non prima di averla subita: se avesse voluto morire virtuosa, si sarebbe dovuta far uccidere da Tarquinio quando la minacciò. L’ultima terzina recita infatti che non basta arrendersi al fallo, e poi morir; bisogna morire prima di peccare, concludendo che Ebbe in pregio il parer, non l’esser casta. Lucrezia dunque si suicidò per apparire casta e virtuosa, invece di esserlo veramente, morendo prima che Tarquinio la violentasse. Qui Zappi mostra l’abilità retorica tipica del bravo avvocato di saper presentare la situazione in maniera consona al vantaggio della sua causa, attraverso precise omissioni, distorsioni e la trasformazione della vittima in colpevole, ingigantendo o sminuendo alcuni dettagli.

In questo sonetto Zappi segue una tradizione letteraria cristiana iniziata con Sant’Agostino – che criticava Lucrezia perché, nonostante non avesse acconsentito all’adulterio, si punì compiendo un crimine più grave della colpa stessa di adulterio: il suicidio, crimine contro Dio62 – e proseguita successivamente da altri autori che arrivarono ad accusarla di falsità, poiché se avesse tenuto davvero alla virtù, si sarebbe fatta uccidere da Tarquinio quando la minacciò, non curandosi della calunnia che lui avrebbe diffuso su di lei, poiché l’unico giudizio che conta è quello di Dio che conosce la verità63. Per tal motivo il poeta la definisce incauta e stolta.

Nel sonetto in difesa, l’avvocato presenta la “sua cliente” in una precisa luce: quella della donna sola, lasciata senza soccorso e senza consiglio sia dai parenti, sia dagli dèi.


Che far potea la sventurata e sola

Sposa di Collatino in tal periglio?

Pianse, pregò: ma invano ogni parola

Sparse, invano il bel pianto uscì dal ciglio.

Come a Colomba, su cui pende artiglio,

Pendeale il ferro in su l’eburnea gola:

Senza soccorso, oh Dei, senza consiglio,

Che far potea la sventurata e sola?

Morir, lo so, pria che peccar dovea;

Ma quando il ferro del suo sangue intrise,

Qual colpa in sé la bella donna avea?

Peccò Tarquinio, e il fallo Ei sol commise

In Lei, ma non con Ella. Ella fu rea

Allora sol, che un’innocente uccise.


Per vincere la causa, Zappi fa leva sulla supposta debolezza che sarebbe propria del sesso femminile. Bisogna notare che la difesa non è affatto assoluta. Alla domanda da lui stesso sollevata («Che cosa poteva fare questa donna sventurata e sola?») Zappi risponde, nelle terzine finali, comportandosi da avvocato. Sa che Lucrezia è accusata di due colpe: aver “peccato” con Tarquinio e di essersi suicidata64. Sa che non può scagionarla dalla seconda accusa e allora la difende dalla prima, cercando di spiegare anche il motivo del suicidio per rendere meno grave tale gesto agli occhi “della giuria”. Il v. 9 è decisivo e rivelatore del modo in cui ha impostato la difesa. L’avvocato, in quell’inciso lo so, usa una captatio benevolentiae nei confronti della giuria. Sa che essa è composta da uomini che spesso tendono a scusare gli altri uomini dei crimini sessuali compiuti verso donne, allora decide di immedesimarsi in loro per guadagnarne il consenso, sostenendo che, effettivamente sì, lei ha sbagliato, ma bisogna considerare che in quel frangente era sola e senza aiuto e non aveva la forza fisica necessaria per difendersi65, pertanto poté solo piangere sulla sua sorte, ma non opporvisi. Fu Tarquinio a commettere un peccato nel suo corpo, ma non con lei, perché lei non si concesse mai volontariamente e solo di una cosa è rea: di essersi suicidata. Nel verso finale, il modo in cui il suicidio è presentato serve per rendere la giuria più incline a non considerare questo gesto in maniera troppo severa; infatti Zappi scrive che ella fu rea solo di aver ucciso un’innocente (sé stessa), ma nel definirla innocente ribadisce la sua non colpevolezza nello stupro e a sua volta una giustificazione per quell’atto (non resse alla vergona di quanto subìto proprio perché lei era senza colpa)66.

Una difesa di questo tipo avrebbe probabilmente fatto inorridire gli storici e i memorialisti romani (e si spera anche le persone del nostro tempo), come Livio o Valerio Massimo, che nel gesto di Lucrezia vedevano il supremo exemplum della sua virtù67. è però rivelatrice della mentalità del tempo, perché evidentemente quella era – quantomeno Zappi la riteneva tale – la strategia difensiva più adatta all’epoca per difendere una donna che aveva subito uno stupro di cui bisognava mostrare come in nessun modo fosse stata consenziente.

Morandi, che ritiene la poesia di Zappi troppo frivola, scrive che in questi due sonetti non si può scorgere quale opinione Zappi avesse realmente su Lucrezia, perché in entrambi si comporta da avvocato, scegliendo quella che riteneva la miglior strategia d’accusa o di difesa68.

Totalmente diverso il sonetto di Faustina. Anche lei doveva conoscere il quadro dell’eroina dipinto dal padre e, come detto sopra, forse fu proprio la serie pittorica paterna che includeva quel dipinto, a spingerla a scrivere un ciclo di sonetti di donne romane virtuose e infatti questo sonetto dovrebbe essere stato scritto prima dei due del marito, forse quando il padre era ancora vivo69; tuttavia questo sonetto non è un’ ἔκφρασις del quadro paterno. La sua Lucrezia non è la donna debole ed impotente dello Zappi, ma torna ad essere quella figura virtuosa, dai saldi principi e dall’elevato valore morale, che conosciamo da Livio70, dimostrando un’ottima consapevolezza proprio del testo liviano. Bisogna considerare anche che Aglauro, avendo vissuto una situazione simile, con l’affronto di dover sopportare maligne dicerie menzognere, ben si identificava con Lucrezia.


Poiché narrò la mal sofferta offesa

Lucrezia al fido stuol, ch’avea d’intorno,

E col suo sangue, di bell’ ira accesa,

Lavò la non sua colpa, e il proprio scorno;

Sorse vendetta, e nella gran contesa

Fugò i Superbi dal regal soggiorno,

E il giorno, o Roma, di sì bella impresa

Fu di tua servitù l’ultimo giorno.

Bruto ebbe allora eccelse lodi, e grate;

Ma più si denno alla feminea gonna,

Per la grand’opra inusitata, e nuova.

Che il ferro acquistator di libertate

Fu la prima a snudar l’inclita donna,

Col farne in sé la memorabil prova71.


Fin dal primo verso la poetessa parla della mal sofferta offesa che Lucrezia subì e già con questo denota l’innocenza della moglie di Collatino. Lucrezia narrò quanto avvenuto ad una ristretta cerchia di persone fidate (v. 2) e, accesa d’ira (per l’oltraggio che aveva subito, v. 3), si uccise. Ma Faustina non scrive «si suicidò», usa invece una formula estremamente significativa: «col suo sangue […] lavò la non sua colpa e il proprio scorno». Normalmente il verbo lavare quando è usato metaforicamente è associato ad una colpa o, meglio, al gesto significativo che una persona compie per ‘lavar via’ una propria colpa; ma non è questo il caso. Qui Lucrezia con il suo sangue lava una colpa non sua. Tarquinio errò, solo sua è la colpa: cos’è allora che realmente Lucrezia lava via dal suo animo con il suo sangue, suicidandosi? L’oltraggio subito. Lucrezia torna ad essere quindi quella donna dai saldi principi che si suicida per ribadire la sua innocenza72, purificandosi con un atto di grande forza, così come la conosciamo grazie a Livio.

La seconda quartina narra gli effetti di questo gesto. Coloro che assistettero al suo racconto, a partire da Lucio Giunio Bruto, giurarono di vendicarla cacciando i Tarquini da Roma; infatti, nella gran contesa che sorse (vv. 5-6), i superbi (i Tarquini) dovettero alla fine abbandonare Roma, definita regal soggiorno poiché essi ne erano i re. Il giorno in cui fu compiuta questa nobile impresa, fu anche l’ultimo giorno di schiavitù per Roma73. La prima terzina inizia con il nome di Bruto in positio princeps per evidenziarlo, in quanto fu lui ad assumere l’iniziativa della cacciata dei Tarquini. Nel verso si afferma che per quest’impresa ricevette somme e grate lodi, ma questo verso intende mettere in risalto quanto espresso in quello successivo. Bruto merita di essere lodato, ma lodi maggiori si denno a Lucrezia. Faustina non scrive che Lucrezia ‘merita’ lodi, ma che a lei ‘sono dovute’ lodi; con il verbo dovere accentua maggiormente come non possano esserci dubbi sulla nobiltà del suo comportamento e che esso non possa richiedere null’altro che elogi, spiegandone il motivo: per il gran gesto inusitato e nuovo da lei compiuto. Inoltre Faustina non scrive «si devono a Lucrezia», ma si denno alla feminea gonna. Questa metonimia evoca immediatamente quella sfera femminile che di norma all’epoca era ritenuto il sesso debole, ma a questa presunta debolezza si oppongono i vv. 10-11 che sottolineano che a compiere quell’atto estremamente valoroso ed inusitato fu una donna e non un uomo. Ecco la maggior vicinanza della Lucrezia di Faustina a quella di Livio: anche la sua Lucrezia è una donna capace di compiere un gesto che richiede virtù, forza e coraggio.

