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Le figure anatomiche di Giulio Bonasone

Laura Scalabrella Spada
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 1 Marzo 2019, n. 865
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Tradurre la fisicità del corpo umano in rappresentazioni visuali è sempre stato un problema cruciale nell’intera storia dell’arte europea, e una delle maggiori preoccupazioni di artisti e filosofi dell’età moderna. Il potenziale discorsivo delle immagini che riguardano il corpo umano abbraccia categorie intellettuali di enorme rilevanza, poiché esse racchiudono la possibilità di destabilizzare un sistema culturale basato sull’implicita veridicità di nozioni scientifiche, sociali e politiche. Durante l’età moderna, gli artisti, medici e filosofi della natura europei erano impegnati in furiosi dibattiti riguardo a tali questioni, per via di vorticosi cambiamenti sociali, prodigiosi sviluppi tecnologici, e un peculiare susseguirsi di scoperte che si sviluppavano, parallelamente, negli ambiti sia geografico che anatomico.

Questo articolo si concentra su una piccola serie di figure anatomiche prodotta da Giulio Bonasone, incisore e pittore bolognese, nella seconda metà del sedicesimo secolo, che riguarda sia la percezione del corpo umano sia la sua rappresentazione figurativa in modalità non tradizionali. Bonasone fu un artista di discreto successo attivo a Bologna e Roma tra il 1531 e il 15741, autore di numerosissime stampe e alcuni dipinti; nel suo ancora oggi autorevole catalogo Le Peintre Graveur, Adam Bartsch lo definisce un noto incisore, prolifico e inventivo nelle sue riproduzioni ma non sempre costante nella qualità dei suoi lavori.2 Prodotta, secondo Stefania Massari, intorno ai primi anni 60 del cinquecento,3 la serie anatomica oggetto di questo studio presenta diverse caratteristiche di peculiarità ed enigmaticità, che non trovano precedenti nella pure abbondante produzione di studi anatomici del periodo. Questa collezione, che consta di 14 immagini indipendenti tra loro, non è ancora stata sottoposta a una analisi approfondita: questo testo dunque si propone di colmare, parzialmente, tale lacuna. Nello spazio limitato di questo studio, la discussione non comprenderà la collezione di incisioni nella sua interezza, ma si concentrerà su alcune stampe che rivestono un particolare interesse nell’ambito dello sviluppo di conoscenze e pratiche anatomiche.

Il carattere singolare di queste figure è immediatamente evidente: in diverse tavole, le figure interagiscono con una varietà di oggetti ambigui, o estranei ai canoni stilistici tradizionali delle immagini anatomiche moderne (un globo, una corda, un oggetto rettangolare, un ramo di un albero rinsecchito). (Fig. 1, 2, 3, 4) Diversi temi ed elementi presenti in immagini ben più conosciute del Quindicesimo e Sedicesimo secolo, come ad esempio le fedeli riproduzioni di ogni muscolo, organo od arto, oppure l’inserimento della figura umana in qualche genere di ambiente naturale o architettonico, sono stranamente assenti. I corpi che popolano le incisioni anatomiche di Giulio Bonasone esistono in uno spazio privo di connotazioni, posizionati precariamente su una superficie piatta e anonima. Più simili a fregi marmorei dell’età antica che a immagini incise su carta, ogni figura appare in rilievo, contrapposta a un cupo e monotono sfondo costituito da spesse linee nere.

In questo articolo si vuole suggerire che queste figure, piuttosto che proporre una accurata raffigurazione del corpo umano ad uso degli studiosi di medicina, rispondano invece alle complesse implicazioni sociali e psichiche indissolubilmente legate al violento atto di dissezione. Nell’età moderna il corpo umano manteneva ancora il suo implicito valore in quanto immagine di Dio e centro ideale del cosmo; eppure, si apprestava a diventare sempre più un mero soggetto di norme culturali, legislazioni e vincoli. Tuttavia, il corpo andava ricoprendo una importanza sempre più cruciale nell’ambito della produzione del sapere: non è un caso che il termine sviscerare indichi non soltanto l’atto di indagare, approfondire, studiare esaurientemente, ma anche quello, assai più crudo, di sventrare, lacerare, distruggere. Annullare il corpo per arrivare a conoscerlo, dunque. Una simile nozione, e conseguentemente complesse tensioni intellettuali e sociali, era già presente durante l’età moderna, quando la pratica di dissezionare cadaveri a scopo (principalmente) didattico cominciava a diffondersi in tutta Europa.

