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Architetture museali come esperienze. La cognizione dello spazio nella dimensione liquida

Francesca Avallone
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 17 Luglio 2019, n. 873
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Area Architettura

Daniel Libeskind afferma che la valenza estetica di una sua opera architettonica conta quanto l’esperienza personale che se ne può fare al suo interno1. Diversi criteri per raggiungere lo stesso risultato: osservare, valutare, occupare uno spazio per comprenderlo, per dargli un significato, realizzarlo.

Questa ricerca di evasione dalla dimensione obbligata, l’aspirazione verso qualcosa che sia altro, ha portato la parabola del progresso architettonico fino al margine estremo rispetto il punto di partenza, verso la conquista di una dimensione psicologica; il visitatore al suo interno, immerso in una forma museale lontana dalla logica simmetrica tradizionale e da un percorso prestabilito, diviene un personaggio del ciberspazio di Novak, un visitatore che interpreta il significato dell’opera che ha davanti in un modo unico e sconosciuto ad un altro visitatore. Potrebbe partire da qui una nuova riflessione sul concetto di visitatore (spettatore, fruitore) liquido, con un radicale cambio di prospettiva e di approccio al lavoro di organizzazione di una mostra.


L’approccio alla didattica in chiave contemporanea non può prescindere dai risultati ottenuti in campo scientifico nello studio della percezione degli spazi. Se intendiamo la didattica come un’esperienza, sia essa di avvicinamento al mondo museale, sia come accompagnamento una tantum, ritengo sia necessario considerare gli studi sulla percezione come fattori di influenza determinanti in un percorso espositivo. La didattica non può più affidarsi esclusivamente a materiali di supporto alla visita, laboratori o lezioni sul posto, ma modificare i metodi in funzione dello spazio, secondo una necessità fondamentale per lo sviluppo museologico contemporaneo.

Le ricerche che riguardano la percezione degli spazi sono funzionali non solo alla comprensione degli stimoli e delle risposte prodotte dal cervello durante l’occupazione di un determinato luogo ma, anche allo studio in fase di progettazione di un edificio. A tal proposito, risale al 1998 la scoperta di un’area della corteccia paraippocampale specializzata nel «codificare la geometria dell’ambiente circostante»2. Tale area si attiva nella percezione di paesaggi urbani, spazi naturali esterni, edifici e rappresentazioni virtuali di spazi interni su uno schermo, particolare che non può non riportare alla mente la teoria di Novak e del cyberspace. Di particolare interesse, è l’importanza che l’esperienza e la conoscenza assumono come variabili: maggiore sarà la familiarità di un dato edificio e delle prassi architettoniche per l’individuo, maggiori saranno gli stimoli che l’area della corteccia sarà in grado di captare e elaborare. Quindi, da un punto di vista museologico, le singole conoscenze architettoniche e spaziali influiranno durante una visita anche prendendo in esame complessi monumentali classici e esposizioni di oggetti bidimensionali o tridimensionali che siano. Che si tratti di un museo che espone in prevalenza quadri su tela e che si sviluppi in un edificio dalla struttura classica o che si parli di un’architettura liquida occupata da installazioni luminose, lo spazio circostante influirà, seppur in modo diametralmente diverso, nella lettura degli oggetti. Viene in aiuto della mia tesi l’opera di Harry F. Mallgrave, L’empatia degli spazi, e gli studi riportati nelle sue pagine; i modi secondo i quali il corpo umano reagisce neurologicamente nella lettura di un determinato spazio, sono stati indagati da Irving Biederman e Edward Vessel. Secondo la tesi3 dei due studiosi, il cervello umano tende per natura alla conoscenza, ed è per questo particolarmente sensibile a determinati stimoli. Semplificando in queste righe i processi chimici e neurologici che permettono connessioni tra gli spazi esterni e le attività interne al nostro corpo, il risultato dello studio dimostra come, in presenza di un edificio che impegni il cervello nell’osservazione e che ricopra gli aspetti di novità e piacevolezza, si attivino i trasmettitori oppioidi - le endorfine naturali del corpo - mettendo in azione il «circuito dopaminergico del piacere»4. La presenza di queste due caratteristiche, – novità e piacevolezza – stimola la curiosità, rendendo l’apprendimento più veloce e allontanando la noia, uno dei fattori responsabili dell’attivazione del processo dello «stufarsi» teorizzato dall’architetto Adolf Göller nel 1887 all’interno del saggio, What is the cause of perpetual style change in architecture?. Göller considerava l’architettura come un gioco5, un oggetto intrinsecamente piacevole che non aveva bisogno di essere giustificato da un significato altro. I motivi che determinavano il continuo cambiamento stilistico nella progettazione architettonica sono stati teorizzati da Göller secondo due concetti psicologici: quello di «memoria iconica» e quello dello «stufarsi»6. I due concetti, come spiega Mallgrave, sono collegati e dipendenti l’uno all’altro. L’apprezzamento di un dato progetto architettonico aumenta nel corso del tempo in relazione alla maggiore conoscenza, alla chiarezza dell’oggetto e all’affermarsi dello stile. Allo stesso tempo, appena il nostro occhio riesce ad abbracciare in pieno la complessità dell’architettura, la soddisfazione smette di crescere e viene sostituita dalla noia, il processo dello «stufarsi». È in questo momento che deve intervenire l’architetto: per Göller il processo che più di tutti esemplifica tale attività è il passaggio che è avvenuto tra l’architettura del Rinascimento e quella del Barocco. L’inserimento di alcuni moduli costruttivi, alcune variazioni all’interno di una corrente e il passaggio modulare da un tipo all’altro, sarebbero escamotage che rallenterebbero l’assuefazione visiva.