Infine nell’ultima terzina torna la stessa metonimia presente nel sonetto del marito, il ferro, per indicare la spada, ma come diverso ne è l’uso! In Zappi la spada è il mezzo con cui Lucrezia peccò togliendosi la vita; in Faustina è lo strumento con cui Roma e Lucrezia acquistarono la libertà, divenendo il mezzo della suprema prova della sua innocenza e virtù74. Aglauro sottolinea infatti che fu questa gloriosa (inclita) donna a tirar fuori e ad usare per prima quella spada che darà la libertà a Roma, provandola su sé stessa. L’allontanamento dalla tradizione medievale, espressa nei sonetti del marito, e l’avvicinamento al testo liviano, potrebbero derivarle proprio dall’ambiente culturale del padre. Non solo, come riportato sopra, sappiamo che Carlo, per la sua Lucrezia, si era attenuto al testo di Livio, ma nel concorso clementino del 1709, dove Maratti era uno dei giudici per la sezione della pittura, la nota in cui si dava il tema si attiene strettamente alla tradizione liviana, tanto che nell’argomento della prima classe di concorso si parla di Tarquinio che « […] la violentò e finalmente fé tanto che trionfò (ma per forza) del suo illibato amore» e, nella seconda classe, si stabilisce «Che si esprimesse la violenza del Re Tarquinio fatta a Lucretia, forzandola a consentire al suo illecito intento col pugnale alla mano»75.

Morandi profonde elogi per questa poesia, poiché, a differenza dei due sonetti del marito, qui si evince subito quale fosse l’opinione che Faustina aveva di Lucrezia e si capisce che tratta di un argomento a cui tiene particolarmente, perché sente che la riguarda da vicino. In particolare, lo studioso loda il v. 4 dove la poetessa riesce in un unico verso a risolvere il dilemma di come si possa avere lo scorno senza avere colpa: «Che è, pur troppo, così vero, giacché nel mondo, com’era, com’è e come pare voglia essere ancora per un bel pezzo, si può avere lo scorno, senza la colpa, come appunto nel caso di Lucrezia»76. Parole che, essendo state scritte nel 1888, fanno sicuramente riflettere e la lungimiranza dello studioso è sorprendente ed amara al tempo stesso.

3.4) Tuzia (o Tuccia).

Il sonetto dedicato alla vestale Tuzia contiene un’ ἔκφρασις del quadro realizzato dal padre, come si evince dai primi due versi77. Come sopra accennato, è forse stato scritto prima degli altri, quando la poetessa non aveva ancora concepito l’idea di scrivere un ciclo di eroine romane, e incluso da Aglauro in questa serie in un secondo momento78. La vicenda è ripresa da Valerio Massimo79, dal capitolo che tratta delle accuse infamanti e di come gli innocenti riuscirono o non riuscirono a dimostrarsi tali. Tuzia era una vestale che ingiustamente era stata accusata di aver rotto il giuramento di verginità a Vesta, giacendo con un uomo. Allora, alla presenza di testimoni, elevò una preghiera alla dea Vesta in cui, se lei l’aveva sempre onorata nei sacrifici e non aveva rotto il giuramento, le chiedeva in tal caso di permetterle col suo cribro di attingere l’acqua dal Tevere e portarla fino al tempio di Vesta. La dea accolse la richiesta e permise a Tuzia di compiere quest’atto portentoso. Colui che invece l’aveva ingiuriata ingiustamente ricevette, in seguito al miracolo, il biasimo da parte dei concittadini.


Questa, che in bianco ammanto, e in bianco velo

Pinse il mio genitor modesta, e bella,

è la casta romana verginella,

Che il gran prodigio meritò dal cielo.

Vibrò contr’essa aspra calunnia un telo.

Per trarla a morte inonorata; ond’ella

L’acqua nel cribro a prova tolse, e quella

Vi s’arrestò, come conversa in gelo.

Di fuor traluce il bel candido cuore;

E dir sembra l’ immago in questi accenti

A chi la mira, e il parlar muto intende:

Gli eroi latini forza di valore

Difenda pur, che a forza di portenti

Le vergini romane il Ciel difende.


Il primo verso, dove Tuzia è evocata ammantata in un abito bianco e con un velo bianco in testa, descrive come Maratti dipinse la vestale. Faustina sfruttò l’occasione fornitagli dal quadro del padre, per trattare di un tema che aveva molto a cuore e che era strettamente legato alla figura di Tuzia: la difficoltà di discolparsi da calunnie, soprattutto per le donne. È un tema che sentiva molto vicino, poiché nel corso della sua vita più volte si era dovuta difendere da dicerie e false accuse80. Se una donna è virtuosa e viene accusata ingiustamente di una colpa non commessa, ma le persone non le credono, potrà sempre contare sulla protezione divina. Dio infatti conosce la verità ed è pronto ad intervenire in difesa delle virtuose. Da notare come il colore delle vesti di Tuzia rispecchi l’innocenza del suo animo, esprimendo all’esterno la sua purezza interiore: al bianco dell’abito e del velo (v. 1) corrisponde il suo bel cuore candido (v. 9). Negli ultimi cinque versi, Faustina esalta l’immagine realizzata dal padre che, pur essendo ‘muta’ perché dipinta, riesce a trasmettere così bene la sua virtù e pare così vivida che, chi la mira con attenzione, riesce ad intendere il suo “discorso”. Su questo punto bisogna soffermarsi, poiché Faustina affronta un tema molto sentito proprio nell’ambiente classicista del padre81.

Nelle Vite di Bellori la novità consiste nella Descrizione dell’opera d’arte che diviene l’elemento centrale e caratterizzante il suo metodo82. Per l’antiquario, la descrizione deve essere eseguita in modo razionale, secondo un ordine preciso83, infatti di norma è costituita da quattro elementi così disposti: 1) L’Argomento della Favola. 2) La Descrizione vera e propria. 3) L’Allegoria. 4) Osservazioni stilistiche84. Il primo punto prevede l’identificazione del soggetto raffigurato. Il secondo consiste nell’analizzare la composizione e quindi studiare la disposizione delle figure nello spazio, rivelare le simmetrie e le proporzioni, osservare come le figure esprimano ‘i moti dell’animo’ attraverso ‘i moti del corpo’ e come siano concatenate tra loro attraverso gesti e sguardi. Il terzo punto consiste nello spiegare ‘il fine dell’opera’, rivelare cioè il suo significato. Infatti, in base al celebre principio oraziano del «miscēre utile dulci», l’opera d’arte deve trasmettere insegnamenti profondi in maniera piacevole; pertanto nel terzo elemento Bellori analizza il fine paideutico della scena lì rappresentata. Solo nell’ultimo punto tratta le considerazioni stilistiche (il disegno, i colori, l’uso del chiaroscuro)85, poiché esse sono il modo in cui il soggetto è tradotto in pittura e quindi devono essere considerate successivamente agli aspetti legati al soggetto.

Alla base del suo metodo vi è un’idea antica di Simonide di Ceo. Il poeta sosteneva che poesia e pittura fossero strettamente legate tra loro ed aveva espresso questo concetto nel suo celebre detto «la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante»86. Questo principio venne ripreso da Orazio nell’Ars poetica con la celebre formula: «Ut pictura poesis87». Grazie alla fama del verso di Orazio, l’idea di uno stretto legame tra pittura e poesia sopravvisse intatta nei secoli successivi, dal Medioevo al Rinascimento, fino al Barocco. Bellori credeva fermamente in questo rapporto tra letteratura ed arte, con la conseguenza che applicò alle arti figurative le categorie della retorica classica, usando l’idea di questo legame come guida per giudicare le opere d’arte: il poeta, attraverso le parole, deve riuscire ad evocare immagini nella mente di chi ascolta/legge, mentre il pittore deve saper evocare una narrazione attraverso le immagini dipinte.

In accordo con la teoria italiana dei generi artistici, Bellori riteneva che la pittura di storia88 fosse il genere più elevato ed infatti, come visto, nelle sue Vite il primo punto del suo metodo descrittivo è costituito proprio dall’Argomento della favola (il soggetto rappresentato). Come però nella letteratura forma e contenuto sono strettamente legati – poiché un buon contenuto deve essere espresso in uno stile altrettanto elevato – così in un quadro non basta il soggetto per rendere quel dipinto nobile, ma è essenziale anche la composizione, cioè il modo in cui quel soggetto è reso. Pertanto, subito dopo aver individuato il soggetto lì raffigurato, per Bellori bisogna compiere la descrizione vera e propria dell’opera per verificarne la validità, in accordo con l’antica pratica dell’ ἔκφρασις. È in questa fase che si vede come per Bellori la pittura debba essere una poesia muta, così come la poesia una pittura parlante. La descrizione dell’opera diviene la prova suprema per verificare se un dipinto sia valido oppure no, in quanto, se di quell’opera non si riuscirà agevolmente a compiere una descrizione, vorrà dire che non è una buona opera, poiché manca della capacità narrativa e pertanto non è una poesia muta, come invece deve essere. Un’opera sa narrare, e può quindi essere descritta, quando le sue figure riescono ad esprimere in maniera diretta ed immediata i sentimenti e quando si riesce a cogliere i collegamenti tra i personaggi raffigurati. Le figure, pur essendo mute, devono riuscire ad evocare una ‘storia’, rivelando i loro sentimenti, virtù e pensieri. L’unico modo che il pittore ha di far ciò, è di studiare di ogni singola figura i ‘moti del corpo’ (gesti, movimenti, espressioni), i soli in grado di rivelare i ‘moti dell’animo’ (i sentimenti e le emozioni). Successivamente il pittore dovrà collegare le figure attraverso i gesti e gli sguardi (la ‘mozione degli affetti’), in modo da evocare una narrazione. Infatti l’occhio dell’osservatore, seguendo i gesti e gli sguardi dei personaggi, passerà da una figura all'altra secondo un dato ordine di lettura, comprendendo così i sentimenti e gli stati d’animo provati dai diversi personaggi. Solo in questo modo le figure mute potranno “parlare”, evocando così una narrazione, ed il quadro potrà essere una poesia muta89. Per Bellori i quadri di storia di Maratti erano quelli che meglio si prestavano ad essere descritti90, riconoscendogli così la qualità di ‘poesie mute’. Uno dei quadri di Maratti che meglio afferma lo stretto rapporto tra poesia e pittura è proprio il ritratto di Bellori, dove l’erudito tiene in mano il suo libro sulle Vite degli artisti a denotare che, come lo scrittore usa il suo medium (la scrittura) per eternare i pittori meritevoli (tra cui Maratti stesso), così il pittore usa il suo medium (la pittura) per eternare lo scrittore, assolvendo in pieno al detto oraziano «ut pictura poesis91». Bisogna infine ricordare che Bellori parla della sua Vita di Carlo Maratti in termini pittorici; infatti, rivolgendosi al pittore, gli chiedeva di scusarlo se nel dipingerlo in quei fogli non aveva né lumi lineamenti pari ai suoi, ma poteva solo adombrarlo con il suo devoto affetto92. Così scrivendo, Bellori presenta l’intera biografia come una pittura parlante.