Tradizionalmente, le figure anatomiche dell’età moderna esprimevano con enfasi quasi retorica la propria autorità culturale. L’attenzione minuziosa per i dettagli e la fedele aderenza all’apparato testuale, che generalmente le accompagnava, rivendicavano una credibilità che dipendeva dalla assoluta aderenza alle forme naturali. In questo ambito, tuttavia, è fondamentale evidenziare come il concetto di anatomia come disciplina scientifica, e del resto la nozione stessa di “scienza”, fosse alieno alla cultura e alle pratiche dell’età moderna.4 Le concezioni di quel periodo che riguardavano il mondo naturale e gli elementi in esso contenuto, tra cui il corpo umano, non erano disposte attorno categorie inamovibili: la produzione del sapere era un processo fluido, basato spesso più rappresentazioni visuali che sullo stabilirsi di norme, leggi e convenzioni. L’immaginazione dell’artista non era assoggettata a sistemi filosofici o scientifici, ma era al contrario un autonomo mezzo creativo, con la propria autorità.5

Uno dei concetti essenziali, nella produzione e diffusione di questo genere di immagini, era l’assimilazione del corpo umano alla configurazione divina dell’intero cosmo. Per questa ragione le illustrazioni appartenenti a trattati di storia e filosofia naturale tendevano a rappresentare il corpo umano (maschile) come modello idealizzato, la forma naturale nella sua accezione più perfetta. 6 Tale pensiero combinava dogmi religiosi con le auctoritas dell’età antica, tra cui fondamentalmente il precetto filosofico pretagoreo secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”. Tornando alle figure anatomiche di Giulio Bonasone, è evidente come sia la varietà di movenze, gesti e azioni ad essere uno dei punti focali di questa serie di immagini, piuttosto che una rappresentazione idealizzata del corpo. Le espressioni facciali, distorte e tese, così come le tensioni irrealistiche, forzate e contratte dei muscoli tradiscono un’attenzione a questioni ben diverse. Per riconoscere appieno l’unicità di queste immagini, tuttavia, è necessario contestualizzarle rispetto ai contemporanei sviluppi nello studio del corpo umano.

La pubblicazione in sette volumi del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio nel 1543 rappresentò, come è generalmente noto, una svolta nelle modalità di visualizzazione e cognizione del corpo. (Fig. 5) Includendo illustrazioni originali, riccamente dettagliate e direttamente corrispondenti al corpo testuale (con l’ausilio di annotazioni, inscrizioni, cartigli), questo trattato di anatomia umana sviluppava e promuoveva non solo un sistema di pratiche innovative riguardo alla medicina e all’esplorazione del corpo durante le dissezioni, ma anche una nuova epistemologia basata sul corpo umano, tesa a individuare norme e regole, alla ricerca di un corpo ideale. Come già accennato, i problemi di veridicità e attendibilità riguardanti la riproduzione del mondo naturale e dei sui elementi per mezzo di immagini assunsero nell’età moderna un carattere ancora più cruciale nella raffigurazione del corpo umano. Queste rappresentazioni, infatti, caratterizzavano la produzione e la diffusione del sapere anatomico tanto quanto le contemporanee scoperte mediche, al punto che le nozioni di dissezione e identità personale diventarono presto interconnesse, se non addirittura mutualmente dipendenti.

I rinnovamenti apportati dalla Humani Corporis Fabrica consistevano non solo nella correzione di alcuni errori commessi da Galeno, già comunemente noti ma ancora parte del sapere medico generale. Piuttosto, come ha argomentato Andrea Carlino nel libro La Fabbrica del Corpo, Vesalio proponeva una nuova metodologia di ricerca, attraverso la quale non soltanto affermava il potenziale didattico della dissezione, ma forniva anche un mezzo per una verifica critica ed empirica della conoscenza del corpo che era stata tramandata da testi più antichi.7 Vesalio era stato il primo a rendersi conto di come la pratica della dissezione fosse l’unica guida possibile per una descrizione affidabile delle varie parti del corpo umano. Il metodo che introdusse era così sia didattico che investigativo, tanto che corpo e testo contribuivano insieme a comunicare questo nuovo sapere. Dalla Fabrica perspira così una particolare enfasi sull’importanza di combinare contributi visuali a insegnamenti e ricerche più astratte.8

Le incisioni anatomiche di Giulio Bonasone, al contrario di quelle di Vesalio, non sono prodotte per studi comparativi o analitici del corpo umano. I corpi, così rozzamente schematizzati, assemblati più secondo il caso che seguendo studi metodici, non potrebbero essere più lontani dall’intento normativo della Humani Corporis Fabrica. Se le illustrazioni di questo trattato si susseguono l’un l’altra in un progressivo svelamento del corpo e di ciò che è al suo interno, in un percorso di scoperta parallelo a quello della lettura del libro (dove le pagine si fanno metafora di pelle, muscoli, ossa) in questa collezione di stampe non è presente un simile espediente metodologico.