Da un punto di vista architettonico e museale la progettazione degli spazi secondo linee curve e la ricerca di un continuo scambio tra interno ed esterno, privilegiando la luce naturale, risultano scelte vincenti se paragonate agli studi di Biederman e Vessel. Altri aspetti interessanti riguardano le tipologie di scenari preferiti dai soggetti esaminati: sono maggiormente apprezzati gli ambienti naturali rispetto a quelli costruiti e tra questi ultimi, gli uffici rivestiti di vetri riflettenti e affacciati su uno spazio cementato sono decisamente i meno graditi7. Alla luce di tali informazioni, è evidente il marcato interesse per la costruzione di edifici sempre più inseriti nell’ambiente, per la prevalenza di linee curve e superfici trasparenti che mettano in relazione l’interno con l’esterno, la scelta di aree geografiche dal forte impatto visivo, anche quando, ovviamente, non è possibile inserire la costruzione in uno scenario naturale.

Una ricerca8 del neurobiologo A.D. “Bud” Craig collega lo studio delle emozioni all’osservazione dell’architettura, dimostrando come la corteccia insulare, attiva con tutte le categorie dei sentimenti, funzioni, in entrambi gli emisferi, seguendo il circuito neuronale del sistema nervoso autonomo periferico, suddiviso nei sottosistemi simpatico e parasimpatico: questi sottosistemi funzionano in maniera reciproca e opposta a seconda degli stimoli ricevuti, bilanciando, ad esempio, la frequenza cardiaca9. In correlazione e in maniera simmetrica al lavoro del sistema autonomo, la corteccia insulare e nel caso specifico l’insula destra è associata ad attività che producono un dispendio energetico, mentre l’insula sinistra è associata ad attività di rilassamento; vivendo una situazione interessante, fisicamente e mentalmente coinvolgente, l’insula destra si attiva, così come quando proviamo sentimenti di empatia o dolore; in situazioni rilassanti, ascoltando musica piacevole, provando sentimenti di affetto, si attiva l’area sinistra10. Partendo da queste osservazioni si è cercato di capire se sarebbe possibile basare la progettazione architettonica di un edificio anche alla luce di tali dati. Gli edifici andrebbero divisi in edifici rilassanti e edifici stimolanti, e lo scopo finale da raggiungere dovrebbe modificare l’intero studio di forme e materiali. Nel libro di Mallgrave sono presi ad esempio due edifici che potrebbero appartenere alle due categorie: la Neue Nationalgalerie (fig.1) a Berlino, progettata da Ludwig Mies van der Rohe e la Philharmonie di Berlino (fig.2) di Hans Scharoun. L’osservazione dell’opera di van der Rohe, caratterizzata da forme regolari e simmetria degli alzati, stimola l’attivazione dell’insula sinistra, legata a emozioni vicine alla calma e al rilassamento. La regolarità degli ambienti, l’uso di materiali freddi (sia metaforicamente che a livello tattile) non spingono verso l’esplorazione o la scoperta degli spazi, e creano un collegamento con la parte più razionale del nostro cervello11.