Questo excursus intende mostrare che evidentemente Faustina assorbì questi temi tanto cari all’ambiente culturale paterno. Del resto Bellori frequentava assiduamente la casa di Maratti e le sue idee dovettero giocare un ruolo importante per la formazione di Faustina, cosa che non sorprende, considerando che l’erudito era il punto di riferimento culturale per eccellenza del padre. Con il v. 11 lei, poetessa e figlia di un pittore, non solo dimostra di considerare pittura e poesia strettamente legate, in accordo con il concetto di Simonide di Ceo, ma anche di conoscere le idee di Bellori, poiché sottolinea la perfezione del quadro del padre proprio aderendo al metodo belloriano, indicando che è un quadro capace di narrare, di essere cioè una poesia muta, che lei, con la sua arte, trasforma a sua volta in una pittura parlante, come Bellori aveva fatto con le descrizioni delle opere d’arte presenti nelle sue Vite.

Tornando al v. 11, cosa riferisce il parlar muto di Tuzia a noi lettori? Che gli eroi latini siano pure difesi dalla forza del loro valore, perché intanto le vergini romane le difende il cielo stesso a forza di portenti, come ha dimostrato il suo caso. È chiaro che Faustina si sente tra quelle vergini romane protette dal cielo, e se Tuzia fu salvata da un miracolo inviato dalla divinità come prova della sua innocenza, Faustina fu difesa dal rappresentante di Dio in terra, il papa Clemente XI Albani. Come Lucrezia nel sonetto a lei dedicato, qui Tuzia viene da Aglauro vista come colei che ha insegnato a lei e a tutte le donne come comportarsi nelle situazioni difficili: seguire sempre la strada della virtus, poiché è l’unica gradita alla divinità che conosce la verità e che interverrà, se necessario, in favore delle virtuose. Inoltre, come scrive Maier, il verso finale voleva forse essere un monito velato che Faustina rivolgeva ai suoi calunniatori93.

3.5) Virginia.

In Livio la vicenda di Virginia è posta in parallelo con quella di Lucrezia, poiché in entrambi i casi la morte di una fanciulla virtuosa pose fine ad un governo iniquo: la cacciata dei re con Lucrezia, la fine dei decemviri con Virginia94.


D’Appio a fuggir la scellerata voglia,

E d’un’ingiusta servitù l’orrore,

Virginia al disperato genitore

Vittima offerse la sua intatta spoglia.

Padre, dicea, m’accidi; il reo non coglia,

coglia più tosto morte il mio bel fiore.

Sei tra doglia agitato, e tra furore:

vinca, ah vinca il furor, ceda la doglia95.

Così cadde innocente; e ’n varia sorte

Fur visti, il padre in faccia scolorita,

ella più che mai lieta incontro a morte.

Vergine illustre, al più grand’uopo ardita,

n’insegni tu, casta egualmente, e forte,

che ben si cangia coll’onor la vita.


Virginia si fece uccidere dal padre per sfuggire ad Appio Claudio che, per poterla avere, aveva deciso di farne la sua schiava. Faustina esalta la virtù e la forza d’animo mostrata da quest’eroina che preferì morire virtuosa, piuttosto che vivere da schiava. I termini usati sono efficaci: per sfuggire al desiderio scellerato di Appio Claudio e all’orrore di una servitù ingiusta96 a cui il decemviro voleva ridurla (per giacere con lei), si offrì al padre come vittima sacrificale affinché potesse morire pura e casta (non colga il reo il mio bel fiore). è lei a convincere il padre titubante a recidere la sua vita e se il padre con estremo dolore compì quel gesto97, l’innocente andò invece incontro alla morte più che mai lieta. Faustina chiama Virginia, vittima, innocente, Vergine illustre, denotando in maniera efficace come dovesse essere vista. Nella terzina finale, si spiega quale insegnamento ha lasciato alle successive fanciulle: esse devono essere caste ed al tempo stesso forti, disposte a scambiare la vita con l’onore, cioè disposte a morire virtuose piuttosto che a vivere senza virtù98.

Virginia figurava come uno dei massimi exempla pudicitiae del mondo antico e, nel presentarla come tale, Faustina dimostra di ben conoscere i testi latini. La poetessa opera tuttavia un sottile, ma fondamentale, cambiamento rispetto alla tradizione antica. In Livio e Valerio Massimo, infatti, nella vicenda della sua uccisione, Virginia ha un ruolo passivo, in quanto è il padre a decidere della sua sorte. Faustina, invece, la trasforma in colei che prende l’iniziativa della sua morte per rimanere virtuosa. Tale variazione è operata da Aglauro in modo da conferire a Virginia un ruolo attivo nella vicenda, per dimostrare la forza oltre alla virtù di cui le donne possono essere capaci99.

3.6) Claudia.

I temi affrontati nella poesia dedicata a Claudia Quinta sono simili a quelli del sonetto su Tuzia, poiché anche qui abbiamo una nobile e virtuosa romana che dovette difendersi dall’accusa, falsa, di non essere casta, dalla quale riuscì a discolparsi sempre grazie all’intervento di una dea che, concedendole un prodigio, dimostrò la sua virtù e castità. Sebbene fonti più tarde la dicano vestale, in realtà, come apprendiamo da Livio e Ovidio100, Claudia era una matrona romana nobile e virtuosa, ma, per via del suo abbigliamento elegante, era stata accusata ingiustamente di adulterio da alcune voci ingiuriose. Lei era una delle matrone romane che erano state scelte per accogliere il simulacro della dea Cibele che giungeva dall’Asia Minore, ma la nave che lo trasportava si era incagliata nei pressi della foce del Tevere; allora lei supplicò Cibele di dar prova della sua virtù, permettendole di risolvere il problema. La dea accolse la preghiera e fece sì che Claudia potesse, legando la sua cintura alla barca, disincagliare la nave e trainarla fino a Roma. L’intervento della dea in suo favore testimoniò la sua innocenza rispetto alle accuse malevole e Claudia fu portata in trionfo su un carro.


Immobile sul Tebro era il Naviglio,

Che agl’incensi Romani conducea

Il Simolacro della Madre Idea;

E vana era mortal forza, e consiglio.

Claudia, che l’onor suo posto in periglio

Nel popolar sospetto allor vedea,

Legò il cinto alla Nave; indi alla Dea

Volse intrepida, e umìle i prieghi, e ’l ciglio.

Trasse il Legno, e la Diva in un’ istante.

Or qual sei Vincitor, che gir presumi

A così illustre Verginella avante?

Il Carro tuo da i soggiogati Fiumi

Seguiro i vinti Rè; ma trionfante

Tragge con se la Castitade i Numi.


Il v. 4 introduce la netta contrapposizione tra l’insufficienza degli “strumenti” umani (mortal forza e consiglio) e il mondo degli dèi. Nei vv. 5-6 Faustina torna su un tema che aveva molto a cuore, poiché da lei stessa sperimentato: le insinuazioni maligne, infondate, ma difficili da smentire per l’innocente. Claudia vedeva il suo onore posto in pericolo dalle voci che circolavano presso il popolo (il popolar sospetto), ed anche lei, intrepida e umile, chiese aiuto alla divinità che esaudì la sua preghiera con un intervento prodigioso. Nei vv. 10-14 Faustina afferma che, mentre i generali romani vittoriosi, portati a Roma in trionfo, dietro al carro trascinavano i re sconfitti, questa così illustre verginella merita un trionfo maggiore, poiché la sua Castitade, trionfante, tira dietro sé i Numi, cioè le ha attirato i favori della divinità stessa101. Faustina ribadisce ancora una volta, dopo il sonetto su Tuzia, che le donne devono vivere virtuose, poiché la loro virtus sarà ricompensata dalla divinità conoscitrice della verità. Anche questo sonetto pertanto vuole essere un monito ai suoi falsi accusatori.

3.7) Arria maggiore.

Il sonetto dedicato ad Arria maggiore, la moglie di Cecina Peto, per la tematica trattata è vicino a quello di Virginia.


Tra ceppi avvinto, e già dannato a Marte,

Si abbandonò Cecinna a un vil timore;

Nè di sua man sapea ferirsi il cuore

Per far l’ore aspre men, quanto più corte.

Arria, che scorge il timido Consorte,

Vibra lo stilo in se; poi con valore

Gliel’ offre, e dice: Ecco, non fa dolore

Volontaria ferita in petto forte.

Tra quante acquisto fer di bella Gloria

Sprezzando Morte, ah questa è ben più degna,

Che se n’ eterni in faccia al Sol memoria.

Donna fra quante il Mondo addita, e segna,

Di Poema dignissima, e d’ Istoria;

Che ad amar fida, e a morir forte, insegna.