È significativo che la serie di illustrazioni anatomiche di Giulio Bonasone non faccia riferimento ad alcun testo. Piuttosto che codificare norme specifiche e comunicare informazioni o dati precisi e quantificabili, queste figure preferiscono interagire con chi osserva in modo più immediato, attraverso gesti, posture e mimiche facciali. Ed è proprio da questo elemento non verbale che scaturisce il senso di inquietudine di queste raffigurazioni. Naturalmente, l’atmosfera enigmatica, impenetrabile e a tratti macabra di queste stampe appartiene anche ad altre immagini di dissezioni dello stesso periodo (si vedano, ad esempio, le stampe di Charles Estienne e William Harvey): tutte rappresentano, in modi diversi, la stessa abietta visione di un corpo morto che torna in vita, eretto in posizioni naturali come se fosse vivo, che esibisce oscenamente i propri muscoli, tendini e ossa.9

È Giorgio Agamben a puntualizzare, nel suo saggio Nudità del 2009, come il desiderio di mostrare la carne, di forzare il corpo in posizioni incongrue e triviali, sia una strategia psichica tesa a destabilizzare, a disconoscere la radice divina cui il corpo umano, nel campo sia teologico che psicanalitico, è indissolubilmente legato. Ciò che si intende rivelare, in queste posture forzate, è l’irrimediabile ed irreparabile perdita dello stato di grazia.10 La nudità, il corpo nudo (e dunque anche il corpo anatomizzato, poiché lo stadio estremo di nudità è quello in cui sono rimossi non solo i vestiti, ma la stessa pelle) come simbolo del sapere appartiene a un vocabolario filosofico-mistico, perché incarna precisamente il processo di scoperta, di appropriazione di un particolare discorso conoscitivo. Sempre Agamben ci ricorda che dalle immagini scaturisce una particolare fascinazione perché non rappresentano la realtà, la cosa, l’oggetto, ma più propriamente la possibilità di conoscerlo, di capirlo.11

È dunque dalla rappresentazione del corpo che è possibile trarre un più perspicuo sapere anatomico. Questa intuizione, dal gusto quasi esoterico, trova un essenziale riscontro nelle immagini finora citate. Non è solo il contenuto di queste illustrazioni, ma anche e soprattutto le modalità di visualizzazione dei corpi che le situano in un contesto più astratto e intellettuale, in cui il sapere non è semplicemente trasmesso ma prodotto ex novo. La comunicazione tra figure e apparato testuale, i riferimenti all’arte classica, i contenuti allegorici, i dettagli paesaggistici e le rovine architettoniche presenti nelle rappresentazioni di corpi nell’ambito anatomico non sono semplicemente dettagli ornamentali, ma mezzi iconografici intesi a supportare una concezione particolare della figura umana. Tutti questi particolari contribuiscono non solo a produrre e disseminare nozioni specifiche sul valore dello studio anatomico (riallacciandosi a un’autorevole cultura classica) ma anche, forse, a mediare tra il desiderio di conoscenza e l’angoscia generata dall’atto fisico della dissezione, del resto ancora pesantemente stigmatizzato.12

Sia in Italia che in Europa, i cadaveri venivano anatomizzati in una configurazione teatrale, durante esibizioni dai forti toni liturgici. L’autopsia era una pratica soggetta a rapidi cambiamenti: da lezione privata per studiosi di medicina e chirurgia, si apprestava a diventare uno spettacolo pubblico, aperto ad un ampio spettro sociale (artisti, artigiani, o anche spettatori casuali).13 L’aspetto ritualistico delle dissezioni umane, una solenne combinazione di punizione pubblica e produzione di sapere, di norme, di convenzioni, è un aspetto fondamentale della cultura dell’età moderna, e gioca un ruolo importante nell’analisi e comprensione di raffigurazioni anatomiche. Come ha specificato Jonathan Sawday nel suo fondamentale libro The Body Emblazoned, pubblicato nel 1995, performance così drammatiche combinavano prassi teatrali, dimostrazioni bio-politiche di potere giudiziario, e infine allusioni filosofiche all’origine divina del corpo umano, con tutte le sue implicazioni teologiche.14 I concetti di crimine e punizione erano nozioni inestricabilmente legate tra loro nella cultura dell’Italia rinascimentale. La dissezione pubblica come massima pena, una pratica comune in Italia già dalla seconda metà del tredicesimo secolo, era concepita non solamente per evocare terrore all’idea di una così pubblica umiliazione, di una violazione totale del proprio corpo, ma anche per aggiungere un’altra accezione, addirittura più morbosa e crudele, a una sentenza già assai severa: l’interdizione della sepoltura cristiana, che dunque implicava una punizione postuma –ed eterna- dell’anima del criminale, cui era negata la possibilità di accedere al Paradiso.15 Inoltre, lo stigma sociale associato alle dissezioni pubbliche giaceva anche nella drammatica violazione dell’onore personale e familiare, e nell’umiliazione generata dall’esposizione pubblica del corpo nudo.16 Questi temi dovevano essere ben presenti nella mente degli artisti che si dedicavano a illustrazioni anatomiche, ed è indubbio che provocassero reazioni emotive non indifferenti, inevitabilmente destinate a riemergere nella propria produzione artistica.