Al contrario, entrando nella Philarmonie di Berlino, le linee sinuose, l’uso di materiali familiari come il legno e la pietra, sembrerebbero maggiormente indicati per stimolare una visita coinvolgente. L’altro aspetto fondamentale nell’opera di Scharoun è la totale assenza di un percorso predefinito e di una pianta regolare. L’ambiguità delle forme e l’assenza di livelli definiti al suo interno, rendono l’opera accattivante, spingendo il visitatore a compiere un’esperienza stimolante12. Gli stimoli che attivano l’area insulare destra non sono solo fisici, non si è solo spinti ad attraversare ed indagare lo spazio, ma anche mentali: la mancanza di un apparente ordine predefinito, e la dissonanza rispetto alle sale da concerto alle quali la maggior parte di noi è abituato, spingono la ricerca anche a livello mentale. In spazi come questo si cerca di capire, di attingere dai ricordi, di soddisfare la curiosità verso la quale il cervello umano è naturalmente spinto.

Nella progettazione di un edificio, in particolare di un nuovo museo, non dovrebbe essere considerato solo l’aspetto visivo e spettacolare dell’opera. Gli studi sulle relazioni tra emozioni e architettura, seppur ancora esigui, hanno dimostrato che l’esperienza che gli individui compiono negli ambienti è multisensoriale e che il rapporto che si crea con un luogo avviene prima di tutto a livello neurologico, stimolando una vasta gamma di emozioni. Come spiega ancora Mallgrave, oggi un’architettura studiata su un progetto esclusivamente d’impatto visivo non colpisce nel profondo13, proprio perché non considera l’aspetto emozionale e interiore dell’occupante, la relazione che si andrà costruendo14.

Se consideriamo gli edifici in Italia alla luce di queste teorie, notiamo che la quasi totalità degli istituti scolastici statali, degli uffici, delle aree pubbliche di servizi, non è stata progettata pensando all’impatto che gli spazi avrebbero avuto sulle attività per le quali furono destinati. È come se fosse stata creata una parentesi di vivibilità per determinate categorie di attività: l’occupazione degli spazi scolastici da parte degli studenti, dovrebbe in maniera preponderante stimolare la loro attività di apprendimento, che come abbiamo visto, è influenzata enormemente a livello neurologico dallo spazio vissuto. A questo riguardo apro una parentesi: nel volume, Museo come territorio di Esperienza, l’ambiente, in ambito pedagogico, è descritto come un «terzo educatore»15, concetto teorizzato da Loris Malaguzzi. L’ambiente è considerato esattamente come una presenza, insieme a insegnanti e alunni, che influisce e supporta le attività svolte al suo interno, dall’apprendimento alla socializzazione. Lo stesso discorso vale, di conseguenza, per gli ambienti didattici museali, che secondo le autrici non possono più essere dei semplici «spazi didattici», ma devono essere considerati come «spazi significanti», che rispecchiano il patrimonio del museo e il suo progetto educativo16.