Cecina Peto aveva partecipato ad una congiura contro l’Imperatore Claudio e quando questa era fallita, fu arrestato e condannato a morte. Nel momento in cui doveva togliersi la vita con il pugnale, esitò; allora la moglie Arria prese il pugnale e si trafisse, poi lo estrasse e lo porse al marito dicendogli: «Paete, non dolet»102 (Peto, non fa male). Questo detto di Arria divenne celeberrimo e infatti Faustina al v. 7 riporta la traduzione letterale. Nel sonetto la poetessa crea il contrasto tra la debolezza del marito e l’animo forte della moglie, sviluppando una tematica già presente nella sua fonte 103. Cecina è presentato come timido e assalito da un timore vile. La sua esitazione a suicidarsi è vile, perché egli non ha modo di scampare alla morte e se non si toglierà la vita con le proprie mani, morendo onorevolmente e con dignità, morirà vilmente per mano delle guardie imperiali che eseguiranno l’ordine di condanna a morte che era stato emesso nei suoi confronti. L’uso dei termini che accompagnano i due personaggi è significativo di quest’opposizione: all’incertezza del marito che non sapeva ferir il cuore di sua man, si oppone la fermezza di Arria maggiore che, afferrato quel pugnale, lo vibra in sé, procurandosi con valore una volontaria ferita e poi lo offre al marito dicendo: «Ecco, non fa dolore104». Arria ha dimostrato di non temere la morte e che è meglio morire con onore e dignità (per mano propria), piuttosto che in maniera infamante. Per Faustina, Arria merita grande gloria, tanto che la sua memoria è degna d’essere eternata sia dagli storici, sia dai poeti, perché ha insegnato ad amare fedelmente e a morire con onore.

3.8) Ortensia.

Ortensia era figlia del console Quinto Ortensio Ortalo, grande oratore della scuola asiana. Grazie al padre, lei aveva ricevuto un’ottima educazione latina e greca che le permise di essere scelta dalle altre matrone romane per pronunciare un’orazione nel foro romano con la quale indurre i triumviri ad abolire, o quantomeno a rivedere, la tassa che essi avevano imposto alle ricche matrone romane. In quell’occasione diede mostra di grandi abilità retoriche, riuscendo a persuadere i triumviri a modificare questa tassa. Anche in questo caso la fonte è Valerio Massimo105, dal quale Faustina riprende le lodi oratorie che usa però per sostenere nella terzina finale un concetto che doveva avere molto a cuore.


Chi è costei, che in volto delicato

Tal maestade, e tanto orgoglio porta?

E di cento Matrone audace scorta

Entra nel mezzo del Roman Senato?

Pria tace; e il guardo intorno poi girato

Scioglie i detti facondi; e saggia, e accorta

Contro il tributo alteramente insorta,

Tolgasi, disse, o Padri il peso ingrato.

L'Oratrice del Tebro, Ortensia, è questa,

Ch'alto ragiona; e in un faconda, e bella

Ottiene il don dell'onorata inchiesta.

O tu, che lodi sol Donna, che tace,

Dì, che taccia colei, che mal favella:

Donna, che saggia parli, e piacque, e piace.


L’attacco del primo verso (Chi è costei) è ispirato ad un celebre verso del Cantico dei Cantici 6:10 («Quae est ista»). Anche un altro poeta arcade, Enea Antonio Bonini (Acasto Lampeatico), aveva, probabilmente prima di quello di Faustina, iniziato un sonetto con quest’incipit (Chi è costei, che a mezza notte è desta,).

La prima quartina, formata da due domande retoriche, è dedicata alla celebrazione di Ortensia di cui si esalta la maestà. Lei, facendosi portatrice dei pensieri delle altre matrone romane106, entra solenne nel senato romano per pronunciare il suo discorso107. Faustina descrive l’atmosfera di attesa che Ortensia sa creare (vv. 5-6) e la definisce saggia e accorta nella sua orazione in cui chiede che venga abolito il tributo ingrato che era stato imposto alle matrone romane. Oratrice che unisce la capacità oratoria alla bellezza (in un faconda, e bella), Ortensia, grazie ai suoi argomenti elevati espressi in una forma magnifica (alto ragiona in modo facondo), ottiene quanto richiesto. Viene definita con una metonimia oratrice del Tebro, perché romana108. Nella terzina finale Faustina esalta la figura di Ortensia, che dimostrò di essere un’abile oratrice pur essendo donna, per poter affermare, non senza orgoglio, che le donne possono dimostrarsi oratrici e poetesse abili quanto gli uomini. Con il v. 12, attraverso un generico tu, si rivolge a quegli uomini che ritengono che sia da lodare solo la donna che tace. A lui/loro dice di far tacere solo quella donna che non conosce l’arte del parlare (mal favella), perché la donna che sa parlare saggiamente109, piacque nel passato110, come piace nel presente (v. 14).

3.9) Cornelia.

Cornelia, la coltissima figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano e moglie di Tiberio Sempronio Gracco, fu la madre di Tiberio e Caio Gracco e di Sempronia, moglie di Scipione l’Emiliano. Grazie al padre aveva ricevuto un’ottima educazione latina e greca, vivendo a contatto con il circolo filellenico degli Scipioni. Fu estremamente celebre per le sue virtù.


А qual mai non portò vietato errore

La non mai sazia aтbizion di regno:

Ed ecco pur d’inclita Donna il core

(Rara Virtù) prender gli scettri a sdegno.

Chiara per l’immortal suo Genitore

Cui diè la soggiogata Affrica il degno

Nome; stimò Cornelia un vile onore

D’Egitto il soglio, e di sua gloria indegno.

Oh qual restò di Tolomeo l’orgoglio,

Che avvezzo era qual Giove, alla Germana

Del talamo far parte, e in un del soglio!

Di sé Regina, e del suo cor sovrana

Nata al libero onor del Campidoglio,

Sdegnò barbari nodi Alma Romana111.


Nella prima quartina Faustina presenta Cornelia come una figura quasi più che umana. Nei primi due versi, infatti, afferma che l’ambizione di regnare, un’ambizione che non è mai sazia, ha sempre portato gli uomini a commettere i più nefasti atti (gli errori più vietati). L’esclamazione è posta in modo da farla apparire come una sorta di legge universale, ma nei due versi successivi la poetessa rivela che eppure ci fu una donna il cui cuore possedeva la rara virtù di disdegnare gli scettri (e quindi di non aspirare al potere): Cornelia, il cui nome viene presentato (v. 7) solo dopo una perifrasi (vv. 5-6) che delinea la sua appartenenza ad una famiglia che ha segnato la storia di Roma; perifrasi funzionale alla necessaria collocazione del personaggio per comprendere il rifiuto del trono che le era stato offerto. Cornelia, orgogliosa del padre che aveva raggiunto gloria immortale conquistando l’Africa, reputò un disonore accettare la proposta di matrimonio che le aveva rivolto Tolomeo VIII Evergete II, re d’Egitto, quando lei era rimasta vedova112. Per comprendere i vv. 9-11 bisogna ricordare che nella dinastia dei Tolomei (che si era insediata in Egitto in seguito alla morte di Alessandro Magno) il sovrano era solito sposare la sorella (Germana) ad imitazione di Zeus, che aveva sposato la sorella Era.

Cornelia, che era nata come libera cittadina romana (v. 13) da un padre tanto nobile e famoso, non volle divenire la regina di un paese straniero; disdegnò pertanto i barbari nodi, preferendo vivere libera, Regina di sé stessa, sovrana del suo cuore e fedele alla sua patria. In questi versi si coglie da parte della figlia di Scipione il valore della libertas a fondamento della società romana, con la consapevolezza di tutti i diritti ed i doveri inerenti all’essere cittadino romano (civis Romanus sum).

3.10) Clelia.

Gli episodi di Orazio Coclide e di Clelia rientrano nei vari eventi riguardanti il momento in cui Roma era assediata da Porsenna, re di Chiusi. Orazio Coclide, vedendo i nemici arrivare dal Gianicolo, lì affrontò da solo, dando il tempo al resto dei Romani di tagliare le assi del ligneo pons Sublicius. Una volta crollato il ponte, Orazio si gettò nel Tevere, riuscendo a raggiungere a nuoto incolume la riva dove vi erano i Romani113. In seguito alla pace tra Porsenna e Roma, Clelia fu una degli ostaggi che l’Urbs aveva dovuto consegnare al Re di Chiusi in cambio del ritiro del presidio nemico sul Gianicolo. Spinta dalla volontà di emulare Orazio Coclide, Muzio Scevola e gli altri Romani che si erano distinti per virtù in quella guerra, Clelia di notte riuscì a scappare dall’accampamento nemico, guidando con sé il resto delle fanciulle in ostaggio. Passato a nuoto il Tevere, Clelia portò in salvo le fanciulle riconsegnandole alle loro famiglie. Porsenna all’inizio si adirò, ordinando ai Romani di restituirgli colei che aveva avuto l’audace idea. I Romani, per rispettare il patto, restituirono Clelia, ma a questo punto Porsenna, colpito dall’atto compiuto dalla fanciulla, lodò il suo coraggio e le disse che non solo le avrebbe restituito la libertà, ma che le avrebbe donato anche la metà degli ostaggi Romani; Clelia scelse i fanciulli e con essi ritornò a Roma114.


Star vede il Tebro nella gran contesa

un sol suo figlio, a tutta Etruria a fronte;

e dopo l’alta, e gloriosa impresa

gittarsi invitto dal difeso Ponte.

E Clelia allor, che pegno ostil fu resa,

fattasi duce alle compagne pronte

fuggì per l’onde, su destriero ascesa

e lo schernito Re lasciò sul monte.