È assai probabile che lo stesso Giulio Bonasone si recasse spesso al teatro anatomico di Bologna per assistere a questi spettacoli. Del resto, lo studio delle proporzioni umane e la visione in prima persona di ossa, muscoli e legamenti era considerato (ed è tuttora) l’approccio obbligatorio per imparare a rappresentare in modo corretto il corpo umano, e dunque tappa obbligata per artisti o aspiranti tali. Fu inizialmente Lorenzo Ghiberti, nei suoi Commentarii del 1447 a dichiarare esplicitamente che “[bisogna] auere ueduto notomia acciò che' llo scultore sappi quante ossa sono nel corpo humano uolendo comporre la statua uirile et sapere e muscoli sono nel corpo dello huomo et cosi tutti nerui et legature sono in esso.”17 L’importanza di tale dichiarazione non può essere ridimensionata: tuttavia, idee simili esistevano già, in nuce, come attesta Leon Battista Alberti, il quale, nel trattato De Pictura del 1435, consiglia ai pittori di disegnare il corpo nudo componendo dapprima le ossa, poi i muscoli, e infine la pelle18, dando così per scontata una certa conoscenza metodica dell’anatomia umana da parte dell’artista. È comunemente noto come già nel primo cinquecento, lo studio dell’anatomia nel percorso di formazione artistica avesse una posizione consolidata nelle cosiddette pratiche della “bella maniera”,19 specialmente dopo i progressi di Leonardo e Michelangelo nello studio della composizione realistica delle figure umane. Innumerevoli studi di singole ossa, arti e muscoli rimangono ancora oggi, a prova di quanto fosse esteso lo studio dell’anatomia umana in quel periodo.

L’atto punitivo dello scorticamento (la rimozione della pelle) era un’altra pratica associata non solo allo studio anatomico e al sistema giudiziario, ma anche ad attività artistiche. Secondo diversi studiosi di cultura medievale e rinascimentale, tra cui Sarah Kay, rimuovere la pelle come atto punitivo era non solo un ricorso legislativo, ma anche una forma di giustizia poetica o morale. Benché istigato come punizione, tale processo poteva essere in un certo modo invertito, e addirittura accolto come un atto penitenziale, una sorta di sacrificio cristiano, ponendo il criminale in una dimensione quasi cristologica.20 Così, l’estrema sofferenza di una simile tortura, sia fisica che intellettuale (il dolore fisico e la perdita definitiva di identità) può essere sublimata in una astratta, quasi spirituale invulnerabilità.

Un dettaglio interessante, a proposito del legame tra anatomia e intento punitivo, è che nel famoso teatro anatomico di Bologna, particolarmente attivo a metà del sedicesimo secolo, ogni dissezione pubblica iniziasse con la cerimoniale, formulaica descrizione della morte del cadavere anatomizzato in quella particolare occasione (di solito, il criminale veniva impiccato).21 La presenza ricorrente di corde nelle illustrazioni anatomiche di Giulio Bonasone sembra essere un riferimento esplicito a questa densa cultura di punizione, umiliazione e rituale pubblico. Sorprende l’atteggiamento quasi insolente di questa figura (Fig. 2), che volta categoricamente le spalle allo spettatore, quasi a rievocare, escludendo ogni possibilità di contatto visivo, la propria perdita di identità, la propria riduzione da uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, a oggetto di studio, non più dominatore della natura ma semplice elemento parte di essa.