È indubbiamente utopico immaginare ogni spazio condivisibile costruito e progettato in base alle attività che vi si svolgeranno e rispetto agli studi sulle emozioni dell’architettura; l’adattamento degli ambienti e il recupero di edifici in disuso è un aspetto rilevante dell’ultimo decennio e, a mio avviso, necessario per la riqualificazione di alcune zone urbane delle città italiane, ma questo non può far perdere di vista i passi avanti compiuti dalla scienza riguardo al benessere psicofisico delle persone. Per lo stesso motivo, quando risulta necessaria la realizzazione di un nuovo edificio museale, la sua progettazione non dovrebbe più prescindere da tali scoperte. Se uno degli scopi del museo è contenere opere d’arte, quello della didattica è agevolarne la lettura: queste due azioni hanno la caratteristica comune di essere rivolte a una categoria terza e perciò esterna. Il sistema museo non può più apparire come un sistema autoreferenziale: maggiore sarà il suo interesse verso l’esterno, maggiore sarà il successo della sua attività. Per far questo è necessario ripensare i termini della progettazione, accogliendo le novità che vengono da settori diversi ma che, nel seguire i suggerimenti, influirebbero significativamente sull’esperienza attiva. Un museo che punta solo alla plasticità delle forme, all’elemento sorprendente, non è un museo che rispetta il ruolo che ricopre. Ricollegandoci allo studio di Craig, il museo ideale dovrebbe essere in grado di stimolare in maniera equilibrata sia la corteccia insulare sinistra, sia la corteccia insulare destra, fornendo a tutti i visitatori le stesse possibilità di comprensione. Là dove non è più possibile intervenire architettonicamente, si dovrebbe immaginare un’attività didattica coinvolgente, non per questo manuale o laboratoriale. Dove invece, si può ripensare in termini progettuali l’intero sistema, sarebbe necessario studiare i vari modi della percezione, includendo nel team, perché no, anche una figura dal settore delle neuroscienze. L’alternanza di zone riposanti e di zone coinvolgenti, all’interno delle quali le attività che si svolgono sono diverse ma comunque inerenti all’esposizione (quindi senza che bookshop o aree caffè interferiscano nel percorso), potrebbe rendere la visita interessante per l’intera durata. Penso, ad esempio, al concetto di Museum fatigue17, teorizzato negli anni Venti del secolo scorso: l’abbassamento della soglia di attenzione e della capacità selettiva del visitatore durante il percorso museale è maggiore progredendo nella visita e in zone specifiche del museo. Tale prevedibilità è determinata da fattori legati ai singoli visitatori, come il dispendio energetico necessario durante il percorso, all’ambiente cioè al tipo di allestimento, alla tipologia dello spazio in cui ci si muove, e dall’interazione fra queste due categorie di fattori. Probabilmente le ripetizioni di moduli compositivi architettonici standard, come saloni e lunghi corridoi, influisce notevolmente nel calo di attenzione. Come abbiamo visto, l’abitudine nel riconoscere uno spazio, a lungo andare, può portare alla noia e alla conseguente mancanza di attenzione di un ipotetico visitatore. Rendere i musei vivibili senza perdere di vista il ruolo ufficiale che ricoprono è un compito assai arduo, la possibilità di trasformare l’edificio in un moderno luogo di passeggio è un’eventualità da evitare. Sebbene questa possibilità possa apparire come un rovescio della medaglia accettabile, la condizione stessa di esistenza del museo dipende non solo dalla quantità di biglietti stampati ma, soprattutto dalla qualità delle visite stesse. Il messaggio che deve trasparire non è diverso da quello che si è cercato di trasmettere tradizionalmente: per quanto ritengo sia oggi necessario sottolineare l’importanza di indicare come soggettiva la scelta di esporre una o l’altra opera, è l’aspetto comunicativo il principale ruolo che il museo dovrebbe ricoprire e la didattica accompagnare. Considero, infatti, che all’idea di educare, proprio in virtù della soggettività delle emozioni e delle scelte, debba essere sostituita l’attività di comunicare.

Coinvolgere gli studi scientifici sulla percezione degli ambienti architettonici, sarebbe un modo per compiere e aggiornare in maniera complessa ogni aspetto delle attività museali.

Il successo che riscuotono gli edifici di architettura liquida proviene, prima ancora che dalla validità delle esposizioni al suo interno, dalla curiosità che i volumi provocano negli osservatori: si torna al museo non solo per una nuova esposizione, ma per un nuovo allestimento in funzione dello spazio.

Quando torniamo in un luogo come il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo a Roma e decidiamo di compiere il percorso delle esposizioni già visitate in maniera contraria, quello che si sta cercando di capire, è in quale modo la percezione dell’ambiente si modifica con il modificarsi dei punti di vista. Un museo così complesso permette in maniera perfetta tale ricerca: le suggestioni che provoca l’osservazione dello stesso spazio da un piano opposto al precedente rendono la visita in sé una nuova esperienza.

La curiosità verso un luogo che, pur non cambiando la sua struttura portante, non appare mai completamente identico a se stesso produce una curiosità tale nei pubblici da generare un processo di affiliazione al museo non legato alla singola opera, ma alla funzione dell’esperienza.


Tra i progetti non computi da Zaha Hadid c’è lo studio per la realizzazione del Bee’ah Headquarters (2014 - ) in Sharjah, una vera cattedrale liquida nel deserto. Se pensiamo ancora agli studi sul funzionamento del circuito neuronale del sistema nervoso in relazione alle cortecce insulari destra e sinistra, alla loro capacità di produrre oppioidi in occasione dell’attivazione dell’una o dell’altra a seconda delle emozioni provate, rileviamo l’assoluta portata innovativa di tale scelta progettuale.