Onor di premio militar fu dato

al Campion forte; e all’inclita donzella

videsi Equestre simulacro alzato.

Ma lor doveansi erger due Templi, e fuore

sovra l’imago por di questo, e quella:

sagro alla Libertà, sagro al Valore.


Nella prima quartina, senza nominarlo, Faustina parla dell’impresa di Orazio Coclide, con il Tevere che vide uno solo dei suoi figli115 stare di fronte all’esercito nemico. Per denotare la guerra, Faustina usa qui la stessa metonimia presente nel sonetto di Lucrezia: nella gran contesa.

Dopo aver compiuto quest’impresa alta e gloriosa, Orazio si gettò dal ponte che aveva difeso.  È opportuno prestar attenzione all’uso delle parole, poiché nella costruzione del v. 4 si pone volutamente di seguito invitto e difeso, in modo da valorizzare che fu proprio il fatto che lui riuscì a resistere da solo all’assalto nemico (che rimase invictus quindi), che gli permise la difesa del ponte. È anche interessante notare che il maestro di Faustina, Alessandro Guidi, nella canzone Tevere, laddove parla di Orazio Coclide e Clelia116, usa l’aggettivo invitto per Clelia, che Agluaro trasferisce qui ad Orazio Coclide.

Ardita è inoltre l’anastrofe del primo verso dove il verbo Stare, in una costruzione tradizionale, dovrebbe andare a fine verso117.

La seconda quartina è invece dedicata all’impresa di Clelia, posteriore alla prima e ad essa ispirata. È interessante notare che mentre Clelia è nomata subito all’inizio della quartina che la riguarda118, Orazio Coclide non viene mai chiamato per nome, ma solo alluso mediante la sua celeberrima impresa che tutti conoscono. In questo modo, in parte, Clelia si vede assegnare un peso di poco maggiore all’interno del sonetto, nonostante le parti che parlano dell’uno e dell’altra siano perfettamente uguali119.

Clelia era una delle fanciulle romane che erano state date dai Romani a Porsenna come garanzia del rispetto dei patti120 (v. 5). Con l’aggiunta di ostil (v. 5), Faustina denota come Clelia non fosse un ostaggio docile, ma maldisposta verso i nemici e volenterosa di scappare. Nel v. 6, Faustina con quel pronte sottolinea come anche le altre fanciulle erano disposte a fuggire, avevano solo bisogno di una guida da seguire prontamente e questa guida fu appunto Clelia, che si fece dux (= guida, condottiero) per le altre fanciulle.

Come si è sapientemente accorto Cracolici121, il v. 7 ci fa comprendere che Faustina, per questo sonetto, più che Livio, abbia utilizzato come fonte Plutarco e Floro. Livio infatti scrive che Clelia, come le altre fanciulle, guadò il Tevere a nuoto e non a cavallo; Plutarco, invece, narra che attraversò il Tevere in sella ad un cavallo122, e così Floro123. Considerando il fatto che all’epoca circolavano diverse traduzioni di Plutarco, è possibile che sia stato lui la fonte di Faustina, visto anche che si dilunga molto più di Floro sull’episodio124. A questi testi è però indispensabile aggiungere anche Valerio Massimo che, come abbiamo visto, era un’altra delle fonti usate da Faustina. Egli parla di Clelia nel capitolo De fortitudine dove riporta la versione del guado del Tevere a cavallo125.

Il monte del v. 8 di cui si parla è il Gianicolo, sul quale Porsenna aveva stabilito il presidio che, in base agli accordi di pace, doveva ora ritirare. Nella prima terzina, Faustina espone i premi che Orazio Coclide e Clelia ricevettero per le loro imprese: il primo, definito forte campione (del popolo romano) per aver rappresentato da solo il valore dei Romani contro i nemici, ricevette premi militari126, mentre alla gloriosa (inclita) fanciulla fu eretta una statua equestre. Come nel sonetto di Porcia, anche qui Faustina, nell’ultima terzina, sente la necessità di affermare che i due protagonisti della poesia meritano onori maggiori di quelli elargitigli. Secondo lei bisognava infatti erigere in loro onore un templio ciascuno e porre l’immagine di Orazio sulla facciata del templio eretto per lui e l’immagine di Clelia su quella del templio eretto per lei. Il templio con l’immagine di Orazio doveva essere consacrato alla Libertas, mentre quello con l’effige di Clelia, alla Virtus. Nell’ultimo verso, pertanto, si evince di quale virtù, per Faustina, questi due eroi erano i campioni: la libertas, Orazio, la virtus, Clelia. Orazio è campione della libertà, perché grazie al suo coraggio ha fatto sì che i Romani non soccombessero all’esercito nemico e pertanto ha difeso e garantito la libertas del popolo romano127; Clelia invece è la campionessa del valore, perché, come un dux (un comandante), si è messa in sella ad un cavallo alla guida delle fanciulle, conducendole in salvo sull’altra sponda del Tevere, meritandosi perciò il rispetto non solo dei Romani, ma perfino di Porsenna stesso, proprio per il suo valore. Nel lodare il suo valore, Faustina segue le fonti antiche: Livio parla infatti di virtus, sottolineando come Porsenna non solo ammirò la sua virtus, ma la onorò pure128; Plutarco usa l’aggettivo τὸ ἀνδρῶδες (virile, forte, coraggioso)129 che è quindi sempre connesso con la virtus; Valerio Massimo parla addirittura di lumen virtutis, scrivendo che lei, una puella, portò agli uomini (viris) il lumen virtutis (la fiaccola della virtù)130.

Giustamente Cracolici131 ricorda come l’iconografia di Orazio Coclide che fronteggia i nemici e quella di Clelia che a cavallo guada il Tevere guidando le altre fanciulle, fossero ben diffuse in arte. Per la scena di Orazio Coclide che difende il pons Sublicius gli esempi in pittura sono molteplici; per limitarci solo ad alcuni dei più importanti presenti a Roma, si possono citare gli affreschi nel Salone di Villa Lante sul Gianicolo132, quello di Luzio Luzzi nella Sala della Biblioteca a Castel Sant’Angelo (anni ’40 del ’500) e l’affresco di Tommaso Laureti a Palazzo dei Conservatori (1587-1594). Per l’iconografia di Clelia che attraversa il Tevere, si possono citare gli affreschi che si trovavano nel Salone di villa Lante sul Gianicolo, eseguiti tra il 1524-1525 ca. da vari pittori della bottega di Raffaello133, dove compariva l’episodio dell’attraversamento del Tevere, compiuto da Clelia a cavallo, sia quello di Porsenna che dona a Clelia il cavallo134. Di questi affreschi nel Seicento circolavano numerose incisioni e sicuramente erano noti a Carlo Maratti e al suo ambiente. L’episodio era presente anche in almeno una delle facciate dei palazzi romani affrescate da Polidoro da Caravaggio135. L’iconografia di Clelia che attraversa il Tevere riscosse dunque una certa fortuna dal Rinascimento in poi136 e di solito Clelia viene rappresentata a cavallo. Cracolici ricorda inoltre come lo stesso padre di Faustina, Carlo, avesse realizzato un disegno a penna, poi inciso da Andrea Procaccini, che rappresentava Clelia a cavallo mentre attraversa il Tevere con le altre fanciulle137. Questo denota che nelle decorazioni pittoriche, in generale, e nell’ambiente del padre, in particolare, si seguiva la versione di Valerio Massimo e di Plutarco (Clelia che guada il Tevere a cavallo invece che a nuoto) e il fatto che anche Faustina segua questa versione, è indirettamente un ulteriore indizio di quanto fosse legata al mondo pittorico e all’ambiente culturale del padre in cui si era formata ed era cresciuta.

4) Epilogo.

L’analisi dei sonetti ha rivelato che Faustina li aveva concepiti come una serie letteraria capace di rivaleggiare con analoghe serie, sia letterarie, sia pittoriche, compresa quella del padre. Quello su Tuzia fu appositamente ideato come una ‘pittura parlante’ in omaggio, ma al tempo stesso in competizione con la ‘poesia muta’ dipinta da Carlo, sottolineando così lo stretto legame tra arte e letteratura ed entrando in gara anche con quanto fatto da Bellori nelle sue Vite. Dal modello pittorico paterno riprese l’idea di un ciclo unitario di figure femminili presentate come exempla virtutis, ma si distaccò da esso per quanto riguarda gli insegnamenti che i sonetti dovevano trasmettere, poiché li utilizzò per veicolare principi che le erano cari.

La scelta delle figure antiche è inoltre rivelatrice della sua ottima conoscenza della storia romana, poiché le protagoniste di questi sonetti sono sempre adeguate a veicolare i temi affrontati, segno che la loro selezione è stata ricercata con estrema cura dalla poetessa, che, accanto a eroine celebri come Lucrezia e Virginia, scelse anche figure non troppo note, come Claudia e Ortensia, che erano però adatte ai sui scopi. Faustina mostra quindi di aver studiato gli autori latini, soprattutto storici e memorialisti come Livio e Valerio Massimo, e per opporsi ad alcune riletture misogine (che circolavano al suo tempo) di quelle eroine romane, è a questi scrittori antichi che si rivolge per trarre da loro l’auctoritas necessaria a smentire quelle riletture (come nel caso di Lucrezia). I dieci sonetti rivelano inoltre affinità con il modo di procedere di Valerio Massimo, poiché anche Faustina presenta le virtù attraverso esempi di personaggi che si sono distinti in esse, ma, coerentemente con il suo fine, gli esempi sono ridotti a sole figure femminili. Faustina istaura però con gli antichi un rapporto di imitatio-aemulatio, perché nel caso di Virginia modifica a vantaggio della sua tesi la versione riportata dagli antichi e nel sonetto su Porcia risponde esplicitamente alla domanda lasciata aperta da Valerio Massimo.