Questo stato duale del corpo, teso tra sacralità e materia, sembra essere concretizzato in questa incisione (Fig. 3) in cui la figura umana è letteralmente sdoppiata: il corpo è per metà ancora ricoperto dalla carne e per metà scheletro. Nelle illustrazioni anatomiche dell’età moderna questo tipo di raffigurazione si avviava già a diventare un tropo ben codificato, non soltanto perché rappresentare contemporaneamente la pelle, i muscoli e le ossa sottostanti offriva una quadro comprensivo di come le strutture ossee influenzino il movimento dei muscoli,22 ma anche perché si riferiva a concetti allegorici e filosofici riguardanti la caducità della vita terrena. Un esempio significativo di questa tendenza si riscontra, ad esempio, in questa incisione prodotta da Domenico del Barbiere ispirata a un disegno di Rosso Fiorentino (Fig. 6), dove due écorché (figure di corpi scorticati) e due scheletri sono rappresentati simultaneamente: l’esasperata minuzia con cui i muscoli, contratti in pose forzate e innaturali, sono raffigurati, riflette il vocabolario visuale del contemporaneo stile manierista. Se i dettagli dei trofei e delle spoglie di guerra sono facilmente riconoscibili come riferimenti allegorici al valore effimero delle conquiste e glorie terrene, l’enigmatica tenda che funge da sfondo nella parte destra dell’immagine, e il sudario che avvolge lo scheletro a sinistra, quasi facendo il verso alla corona d’alloro che cinge la testa dell’écorché che lo accompagna, sono evidenti allusioni all’inevitabilità della morte. Nelle stampe di Bonasone, invece, simili riferimenti allegoriche sono accuratamente evitati. Inoltre, lo scheletro di questa immagine, (Fig. 3) se messo a confronto con quello di Domenico del Barbiere, è rappresentato goffamente, senza alcun interesse per l’accuratezza delle forme (si veda ad esempio il dettaglio della mano destra, dove sia il palmo che le dita sembrano ancora avvolte dalla carne); è evidente come l’attenzione sia riservata interamente al gesto dimostrativo, enfatico, quasi retorico, del braccio destro. L’enigmatico oggetto rettangolare su cui si poggia la mano destra, possibilmente un dettaglio architettonico o perfino un tronco d’albero, reso in termini estremamente stilizzati, contribuisce a rendere questa incisione ancora meno decifrabile. Ma è forse il particolare dell’espressione facciale che genera il cupo senso di angoscia e smarrimento che pervade questa immagine. La bocca aperta, quasi a emettere un continuo lamento, e le palpebre abbassate (o, forse, aperte su bulbi oculari cavi) rendono questa figura più una terribile visione infernale che una rigorosa illustrazione tecnica.

Il parallelo tra l’incisione effettuata dall’artista sul metallo per produrre le immagini e quella eseguita sul cadavere durante l’atto anatomico era indubbiamente ben presente nelle menti di chiunque si occupasse di tali pratiche. Le stampe, facilmente accessibili e riproducibili su larga scala, diventarono presto il modo più comune ed efficace per trasmettere e diffondere ogni tipo di sapere, tra cui quello medico-anatomico, generando così uno stile con canoni e vocabolari visuali ben definiti nelle proprie convenzioni di rappresentazione. Durante l’età moderna l’incisione, una tecnica che richiede una particolare specializzazione e caratterizzata da lunghi procedimenti e risultati non sempre all’altezza, era concepita non solo in relazione ai materiali che utilizzava, ma anche alla sua natura e alle sue potenzialità. Come Sarah Kay ha dimostrato, una delle peculiarità culturali pertinenti al medioevo e all’età moderna era considerare il materiale d’uso (nel caso delle incisioni il metallo e la carta) come ulteriore spazio di significazione all’interno dell’immagine,23 e le similarità tra l’atto di rimuovere la carta dalla placca, e strappare la pelle dal corpo non poteva passare inosservata.

Questa immagine dalla serie di figure anatomiche di Giulio Bonasone (Fig. 1) mostra una figura che tiene in mano un oggetto simile a un globo24 posizionato nell’angolo in alto a destra. Tuttavia, sia la posa del corpo che l’ombreggiatura di questo oggetto potrebbero lasciare spazio per un’altra interpretazione forse di più ampio respiro: sembra quasi che il cadavere scuoiato stia aggrappandosi all’angolo ripiegato della stessa pagina su cui è inciso. Così come l’anatomista tira via la pelle dal cadavere, per scoprire le funzioni interne di un organismo ancora essenzialmente misterioso, così l’incisore, non più artigiano ma artista conscio del suo ruolo attivo di intellettuale nella cultura rinascimentale italiana, tira via la carta dalla placca di metallo, per svelare una nuova immagine, un nuovo sito di conoscenza. Il corpo scuoiato sembra tentare di rimuovere ancora un altro strato di pelle, quello della pagina impressa sulla placca, come a voler ricreare la stessa procedura cui esso stesso è stato sottoposto.

Altre tavole nella collezione di stampe anatomiche (ad esempio Fig. 7) rappresentano il cadavere che rimuove la propria pelle, stringendola come fosse un mantello, o addirittura una toga. È stato ipotizzato da diversi studiosi che tale iconografia fosse stata diffusa da contemporanee rappresentazioni devozionali di San Bartolomeo,25 una fra tante quella di Michelangelo nel suo Giudizio Universale. Più che una convenzione visuale, tuttavia, rappresentare un cadavere nell’atto di scuoiare se stesso era sia un modo per disegnare le caratteristiche di ciascun muscolo preservando l’unità del corpo umano, sia una strategia per generare profonde, viscerali risposte affettive nello spettatore (e forse, anche per rimuovere medici e chirurghi da una narrativa densa di tensioni sociali). I cadaveri “auto-anatomizzanti” popolano non solo le pagine della Fabrica di Vesalio, ma sono un tropo esistente già da diversi anni, come dimostra ad esempio il trattato Isagogae breves in anatomiam humani corporis, pubblicato nel 1523 da Berengario da Carpi a Bologna (Fig. 8) e compaiono in testi altrettanto famosi, come la popolare Historia de la composicion del cuerpo humano dello spagnolo Juan Valverde de Amusco, stampata a Roma nel 1556. (Fig. 9) A metà tra un plagio e un genuino tentativo di miglioramento, la Historia, com’è noto, riproduce la quasi totalità delle illustrazioni della Fabrica di Vesalio (senza attribuirgliene la paternità), combinandole, in alcuni casi, insieme, producendo così immagini particolarmente penetranti, che rappresentano ancora oggi un fertile terreno per lo studio delle pratiche dell’età moderna nei confronti del corpo umano.26