Il deserto, una zona nella quale la deprivazione sensoriale18 influisce in maniera considerevole sulle capacità percettive, verrebbe interrotto da una costruzione liquida perfettamente inserita nell’ambiente, rispettandone i paradigmi e per questo, adattata. L’improvvisa riappropriazione dei sensi e delle coordinate spaziali, in un ambiente che con probabilità, sarebbe risultato fortemente connotato architettonicamente, avrebbe riattivato gli stimoli e la curiosità, riequilibrando le attività dei due sistemi, creando un passaggio da interno a esterno e viceversa, fortemente stimolante. L’eccezionalità di tale progetto, sebbene sia rimasto sulla carta, è paragonabile alla sua unicità. Tenendo conto della difficoltà di inserire edifici così complessi nella quotidianità urbana delle città europee, non è impossibile ricercare quell’equilibrio che sembra mancare in alcuni scenari. L’arte, di qualsiasi forma di arte si parli, non può ovviamente essere ricondotta unicamente ai progressi scientifici della percezione: i fattori che entrano in gioco mentre osserviamo un’opera sono variabili, molteplici e soggettivi. Così come la progettazione stessa di un edificio non può tener conto esclusivamente di problemi comunicativi, dovendo comprendere nella costruzione dello spazio, locali di servizio interdetti al pubblico.

È facilmente verificabile nella quotidianità che il tipo di spazio nel quale ci troviamo influisce sul nostro comportamento. Altezze da capogiro possono provocare vertigini, o nei più temerari una certa eccitazione; spazi angusti con soffitti bassi ci fanno istintivamente abbassare la testa, anche quando non è necessario; nell’attraversare un percorso buio siamo spinti a seguire la luce come fosse una guida. Questo modo di reagire è perfettamente riscontrabile durante una visita al Jüdisches Museum Berlin realizzato da Daniel Libeskind (fig.3). Questo edificio è un vero e proprio museo dell’assenza, è un contenitore storico e contemporaneamente l’opera d’arte esposta. È necessario fare esperienza dell’architettura che lo caratterizza, essendo questo l’unico vero modo per comprenderne l’essenza. L’opera è un complesso di diversi spazi raccordati tutti dal tema del vuoto. Rappresentare il vuoto è per Libeskind il solo modo per raccontare la tragedia dell’Olocausto, per raccontare la mancanza e l’annullamento corporeo e psicologico di milioni di persone. Il vuoto, la linea a zigzag, la vertigine, sono gli elementi che modificano il passaggio, influiscono sul percorso del visitatore e lo proiettano in uno spazio che è soprattutto assenza. Assenza di punti di riferimento, di prospettiva e di visione globale, sono le caratteristiche del giardino dedicato a Ernst T. A. Hoffmann, nel quale quarantanove pilastri in cemento si susseguono su un pavimento a piani sfalsati, destabilizzando la camminata. Un’alta torre si impianta nello spazio già claustrofobico dell’intero progetto, nella quale un’unica, piccola finestra in alto si apre sul rettangolo grigio (fig.4). L’interno della torre, visitabile per piccoli gruppi, è uno spazio desolante e silenzioso, monotono. Il corpo principale dell’edificio, rivestito di zinco, presenta delle aperture che fungono da finestre ma per le quali non possiamo ricondurre la descrizione a nessuna forma, esprimendo, anch’esse, l’orrore della Storia, e per le quali il termine “lacerazione” appare il più adatto (fig.5). Lo studio per la sua realizzazione non può non aver tenuto conto dei diversi modi con i quali si sarebbe attraversato lo spazio e delle diverse emozioni e reazioni che avrebbe potuto provocare. È l’esperienza del museo come insieme, l’unico modo per comprendere fino in fondo il messaggio. All’interno di edifici come il Jüdisches Museum Berlin, la questione della didattica diviene un argomento ambivalente. Da un lato, la natura stessa di museo richiederebbe la pratica dell’attività; dall’altro, la connotazione spaziale del luogo non lascia spazio a racconti e discorsi, almeno durante il passaggio negli stretti corridoi o tra gli angusti percorsi. Una volta entrati nel perimetro dell’area, compresi i suoi spazi esterni, si riesce difficilmente a parlare. Il silenzio sacrale che lo avvolge non dà spazio a attività di interpretazione in gruppi. L’esperienza individuale, studiata e ricercata, è davvero multisensoriale e collega luogo, corpo e emozioni senza soluzione di continuità. La didattica dovrebbe parlare, probabilmente, dei visitatori stessi, senza i quali, qui più che altrove, il museo smetterebbe di esistere.