Nei sonetti, le mulieres illustres evocano virtù diverse: Lucrezia è un exemplum di pudicizia e di grandezza d’animo; Porcia di forza e di fedeltà nell’amore; Veturia, Cornelia e Clelia educano all’amor patrio e ai valori della società romana; Tuzia e Claudia insegnano come la divinità difenda le donne virtuose dalle false accuse; Virginia e Arria sono un esempio di coraggio, honos et dignitas; Ortensia dimostra come anche le donne possano distinguersi nell’ars oratoria: tutto dipende dallo studio, non dal sesso.

Secondo la disposizione dei dieci sonetti curata da Faustina sopra esposta, la serie si apre con una madre anziana, Veturia, che insegna come perfino l’amore materno debba essere subordinato a quello patrio, e si chiude con una fanciulla, Clelia, che si fa guida delle altre fanciulle ponendosi come exemplum del valore. In mezzo vi sono altre figure femminili che costituiscono modelli di vari comportamenti, alcune per la sfera pubblica, altre per quella privata (quindi sia per la vita activa, sia per la vita contemplativa): dalla fedeltà coniugale alla castità, dalla costanza nell’amore alla fermezza d’animo, dall’importanza della cultura/educazione alla dignitas ed al valore. Sono così rappresentanti, attraverso modelli esemplari, tutti i possibili ruoli femminili: figlia, vergine, sposa, madre e madre anziana/nonna (nel caso di Veturia) e tutti gli insegnamenti più importanti che una puella doveva apprendere. Come i cicli pittorici di exempla virtutis, questi sonetti possiedono pertanto un chiaro fine paideutico, indirizzato soprattutto alle giovani fanciulle in via di formazione alle quali Faustina mostra la via della virtus. Al tempo stesso, nelle virtù di questi personaggi, Aglauro trova una conferma del valore del comportamento da lei tenuto durante gli spiacevoli eventi che segnarono la sua vita. Tali insegnamenti sono pertanto rivolti tanto agli altri, quanto alla poetessa stessa.

Ringraziamenti.

Si desidera esprimere un sentito ringraziamento al Professor Marco Ruffini, per i preziosi consigli che hanno contribuito a migliorare l’articolo, e al Professor Pietro Petteruti Pellegrino, per le utili indicazioni fornite. Un sincero ringraziamento va anche al Professor Enrico Arcaini e alla Professoressa Pia Galetto per i suggerimenti indicatimi.






NOTE

* Si è venuti a conoscenza dell’articolo Cracolici 2018, dedicato al ciclo poetico qui analizzato, solo quando il nostro saggio era ormai concluso, si è però fatto in tempo ad integrare nel presente saggio le novità espresse in quest’importante articolo di Cracolici.

1 Morandi 1888; Migliau 1911; Giorgetti 1915; Bandini Buti 1941; Maier 1954; Anna Teresa Romano Cervone 1991; Ead. 1991-1994; Cacciari Zanelli 1995; Natoli Petrucci 2003, vd. scheda 65 pp. 148-149; Veneziani 2007; Crivelli 2014, pp. 69-86.

2 Cracolici 2015, pp. 320-322. Anche nel sonetto su Lucrezia è però probabile che tenne a mente il quadro del padre, sebbene esso non sia un’ ἔκφρασις.

3 Vd. per es. la monografia Maier 1954, p. 102-113. Fa eccezione il recente articolo Cracolici 2018.

4 Romano Cervone 1991-1994, pp. 174-175.

5 Rudolph 2000, p. 456. Per la madre di Faustina, Francesca Gommi, vd. Rudolph 1992-1993.

6 Romano Cervone 1991-1994, pp. 174-175; Veneziani 2007, p. 452.

7 Giorgetti 1915, p. 42; Maier 1954, pp. 18-19; Nicoletti 2005, pp. 37-38 e 44; Crivelli 2014, pp. 73-86.

8 Nel sonetto Donna immortal che d’Elicona al fonte, l’immagine che Faustina usa ai vv. 9-11 («Potess’io pure augel palustre e vile | prender da te, cigno sublime, il canto; | che bramar non saprei più degno stile.»), dove si identifica con un uccello palustre stonato, per dire che è ancora solo una poetessa alle prime armi, con l’augurio che con il tempo possa trasformarsi in un cigno, e cioè in una grande poetessa, è ripresa da Poliziano (Giostra I, 5, v. 8). A proposito poi del suo rapporto con gli antichi, in questa poesia, al v. 7, la Maratti cita Corinna e Saffo, chiedendo alla stessa dea che ha ispirato queste prime poetesse (permettendole di ottenere onori grazie all’arte poetica), d’ispirare anche lei per poter essere annoverata fra le schiere di celebri poetesse.

9 Maier 1954, pp. 64-68; Romano Cervone 1991, pp. 51-55.

10 Veneziani 2007, p. 451. Pare che sia stata proprio la vista del sangue a spaventare lo Sforza Cesarini e i suoi complici, inducendoli a desistere dal tentativo di ratto. La vicenda si trova narrata in dettaglio in Morandi 1888, pp. 593-597; Maier 1954, pp. 28-35; Cacciari Zanelli 1995, pp. 5-14.

11 Probabilmente le insinuazioni maligne furono messe in circolazione proprio dagli Sforza Cesarini durante il processo al membro della loro famiglia, Maier 1954, pp. 34-35.

12 Fu considerata la nuova Lucrezia romana. Cracolici 2015, p. 320.

13 Cacciari Zanelli 1995, pp. 19-23.

14 Son. E qual sì industre man ritrar poteo di G. Zanotti, scritto per ringraziare Faustina di avergli donato un suo ritratto; Il son. seguente è di Eustachio Manfredi, vd. Morandi 1888, pp. 597-598; Giorgetti 1915, p. 41.

15 Il 29 giugno 1705 Faustina sposò G. B. F. Zappi, uno dei 14 fondatori dell’Arcadia. Sul ruolo delle poetesse nell’Arcadia, tra i vari studi vd. Romano Cervone 1991; Graziosi 1991-1994; Crivelli 2014.

16 Sul nome arcade di Faustina, Cacciari Zanelli 1995, pp. 15-17.

17 Morandi 1888, pp. 597-598.

18 Sulle datazioni dei sonetti Morandi 1888, p. 600 nota 1; Veneziani 2007, p. 453; il problema della datazione dei sonetti è stata affrontata in maniera acuta da Cracolici 2018, pp. 198-214. Qui lo studioso ricorda come questi sonetti fossero inizialmente destinati alla ristretta cerchia di amici della poetessa (pp. 203-204) e che quello su Tuzia, forse, è stato scritto prima degli altri e inserito in seguito in questa serie (pp. 199-200).

19 Cracolici 2018, p. 206. Cracolici ha annunciato che tratterà più ampiamente di questo libricino nell’edizione delle rime di Faustina che sta curando.

20 Ivi, p. 207.

21 Ivi, pp. 206-207.

22 Anche nelle forme artistiche “minori”, per es. fin dal ’400 i cassoni nuziali erano dipinti con storie di Lucrezia, Virginia o altri episodi della storia e/o della mitologia romana o cristiana come exempla di pudicizia, di fedeltà matrimoniale o altre virtù rivolte agli sposi, vd. De Marchi Sbaraglio 2015, pp. 102-109; 128-132;153-170; 184-187.

23 Curzi 2013, p. 36.

24 Palma Venetucci 2000, p. 605.

25 Veterum illustrium philosophorum, poetarum, rhetorum et oratorum imagines. Ex vetustis Nummis, Gemmis, Hermis, Marmoribus, alijsque Antiquis Monumentis desumptae. A Io: Petro Bellorio Christinae Reginae Augustae Bibliothecario, et Antiquario Expositionibus lllustratae, Romae 1685.

26 Palma Venetucci 2000, pp. 605-606.

27 Codice a.II.10.j.23 (Torino, Biblioteca dell’Archivio di Stato). La Regina Cristina di Svezia possedeva una copia di quest’opera, Palma Venetucci 2000, p. 605 e la scheda lì curata da Beatrice Cacciotti a pp. 622-623.

28 Cipriani Valeriani 1989, pp. 1-3; Bussotti 2014, vd. pp. 1-3.

29 Bussotti 2014, pp. 1-6; Cipriani Valeriani 1989, p. 3.

30 Cipriani Valeriani 1989, pp. 119-127, tra i giudici, per la pittura, vi è anche Carlo Maratti (Ivi, p. 121).

31 Ivi, pp. 129-140. Le altre eroine trattate da Faustina, invece, non sono state affrontate in questi concorsi negli anni in cui la poetessa era viva, né in quelli precedenti (vd. i primi due volumi di Cipriani Valeriani 1989).

32 Bellori 1976, p. 651; Stella Rudolph 1995, p. 98 nota 239, e in generale pp. 98-100; Ead. 2000, pp. 476-477.

33 Curzi 2013, in particolare le pp. 33-44.

34 Sul fatto che Faustina conoscesse la serie pittorica del padre, Cracolici 2018, pp. 188-198. Della serie del padre fa eccezione la figura di Cleopatra che non era romana, né un exemplum virtutis al pari delle altre. Faustina, infatti, per entrambi i motivi non tratta di Cleopatra in questi sonetti. La regina d’Egitto doveva invece comparire, insieme a Artemisia, Semiramide e Tomiri, in un gruppo di quattro sonetti dedicati a celebri regine antiche ‘barbare’ (non romane quindi) che Faustina aveva intenzione di scrivere. Questo progetto sembra che non fu mai realizzato da Aglauro (resta il son. su Artemisia, Cracolici 2018, pp. 187-188), ma è certo che questo gruppo di quattro sonetti dovesse formare una serie separata da quella dei dieci sonetti dedicati ad illustri romane virtuose. Sulla questione, Cracolici 2015, pp. 320-322.