In simili illustrazioni la pelle, non più percepita come una mera superficie, diventa invece un sito intellettuale produttivo, dove venivano proiettate questioni politiche, culturali e psicanalitiche. Come è stato già discusso, il fatto che la pelle (o la sua rappresentazione) possa significare allo stesso tempo bellezza e abiezione, o invocare attrazione e repulsione simultaneamente, manifesta il potenziale della pelle per contenere significati molteplici, a volte contraddittori.27 E contraddizioni e ambiguità sono parte integrante di questa illustrazione (Fig. 7). L’ombra del cadavere non si dissolve nello spazio circostante, come ci si aspetterebbe: invece, si ferma all’improvviso a contatto con lo sfondo, rinforzando l’apparenza della figura come un rilievo statuario piuttosto che un corpo inserito in uno spazio verosimile. Il cadavere è disegnato nel processo di tirarsi via la pelle, così che il corpo appare, ancora una volta, come diviso a metà: un lato è ancora avviluppato dalla pelle, mentre l’altro mostra agli spettatori le proprie interiora. Una inquietante ombra di quello stesso corpo, tuttavia, pare emergere dall’ammasso di pelle che stringe nella mano sinistra. Una massa inerte, appena allungata verso il basso, questo sacco di pelle si trasforma in un doppio, in scala ridotta, del corpo da cui proviene. La pelle del braccio destro assume, leggermente rigirata, la forma di una gamba. La pelle staccata dalla gamba, invece, mantiene la sua forma, e riproduce, quasi rispecchia, quella fatta di carne. Non c’è incontro né scambio tra queste due figure, il cadavere e la sua ombra. In quello che sembra un rifiuto di ammettere la propria frammentazione, la propria dissociazione, il cadavere volta enfaticamente la testa lontano dal suo doppio, niente più che un’ombra di se stesso, fatta di pelle appesa attorno al nulla, che cinge il vuoto. La rimozione della pelle comporta una brutale eliminazione dell’identità personale, perché mette a nudo uno dei sommi equivoci della condizione umana: la localizzazione dell’essenza del proprio io non all’interno del corpo ma sulla pelle, l’involucro che lo avviluppa.28

Nelle illustrazioni anatomiche, il corpo diviene una entità individuale che può essere indagata, razionalizzata, normalizzata, rendendo così lo scisma, lo sdoppiamento tra la carnosa materialità del corpo e l’intangibile concetto di coscienza individuale, un sito di produzione di sapere. In queste illustrazioni di Giulio Bonasone, il corpo diventa quasi uno spazio da colonizzare attraverso una astrazione mentale, e la sua pelle una rappresentazione territoriale del luogo in cui avviene l’atto di dissezione. Come nota Didier Anzieu nel suo saggio L’io-pelle del 1985, la pelle funziona in una maniera paradossale, poiché è una forma di identità che percepiamo in modi simultaneamente opposti: permeabile ed impermeabile, superficiale e profonda, veritiera e fuorviante, causa di piacere e dolore.29 Considerando questi fattori riguardo alle illustrazioni di anatomie e dissezioni, dove fantasie di mutilazioni cutanee sono liberamente espresse, Anzieu conclude che taluni artisti rinascimentali avessero percepito (e rappresentato), ben prima di scrittori e psicanalisti, il legame tra la pelle e un certo perverso masochismo.30 Il tema di infliggere dolore a noi stessi e ad altri è espresso in modo esplicito in questa incisione di Bonasone, (Fig. 10) dove un uomo giace morto ai piedi di un’altra figura maschile, parzialmente scuoiata, che stringe in mano un coltello. Questa immagine rappresenta una peculiare rielaborazione dei temi e delle convenzioni iconografiche finora esposte. Se l’immagine del cadavere che disseziona se stesso era già parte di un consolidato vocabolario visuale, lo sdoppiamento tra vittima e carnefice non era mai stato espresso in condizioni così evidenti. Questa illustrazione incarna, in tutti i sensi, tale processo di separazione corporea. Se nel trattato di Vesalio è lo stesso corpo ad essere rappresentato più volte, pagina dopo pagina, rimuovendo di volta in volta strati di tessuti per giungere dalla pelle alle ossa, questa rappresentazione preferisce invece sdoppiare il corpo, separandone le funzioni di vittima e carnefice: è il cadavere a fare anatomia di se stesso. Queste illustrazioni cercano ulteriori significati attraverso la messa in discussione del concetto di identità individuale e della nozione di integrità corporea, frammentandola progressivamente.