Dal rapporto Linee guida per la comunicazione nei musei: segnaletica interna, didascalie e pannelli19, pubblicato nel 2015, traggo informazioni interessanti in merito a un progetto di allestimento realizzato dall’Associazione dei Musei Olandesi. Generalmente, i pubblici vengono suddivisi in tre categorie, in base al tipo di rapporto e alla frequenza con la quale si trovano nei musei20.

I pubblici centrali, cioè i frequentatori abituali, coloro i quali non lamentano serie difficoltà di comprensione durante il percorso museale.

I pubblici occasionali, le cui visite rispecchiano appunto una frequenza saltuaria.

I pubblici potenziali, coloro i quali pur potendo, al momento non frequentano i musei.

La categorizzazione appena elencata non tiene conto del modo in cui si apprendono, se così si può dire, i diversi messaggi durante una visita. Non si considera quindi, lo stile di apprendimento21 che ognuno di noi adotta e che, come teorizzato da David A. Kolb, tiene conto di due assunti fondamentali: quello della «percezione/comprensione» dell’esperienza e quello dell’«estensione/intenzione» con la quale tale esperienza viene interiorizzata22.

La percezione e l’interiorizzazione di cui ho parlato nelle pagine precedenti, trovano ora un riscontro dal punto di vista didattico oltre che neuroscientifico. Infatti, a partire dalle due caratteristiche che influenzano i modi di imparare, è possibile individuare quattro diversi stili di apprendimento. Tale consapevolezza ha reso possibile la sperimentazione di diversi tipi di allestimento e, di conseguenza, di diverse attività didattiche. Ai quattro stili, -il sognatore, il ponderatore, il decisore, il pragmatico -, sono associati i rispettivi modi di imparare, ad esempio la necessità di associare l’esperienza concreta all’osservazione riflessiva, o l’osservazione riflessiva alla concettualizzazione astratta. Per sperimentare il successo della ricerca sono stati realizzati in Olanda dei progetti pilota, pensati esclusivamente per il singolo stile preso in esame23.

Ritengo che immaginare la didattica come un’attività generalizzata o suddivisa per categorie di frequenza non implichi miglioramenti nell’approccio dei visitatori. Vista l’impossibilità pratica di riallestire una mostra quattro o più volte a seconda del tipo di apprendimento considerato, troverei corretto un aggiornamento delle categorie dei visitatori sulla base delle nuove teorie. La percezione delle architetture, come abbiamo visto, è maggiore quante più informazioni una persona è in grado di cogliere dall’osservazione, e sappiamo ormai che anche buona parte della comprensione del percorso espositivo dipende da nozioni culturali acquisite in precedenza. Se si riuscisse a far combinare la responsabilità degli operatori nel trasmettere nozioni inquadrate nel contesto di riguardo, la necessità di rispettare le singole percezioni senza deviarle arbitrariamente e le emozioni provate dalla pura osservazione di un’opera, riusciremmo davvero a segnare una svolta nel percorso didattico generale.

Non si intende la comunicazione dell’arte e dell’architettura come una pratica di meditazione new age, ma come uno studio delle complessità e delle implicazioni dell’attività del vedere. Credo sia ormai chiaro che osservare un oggetto non è una semplice azione, e come tale non ritengo corretto suddividere la visita museale in osservazione e memorizzazione. Se durante la permanenza in luoghi come la Galleria 524 del MAXXI questa totalità dell’esperienza appare evidente, non credo sia una novità assoluta: siamo perennemente immersi negli spazi e osservare un quadro appeso in una stanza bianca da soli o in presenza di una scolaresca presuppone stimoli diversi. La differenza principale, dal punto di vista espositivo, tra i musei classici e i nuovi musei liquidi, sta nell’allontanamento di questi ultimi dalla ricerca di una perfezione subordinata alla perfezione stessa dell’opera d’arte. La perdita d’interesse verso la creazione di spazi perfetti è giustificata dalla consapevolezza che l’arte non è mai stata e non ha mai aspirato a raggiungere perfezione e obiettività. Siamo in grado di percepire molteplici informazioni contemporaneamente e allo stesso modo, siamo in grado di trattare la visita in un museo da punti di vista diversi e soggettivi. Immaginare un aggiornamento delle questioni didattiche dovrebbe interessare ambiti più ampi e specializzazioni interne maggiori, affinché le professionalità siano in grado di rispondere a maggiori e diverse necessità senza dividere, ad esempio, i gruppi di utenti in fasce d’età. Con il decadere di ideali di oggettività dell’esposizione decade, di conseguenza, la necessità di uniformare la didattica secondo criteri assoluti.