35 Romano Cervone 1991-1994, p. 175. Cesare Ripa, Iconologia, Venezia 1625, pp. 332-333, dove a p. 333 si parla del mordersi le mani che torna nel sonetto di Aglauro. In questa poesia, però, per l’invidia la fonte primaria sembra rimanere quella usata da Ripa medesimo, Ov. Met. II, 760-786, tenendo probabilmente conto della rielaborazione di questo passo fatto da Giovanni Andrea dell’Anguillara che trasforma la domus dove vive l’Invidia di Ovidio, in una grotta, di cui si parla in questo sonetto, ma che Ripa non riporta (Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottava rima, con le Annotazioni di M. Gioseppe Horologgi, e gli Argomenti e Postille di M Francesco Turchi, Venezia 1584 [I ed.: Venezia 1561], II, ottava 286. Sui volgarizzamenti delle Metamorfosi e sull’enorme fortuna che il testo dell’Anguillara ebbe in arte ed in letteratura fino all’Ottocento, Guthmüller 1997, pp. 65-83). Forse si potrebbe citare anche l’altra grande opera usata dagli artisti, Vincenzo Cartari, Le immagini degli Dei degli antichi, Padova 1608 (I ed.: Venezia 1556), pp. 425-429.

36 Rudolph 1991-1994, p. 398; Ead. 1995, p. 98. Nella Serie degli uomini i più illustri in pittura, scultura, e architettura con i loro elogi e ritratti incisi in rame cominciando dalla sua prima restaurazione fino ai tempi presenti, Firenze 1775, vol. XI, è contenuta, tra le altre, anche una biografia di Carlo Maratti (Elogio di Carlo Maratti, pp. 149-164). Qui, a p. 161 si trova scritto che le «quattro mezze figure di donne illustri, cioè Cleopatra con la perla in mano sopra un Vaso, Lucrezia Romana in atto di ferirsi, Probia Falconia Poetessa, e Tuzia Vergine Vestale col cribbio in mano» facevano parte di una serie di quadri che il Marchese N. M. Pallavicini acquistò dal Montioni; in base a ciò Cracolici 2018, p. 191 nota 30, ritiene che Maratti non dipinse una seconda serie di illustri romane per N. M. Pallavicini, ma che quest’ultimo acquistò quella del Montioni. Si è propensi ad abbracciare la tesi di Cracolici, sebbene non ci possa essere una certezza assoluta, poiché l’anonimo o (forse più probabilmente) gli anonimi scrittori della Serie degli uomini i più illustri in pittura, scultura, e architettura si basavano su precedenti biografie di artisti (come quelle di Baldinucci, Bellori, Hugford ecc.) e spesso non avevano una reale conoscenza delle opere di cui riportano la descrizione (si basano sulle descrizioni presenti nelle loro fonti da cui spesso si limitano a copiare il passo relativo con giusto qualche lieve variante nella forma stilistica), né verificavano troppo a fondo le notizie riportate nelle fonti da loro utilizzate; per es. per la vita del pittore Anton Domenico Gabbiani, la Serie degli uomini i più illustri in pittura, scultura, e architettura dipende interamente dalla vita di Gabbiani scritta da Hugford (Ignazio Enrico Hugford, Vita di Anton Domenico Gabbiani pittor fiorentino, Firenze 1762), tanto che sembra quasi un breve riassunto di quest’ultima (si veda Galetto 2018, pp. 167-168, 178-179, 200).

37 Maier 1954, pp. 102-113; Romano Cervone 1991-1994, pp. 169 e 174-175.

38 Vd. soprattutto i sonetti su Veturia, Virginia, Claudia e Arria.

39 Sul quadro commissionato dal Marchese N. M. Pallavicini, Rudolph 1995, pp. 73-80. Oggi si trova a Stourhead, Wiltshire, The National Trust, ma all’epoca era a Roma. Il quadro è stato dipinto tra il 1695-1699 circa e poi ritoccato da Carlo stesso intorno al 1706; la datazione pertanto non è troppo lontana dall’ideazione dei primi di questi sonetti di Faustina.

40 L’Ercole al bivio (1595-1596) di Annibale Carracci, in origine era al centro del soffitto del “Camerino” Farnese (Roma, Palazzo Farnese), nel 1662 fu portato nel Palazzo del Giardino di Parma e dal 1734 è a Napoli, dove si trova tutt’ora (Museo di Capodimonte). Questo dipinto, tanto caro a Maratti e a Bellori (che gli dedica una lunga descrizione, Bellori 1976, pp. 47-49), era noto a Faustina attraverso le incisioni possedute dal padre e da lei ereditate dopo la sua morte.

41 Il mito era narrato da Prodico di Ceo nelle sue Ὧραι, opera di cui sappiamo poco. Noi infatti lo conosciamo grazie alla parafrasi contenuta nei Memorabilia di Senofonte (Mem. II, 1, 21-34).

42 Rudolph 1995, p. 75. Sul rapporto di Faustina con il committente della tela, Ead. 1991-1994, p. 401.

43 Sull’importanza di tale formazione, Romano Cervone 1991-1994, pp. 174-175.

44 Non bisogna dimenticare che Faustina fu allieva di Guidi.

45 Le tre citazioni sono riprese da brani di Bellori relativi a opere di Carlo Maratti, Bellori 1976, pp. 593 e 623.

46 Liv. Hist. II, 40.

47 Gli eserciti che Roma inviò contro i Volsci guidati da Coriolano.

48 Liv. Hist. II, 40, 5-9.

49 Negli ultimi due versi Faustina sembra tener a mente quanto scritto in Liv. Hist. II, 40, 11-12, sulla fama acquisita dalle donne romane grazie a questo gesto.

50 Catone l’Uticense era lo zio di M. G. Bruto, pertanto lui e Porzia erano cugini.

51 Val. Max. Fact. Mem. IV, 6, 5.

52 Giorgetti 1915, p. 44; MAIER 1954, p. 104.

53 Val. Max. Fact. Mem. IV, 6, 5. La vicenda è narrata anche in Plut. Brut. LIII, 4-5, ma l’autore pone dubbi sull’autenticità del suicidio di Porcia; la fonte più vicina alla poesia di Faustina resta il testo di Valerio Massimo.

54 Basti pensare a Dante che fa dell’Uticense il custode della montagna del Purgatorio.

55 I carboni ardenti che pascette per togliersi la vita.

56 Cipriani Valeriani 1989, pp. 129-130.

57 In particolare, la risposta alla domanda di Valerio Massimo, sottolineando la nobiltà del suicidio per amore, e la volontà di dare al gesto di Porzia la giusta importanza.

58 Morandi 1888, pp. 587-601; migliau 1911, p. 59; Maier 1954, pp. 107-113; Romano Cervone 1991, p. 50. I due sonetti furono però probabilmente composti diversi anni dopo il quadro del padre di Faustina. Sicuramente Carlo Maratti era ormai defunto al momento in cui Zappi recitò questi due componimenti.

59 Sulle controversiae e sulle suasoriae vd. Pontiggia Grandi 1996, p. 434.

60 Nel primo quindi svolgeva la parte dell’avvocato difensore, nel secondo dell’accusatore.

61 Sui due sonetti dello Zappi, Morandi 1888, pp. 587-589, il quale ne dà un giudizio molto severo.

62 Croce 1937, p. 149. Il modo diverso, rispetto alla tradizione rappresentata da Livio, di concepire Lucrezia da sant’Agostino in poi, è stato ben ricostruito da Croce in quest’articolo.

63 Ivi, pp. 150-151.

64 Crimine contro Dio per i cattolici; Maier 1954, pp. 108-109 note 89-93.

65 La debolezza di Lucrezia in quanto donna è evocata nel v. 5 quando è paragonata ad una colomba su cui pende l’artiglio degli uccelli predatori, proprio come la spada di Tarquinio pendeva in quel frangente sul suo collo.

66 L’ultimo verso ricorda Dante, Inf. XIII, 70-72. In effetti il tema è lo stesso: un innocente che si suicida per dimostrare la sua innocenza, ma che, così facendo, si macchia di un crimine contro Dio. Zappi, però, da avvocato difensore, pone il suicidio in un modo capace di attenuare la gravità (per i cristiani) del gesto.

67 Il secondo ne faceva esplicitamente un exemplum pudicitiae; Liv. Hist. I, 57-58; Val. Max. Fact. Mem. VI, 1, 1.

68 Morandi 1888, p. 589.

69 Cracolici 2018, pp. 199-200.

70 Croce 1937, p. 152. La vicenda di Lucrezia si trova in Livio, Hist. I, 57-60.

71 Figure retoriche: v. 4 la non sua colpa = litote; la … colpa = iperbato; vv. 7-8 il giorno … l’ultimo giorno = chiasmo; v. 12 il ferro = metonimia per pugnale.

72 « […] ma solo il corpo è stato oltraggiato, l’animo è innocente» le faceva dire Livio (trad. di M. Scàndola); Liv., Hist. I, 58, 7 « […] ceterum corpus est tantum violatum, animus insons».

73 I Tarquini erano una dinastia etrusca e quindi Roma era governata da stranieri; vv. 7-8.

74 Anche questo avvicina la Lucrezia di Faustina a quella di Livio.

75 Testi riportati in Cipriani Valeriani 1989, p. 119.

76 Morandi 1888, p. 601.

77 Cracolici 2015, p. 320 sottolinea come questa poesia sia un unicum nella produzione di Faustina in quanto è l’unica vera e propria ἔκφρασις da lei scritta. Vd. anche Romano Cervone 1991-1994, p. 175.