Rappresentare i cadaveri dei criminali come autori della propria dissezione era una strategia per complicare i rituali che circondavano il compimento del reato e la comminazione della pena nei tribunali e nei teatri anatomici. Attraverso l’atto di auto-dissezione, è stato affermato, questi corpi interiorizzano l’atto punitivo, poiché si piegano all’obbligo sociale di generare un sapere anatomico; eppure, allo stesso tempo, resistono ai codici penali dell’età moderna, dettando i tempi e i modi della produzioni di conoscenza.31 In questa immagine, (Fig. 10) il corso degli eventi non è chiaro: l’incisione potrebbe rappresentare una scena di omicidio, forse una ricostruzione dell’atto criminale commesso in vita dal cadavere, ora anatomizzato, che lo ha condotto alla pena capitale e alla pubblica dissezione. Viceversa, allo spettatore potrebbe essere offerta una visione della stessa figura in due diversi momenti nel tempo: l’uomo che lacera la pelle e spalanca il suo addome, sulla destra, potrebbe star prefigurando il fato (la sua vita dopo la morte, come produttore di sapere) dell’uomo che giace, senza vita, ai piedi del piedistallo. Tale immagine, complicando la narrativa della dissezione, apparirebbe certamente meno disturbante se le due figure fossero rappresentate separatamente, come accade nel trattato di Vesalio. Essere invece rappresentati come coppia introduce un particolare tipo di abiezione, che è generato dal dissolversi di barriere concettuali tra vita e morte, spazio interno ed esterno, Io e Altro.

Il concetto di abiezione è stato concepito e sviluppato estensivamente da Julia Kristeva nel suo libro Poteri dell’Orrore, pubblicato nel 1980. Basato principalmente sulla psicoanalisi lacaniana, il testo definisce l’abiezione come il processo infantile di espellere con violenza una parte di sé. Tuttavia, ciò che è abbietto non può mai essere permanentemente escluso, ma rimane parte di noi, e ci accompagna attraverso le nostre vite costantemente, mettendo alla prova le nozioni individuali di identità e integrità. Secondo Kristeva, il cadavere è il sito principale dove i limiti tra il sé e l’altro sono cancellati, collassano, perdono significato. La visione del cadavere ci ricorda che la morte è inevitabile, ma il cadavere in sé non è semplicemente una allegoria, un simbolo della mortalità umana. Invece, agisce come una inestinguibile infezione che intossica le nostre vite, violando i nostri confini mentali. Il cadavere, l’epitome dell’abiezione, viene costantemente rifiutato, ma allo stesso tempo è l’unico elemento da cui non siamo in grado di staccarci.32 Questa incisione pare incarnare sia l’incontro traumatico con il cadavere, sia la sua pervasiva abilità di inquinare le nostre percezioni. Il corpo morto, che giace sgraziato sulla sinistra, è ormai ineluttabilmente perduto; quello a destra, che ripete la propria dissezione strappandosi la pelle e esibendo l’interno del suo addome (rappresentato, tra l’altro, senza alcun interesse riguardo la sua correttezza anatomica), si colloca a metà tra la vita e la morte, cadavere tornato in vita solo per morire di nuovo. I corpi di Vesalio (anche attraverso la loro coesistenza con le rovine classiche, che ricordano allo spettatore come integrità e frammentazione non siano in opposizione binaria ma possono prendere l’una il posto dell’altra), intendevano trasformare i corpi anatomizzati in categorie di sapere; quelli di Valverde tentavano di generare un sito dove esplorare le contraddizioni insite nel tentare di tradurre la corporeità in rappresentazione.33 Questa immagine, invece, sembra porsi un obiettivo completamente diverso. Certamente il corpo non è rappresentato come la figura ideale, sede di perfezione e norme comuni; e nemmeno è un tentativo di rivelare l’inerente instabilità del corpo anatomizzato. Forse, è una cupa insinuazione che la conoscenza non può essere raggiunta attraverso l’accumulazione di dati tecnici. L’unità corporea, persa durante l’atto di dissezione, non può essere più recuperata; la frammentazione è inequivocabile e inarrestabile.