La didattica è e la didattica serve ad aprire scenari più ampi, portare all’attenzione punti di vista prima sconosciuti, mescolare ancora una volta conoscenze e dati storici affinché l’immobilismo culturale non prenda il sopravvento come accade parlando dei capolavori25, oggetti che ricoprono perfettamente il ruolo di catalizzatori ma che non percepiamo più.




NOTE

1 D. LIBESKIND, Breaking Ground. Un’avventura tra architettura e vita, Sperling & Kupfer, Milano, 2005, p.205: «Molti dei miei edifici sono difficili da descrivere, ma questo avviene perché per coglierne la qualità bisogna entrarci, sentirne l’atmosfera, l’acustica, la temperatura. L’esperienza personale conta quanto il loro aspetto estetico. Un edificio ben progettato trasmette energia attraverso lo spazio, tramite vibrazioni uditive come il suono dei passi o delle voci attraverso una stanza, oppure tramite effetti ottici, come il modo in cui si presentano una scalinata o una porta, o ancora fisici, come la sensazione trasmessa dal pavimento sotto i piedi.»

2 H. F. MALLGRAVE, L’empatia degli spazi. Architetture e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, p.131. La definizione, citata da Mallgrave, è consultabile integralmente in versione originale in: R. EPSTEIN, N. KANWISHER, A cortical representation of the local visual environment, in Nature, 392, 1998, pp. 598-600.

3 I. BIEDERMAN, E.A. VESSEL, Perceptual pleasure and the brain, in American Scientist, 94, 2006, pp. 247-253. Cfr. MALLGRAVE, Ibidem, p. 132.

4 MALLGRAVE, Ibidem, p.132.

5 A. GÖLLER, What is the cause of perpetual style change in architecture, in H. F. MALLGRAVE, E. IKONOMOU, Empathy, Form, and Space, problems in German Aesthetics, Getty Pubblications Programs, Santa Monica 1994, p. 195. Secondo Göller, l’architettura è definibile come «un gioco privo di significato, intrinsecamente piacevole, di linee o di luce e ombra». Cfr. MALLGRAVE, Ibidem, p. 90-91.

6 MALLGRAVE, Ibidem, pp. 90-91. Si riporta integralmente la spiegazione di Mallgrave riguardo la teoria di Göller: «La memoria iconica di uno stile architettonico si basa sulle immagini stilistiche della propria cultura, e queste immagini gradualmente acquisiscono una progressiva chiarezza o un consolidamento, che suscita maggiore apprezzamento con l’avanzare di un particolare stile. Questa soddisfazione psicologica aumenta, però, solo fino a un certo punto, finché le persone cominciano a stancarsi delle forme culturali, e il processo dello “stufarsi” prende il sopravvento. A questo punto, l’architetto comincia a modificare la composizione o le proporzioni delle forme per infondere loro nuova vita. Per Göller la transizione dalle forme classiche del Rinascimento a quelle più plastiche e pesanti del Barocco esemplifica siffatto processo. Egli notò pure che in seguito queste strategie di modifica non funzionavano più, e la necessità di uno stile del tutto nuovo comincia a manifestarsi, di solito attraverso un processo di semplificazione formale. In questo modo, le leggi interne del cervello controllavano il processo di cambiamento culturale e stilistico».