78 Cracolici 2018, pp. 199-200.

79 Val. Max. Fact. Mem. VIII, 1 absol., 5.

80 Maier 1954, pp. 34 e 55-58.

81 All’inizio delle Vite di Bellori, la Pittura presenta sé stessa affermando: «[…] Nacqui muta, non parlo, e son loquace: | Son finta, son mendace, | E pur dimostro il vero in ogni parte», Bellori 1976, p. 26. Nel sonetto, Aglauro sembra tener a mente questi versi.

82 Previtali 2000, p. 171.

83 Perini 1989, pp. 175-177.

84 Previtali 2000, p. 172.

85 Ibid. Previtali analizza le novità delle descrizioni belloriane rispetto al De Pictura veterum di Franciscus Junius (Amsterdam 1637), il quale, dalla retorica classica, aveva ricavato un metodo diviso in cinque categorie per eseguire l’analisi di una pittura: 1) Inventio sive Historia. 2) Proportio sive Symmetria. 3) Color et in eo Lux et Umbra, Candor et Tenebrae. 4) Motus et in eo Actio et Passio. 5) Collocatio denique sive oeconomica totius operis dispositio.

86 Il detto è riportato da Plutarco, De Gloria Athenensium, 346 f. «πλὴν Σιμωνίδης τὴν μὲν ζωγραφίαν ποίησιν σιωπῶσαν προσαγορεύει, τὴν δὲ ποίησιν ζωγραφίαν λαλοῦσαν» «Ma solo Simonide chiama la pittura poesia silenziosa e la poesia pittura parlante».

87 Hor. Ars poet. 361.

88 La pittura di storia è la pittura di soggetto storico, mitologico o religioso.

89 Bellori 1976, p. 11. Sul metodo di Bellori vd. Perini 1989; Previtali 2000, pp. 171-174.

90 Insieme a quelli di Raffaello, Annibale Carracci, Poussin e Domenichino.

91 Sul ritratto vd. Rudolph 2000, p. 492.

92 Bellori 1976, p. 572.

93 Maier 1954, pp. 105-106; vd. anche Morandi 1888, pp. 600-601; Migliau 1911, pp. 59-60.

94 La vicenda è narrata in Liv. Hist. III, 44-50, il paragone lo si può leggere nel libro III, 44, 1-2. Anche in Val. Max. Fact. Mem. VI, 1, 2 la vicenda di Virginia è narrata subito dopo quella di Lucrezia nel capitolo dedicato agli exempla di pudicitia.

95 Da notare il bel chiasmo dei vv. 7-8: doglia … furore: vinca, … vinca … furor … doglia.

96 Lei era figlia sì di un plebeo, ma virtuoso e pur sempre cittadino romano.

97 Il volto del padre era divenuto pallido, quasi fosse privo di vita (v. 10) e al v. 3 Virginio è definito disperato.

98 Per il son., Migliau 1911, p. 60; Maier 1954, p. 106.

99 Già Boccaccio (De mul. LVIII; si tratta del capitolo dedicato a Virginia) aveva dato a Virginia un ruolo più attivo rispetto a Livio e Valerio Massimo (vd. Filosa 2012, pp. 158-161), ma anche in lui è pur sempre il padre a prendere l’iniziativa di ucciderla, azione per la quale Boccaccio giudica il padre fin troppo severo. La versione di Faustina è quindi diversa anche da quella di Boccaccio ed è chiaro il suo voler entrare in competizione con le fonti antiche.

100 Liv. Hist. XXIX, 14, 12; Ov. Fast. IV, 305-349. è questa la versione seguita da Faustina nel sonetto.

101 Il tema della donna che si merita una gloria maggiore dei comandanti dell’esercito si ritrova simile nel sonetto di Veturia. Il trionfo di Claudia sancito dalla divinità è un tema che Aglauro riprende da Ov. Fast. IV, 343-346.

102 Plinio il Giovane Epist. III, 16, 3.

103 Plinio il Giovane Epist. III, 16.

104 Morandi 1888, p. 600; Maier 1954, p. 104.

105 Val. Max. Fact. Mem. VIII, 3, 3. Sezione «Quae mulieres apud magistratus pro se aut pro aliis causas egerunt».

106 Si veda il v. 3; il numero cento è un’iperbole che vale qui a designare un numero elevato.

107 In realtà, come usuale, l’orazione fu da lei tenuta nel foro romano.

108 Tebro è un altro nome del fiume Tevere.

109 La donna che conosce quindi l’ars dicendi.

110 Come dimostrò Ortensia il cui discorso raggiunse il suo fine, pertanto ‘piacque’.

111 Figure retoriche: v. 1 qual … vietato errore = iperbato; mai non portò = anastrofe; v. 2 la … ambizione = iperbato; non mai sazia = litote (da notare il mai posto in terza posizione nei primi due versi); vv. 6-7 degno nome = enjambement.

112 La storia, celeberrima, è riportata in Plut. TG I, 4-5. Al tempo di Faustina erano disponibili diverse traduzioni in volgare, per es. Vite di Plutarco Cheroneo de gli huomini illustri greci et romani, Venezia 1567, p. 523.

113 Liv. Hist. II, 10.

114 Liv. Hist. II, 13. Lo storico aggiunge che i romani per la prima volta onorarono una fanciulla erigendole una statua equestre sulla sommità della via Sacra.

115 Orazio Coclide.

116 Cracolici 2018, p. 206.

117 “Il Tebro vede nella gran contesa stare un sol suo figlio” ecc.

118 è la prima parola del v. 5, è posta quindi in positio princeps.

119 vv. 1-4, Orazio Coclide; vv. 5-8, Clelia; v. 9 e la prima metà del v. 10, Orazio Coclide; seconda metà del v. 10 e v. 11, Clelia; vv. 12-14, in comune.

120 I Romani dovevano restituire il territorio di Veio da loro occupato ai veienti, mentre Porsenna dal canto suo avrebbe ritirato il presidio sul Gianicolo (Liv. Hist. II, 13, 4-5; Plut. Publ. XVIII-XIX, 1-5).

121 Cracolici 2018, p. 205. Per le fonti della storia vd. anche Ronen 1974, p. 8 e nota 22.

122 Plutarco predilige questa versione, ma avverte che non tutti sono d’accordo; Plut. Publ. XIX, 1-5.

123 Liv. Hist. II, 13, 6; Plut. Publ. XIX, 1-5; Flor. Epit. X, 7 («Cloelia, per patrium flumen equitabat»).

124 Vd. per es. Vite di Plutarco Cheroneo de gli huomini illustri greci et romani, Venezia 1567, pp. 120-121.

125 Val. Max. Fact. Mem. III, 2, 2. Da ricordare che la versione di Clelia che attraversa il Tevere a cavallo è quella che, attraverso Valerio Massimo, era stata accettata anche da Boccaccio (De mul. LII, capitolo dedicato a Clelia, dove Boccaccio ne fa un exemplum positivo di audacia; Filosa 2012, p. 171 e Tabella 2; Ead. 2015-2016, p. 172 nota7). Sul rapporto di Boccaccio con i testi di Livio e Valerio Massimo, le sue principali fonti per il De mulieribus claris, vd. Filosa 2012, pp. 155-158.

126 In realtà non ricevette un trionfo, ma varie ricompense, tra le quali una statua nel Comizio, Liv. Hist. II, 10, 12-13; Plut. Publ. XVI, 7, che scrive però che la statua bronzea fu posta nel tempio di Vulcano (Vite di Plutarco Cheroneo de gli huomini illustri greci et romani, Venezia 1567, p. 119).

127 Ricordiamoci che al v. 4 Faustina l’aveva definito invitto sottolineando come il ponte fu difeso grazie a lui.

128 Liv. Hist. II, 13, 9 « […] et apud regem Etruscum non tuta solum sed honorata etiam virtus fuit […]».

129 Plut. Publ. XIX, 5 (Nella versione italiana Vite di Plutarco Cheroneo de gli huomini illustri greci et romani, Venezia 1567, p. 121 si parla di virile e animosa impresa).

130 Val. Max. Fact. Mem. III, 2, 2 « […] viris puella lumen virtutis praeferendo».

131 Cracolici 2018, pp. 205-206.

132 I così detti “affreschi quadrati” del Salone di Villa Lante sul Gianicolo (1524-1525 ca.) sono di Giulio Romano o di altri membri della bottega di Raffaello, Carunchio – Örmä 2005, pp. 77 e 86-87. Nell’Ottocento sono stati staccati ed oggi si trovano a Palazzo Zuccari a Roma, una delle sedi della Biblioteca Hertziana di Roma.

133 Polidoro da Caravaggio, Perin del Vaga, Maturino, Benedetto da Pagni, Vincenzo Tamagni e Giovanni da Udine. Nell’ ’800 questi affreschi furono staccati ed oggi si trovano anch’essi a Palazzo Zuccari a Roma. Su questi affreschi vd. Carunchio – Örmä 2005, pp. 77-82.

134 Lilius 1981, pp. 143-156; Carunchio – Örmä 2005, pp. 77-82.

135 Ronen 1974, p. 9. Restano un’incisione e un disegno di questa scena (si vedano le figg. 3-4 in Ronen 1974).

136 Ronen 1974, p. 8; Carunchio – Örmä 2005, p. 80. Un buon elenco di opere in cui ricorrono le scene di Orazio Coclide che difende il pons Sublicius e di Clelia che attraversa il Tevere, si trova nell’articolo di Ronen 1974, in particolare le pp. 8-14 (e le figg. 2-9 e 11-16). Dalle immagini presenti in questo articolo si vede chiaramente come normalmente gli artisti seguissero la versione di Clelia a cavallo, che era quella che era stata adottata anche da Boccaccio.

137 Cracolici 2018, pp. 205-206.








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