Nel limitato spazio di questo articolo si è voluta proporre una nuova metodologia per una valutazione più approfondita della serie di figure anatomiche di Giulio Bonasone. L’intera collezione richiederebbe naturalmente uno studio assai più dettagliato, data la quantità di originali spunti e particolarità, forse unici nel contesto dell’Italia Rinascimentale e moderna. Queste immagini sembrano reagire alle complicate circostanze culturali che riguardavano lo studio del corpo umano, teso tra la ancora rilevante autorità religiosa e le nuove tendenze filosofiche, secondo cui l’uomo poteva (e doveva) essere analizzato attraverso pratiche fino ad allora riservate ad elementi naturali collaterali. L’effettivo momento della dissezione, che si apprestava a divenire un rituale sociale dalle rigorose codificazioni, generava in spettatori ed esecutori intense reazioni emotive; tali reazioni, al momento della traduzione dell’atto anatomico in immagini, venivano manifestate in modalità assai diverse tra loro. Generalmente, il tentativo era di ricostituire una certa unità corporea nonostante la violenta lacerazione del cadavere (lacerazione tanto fisica quanto psichica). Nella serie anatomica di Giulio Bonasone, invece, lo scopo sembra essere l’opposto: esasperare la divisione tra la fisicità del corpo e il senso di identità personale, e replicare indefinitamente l’idea di cesura, sdoppiamento, frammentazione, producendo nello spettatore uno strisciante senso di morbosa abiezione.






NOTE

1 Sulla biografia di Giulio Bonasone si veda CUMBERLAND 1793.

2 BARTSCH 1866, p. 104.

3 MASSARI 1983, p. 109.

4 Su questo tema si veda, ad esempio, BECK 2015.

5 Sulla natura generativa dell’immaginazione artistica si vedano, ad esempio, KUSUKAWA 2012 e PARSHALL 1993.

6 Su microcosmo e macrocosmo, si veda FOUCAULT 1967. Come è noto, nel secondo capitolo di questo testo Foucault descrive quello che definisce un “cambiamento epistemico”, avvenuto alla fine del diciassettesimo secolo, riguardo la percezione del corpo umano come microcosmo dell’intero universo. La sua analisi, benché tuttora rilevante, è oggi ritenuta eccessivamente trionfalista, e in un certo modo asservita a periodizzazioni troppo marcate.

7 CARLINO 1994, pp. 5-7.

8 Ibid.

9 WILSON 1987, p. 63.

10 AGAMBEN 2009, p. 75.

11 Ibid., 84.

12 Si veda FERRARI 1987.

13 Ibid., p. 55.

14 SAWDAY 1995, pp. 75-76.

15 Ibid., p. 55.

16 PARK 1994, pp. 13-14.

17 GHIBERTI 1998, p. 6.

18 ALBERTI 1980, Vol. II, par. 36.

19 Si veda, tra gli altri, SCHULTZ 1985 p. 67.

20 KAY 2006, p. 47.

21 SAWDAY 1995, p. 75

22 GINN, LORUSSO 2008, pp. 297-298.

23 KAY 2006, p. 36.

24 Secondo l’interpretazione di Adam Bartsch, si veda 1866, p. 168.

25 KAY 2006, pp. 38-39

26 Le controversie tra Vesalio e Valverde sono di estremo interesse, ma tuttavia non trovano spazio nel limitato scopo di questo articolo. Su Valverde hanno scritto, tra gli altri, KLESTINEC 2005, e WOLF 2007.

27 CAVANAGH, FAILLER, JOHNSTON HURST 2013, p.2.

28 KAY 2006, p. 47.

29 ANZIEU 1989, p. 17.

30 Ibid., p. 20.

31 POWELL 2011, par. 19.

32 KRISTEVA 1982.

33 SAN JUAN 2008, pp. 57- 60.




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The Boundaries of the Body and Scientific Illustration in Early Modern Europe, 2007,

https://web.archive.org/web/20070310133207/ http://www.bronwenwilson.ca/physiognomy/pages/biographiesall.html



PDF

Fig. 1
Figura 1 GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 11, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra


Fig. 2
GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 2, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra



Fig. 3
GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 14, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra



Fig. 4
GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 3, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra




Fig. 5
ANDREA VESALIO, 1543,
Illustrazione dal trattato De humani corporis fabrica
Incisione,
Wellcome Collection, Londra



Fig. 6
DOMENICO DEL BARBIERE, 1540-50,
Studio anatomico,
Incisione, 238 mm. x 338 mm.,
British Museum, Londra



Fig. 7
GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 13, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra



Fig. 8
JACOPO BERENGARIO DA CARPI, 1523,
Illustrazione dal trattato Isagogae breves
Incisione su legno,
National Library of Medicine, Bethesda, Maryland, U.S



Fig. 9
Figura 9 JUAN VALVERDE DE AMUSCO, 1556,
Illustrazione dal trattato Historia de la composicion del cuerpo humano,
Incisione,
National Library of Medicine, Bethesda, Maryland, U.S



Fig. 10
GIULIO BONASONE, 1550-60,
Tavola 10, Collezione di figure anatomiche Incisione, 153 mm. x 107 mm.
British Museum, Londra







Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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