7 MALLGRAVE, Ibidem, pp. 132-133.

8 A.D. CRAIG, How do you feel-now? The anterior insula and human awarness in, Nature Reviews, 10, 2009.

9 MALLGRAVE, Ibidem, p.146.

10 MALLGRAVE, Ibidem, p. 147.

11 MALLGRAVE, Ibidem.

12 MALLGRAVE, Ibidem, p. 148.

13 MALLGRAVE, Ibidem, p. 149.

14 A tal proposito riporto una frase da: R. NEUTRA, Progettare per sopravvivere, Milano, Edizioni di Comunità, 1956, p. 117. «La nostra performance neuro-mentale avviene su una scena a piani multipli, come una Sacra Rappresentazione medievale. L’emozione è prossima a tutti i piani e non abbandona mai la scena». La citazione, presente nel testo di Mallgrave, si riferisce all’impossibilità di isolare il piano dell’esperienza da quello delle emozioni, dimostrando come tutto sia riconducibile a un complesso indivisibile.

15 Come segnalato nel testo I. DEL GAUDIO, C. FRANCUCCI, Lo spazio come strumento educativo, in C. FRANCUCCI (a cura di), Museo come territorio di Esperienza, Dipartimento educativo MAMbo, Corraini Editore, Mantova, 2016, p. 118, il concetto di ambiente come «terzo educatore», è stato teorizzato da Loris Malaguzzi, fondatore del Reggio Emilia Approach. Per un approfondimento sulla materia si veda: C. EDWARDS, L. GANDINI, G. FORMAN (a cura di), I cento linguaggi dei bambini. L’approccio di Reggio Emilia all’educazione all’infanzia, Edizioni Junior, 2010.

16 DEL GAUDIO, FRANCUCCI, Ibidem, p. 118.

17 Una lettura di approfondimento sul concetto di Museum fatigue è: G. DAVEY, What is museum fatigue, in Visitor Studies Today, vol. 8, issue 2, 2005, pp. 17-21.

18 MALLGRAVE, Ibidem, pag. 149.

19 C. DA MILANO, E. SCIACCHITANO, Linee guida per la comunicazione nei musei: segnaletica interna, didascalie e pannelli, Direzione generale Musei, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Roma 2015.

20 DA MILANO, SCIACCHITANO, Ibidem, p. 45 cfr. con: A. BOLLO, 50 sfumature di pubblico e la sfida dell’audience devolopment, in F. DE BIASE (a cura di), I pubblici della cultura. Audience development, audience engagement, Franco Angeli, Milano, 2014.

21 A proposito di stili di apprendimento si rimanda alle teorie di Kolb in, D. A. KOLB, Experiential Learning: Experience as the Source of Learning and Development, Pearson Education, 2014.

I progetti di allestimento realizzati dell’Associazione dei musei Olandesi partano dalla suddivisione in 4 categorie teorizzata da Kolb alle quali corrispondono altrettante ipotesi espositive.

22 DA MILANO, SCIACCHITANO, Ibidem, p.53.

23 Una tabella esemplificativa dei tipi di allestimento pensati in correlazione ai diversi stili di apprendimento è consultabile in: DA MILANO, SCIACCHITANO, Ibidem, p. 53.

24 La Galleria 5 del MAXXI è uno spazio fortemente connotato architettonicamente, con un pavimento irregolare e una grande vetrata cielo-terra inclinata e affacciata sul cortile del Museo.

25 Mi riferisco alla non discutibilità passivamente accettata riguardo alcune opere universalmente riconosciute come capolavori, una problematica trattata nel libro: S. GIORDANO, Disimparare l’arte. Manuale di anti-didattica, il Mulino, Bologna, 2012, p. 8.



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Vedi anche nel BTA: USCITE DI ARCHITETTURA LIQUIDA



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Fig. 1: Mies Van der Rohe, Neue Nationalgalerie, Berlino, 1968. Ph. Harald Kliems / Licenza Creative Commons

Fig. 2: Hans Scharoun, Philharmonie, Berlino, 1963. Ph. Manfred Brückels / Licenza Creative Commons

Fig. 3: Daniel Libeskind, Jüdisches Museum, Berlino, 2001. Ph. Dominic Simpson / Licenza Creative Commons

Fig. 4: Daniel Libeskind, Jüdisches Museum, Berlino, 2001, particolare. Ph. Dominic Simpson / Licenza Creative Commons

Fig. 5: Daniel Libeskind, Jüdisches Museum, Berlino, 2001, particolare. Ph. Mara Breunesse / Pixabay

Contributo valutato da due referees anonimi nel rispetto delle finalità scientifiche, informative, creative e culturali storico-artistiche della rivista

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