Il relativamente recente cantiere di restauro, oggi finalmente in piena attività, che prevede il recupero edilizio e monumentale del grandioso complesso quattrocentesco di palazzo Nardini, altrimenti detto palazzo del Governo vecchio, ha già consentito di portare alla luce una notevole scoperta, soprattutto per la peculiarità linguistica 1.
In una delle sale che corrispondono alla fase iniziale dell'architettura fatta erigere dall'importante cardinale forlivese Stefano Nardini 2, presumibilmente completata intorno al 1475, è stata rinvenuta parte di un fregio con due episodi di un sottostante ciclo istoriato che doveva correre lungo le pareti e che oggi riappare a una quota totalmente falsata dalla divisione in altezza della sala, con la creazione di un pavimento che taglia in due l'originario ambiente. Questo lacerto è posto nella sala dell'angolo destro rispetto al grande cortile centrale cui si accede dal portale principale di via del Governo Vecchio, l'antica e centralissima via papalis, in una parte riconosciuta come nucleo originario del palazzo cui si accedeva da una scala esterna, ancora oggi conservata, sul lato di via della Fossa. Ridotta a scarsi frammenti la decorazione ad affresco consente tuttavia di leggere un'ampia trabeazione bicroma arricchita da grandi girali d'acanto dove compare al centro lo stemma cardinalizio Nardini (figg. 1-2); immediatamente al disotto un ciclo in cui si dispongono affiancati almeno due frammentari episodi emersi nei restauri ancora in corso (figg. 3-4).
Subito, da una prima rapida percezione, si avverte l'apparente contraddizione tra le due parti. Un elegante e raffinato classicismo, seppure illustrato da un tratto alquanto pesante, restituisce appieno il clima della Roma sistina dei primi anni settanta, ponendosi come importante tramite con le emblematiche decorazioni dell'appartamento di Paolo II Barbo a palazzo Venezia, degli ultimi momenti di questo pontificato (1470-71). Rispetto alle sale Barbo la decorazione Nardini ripete lo stesso motivo antiquariale dei festoni appesi con una patera ombelicata al centro (fig. 5), nella parte estrema superiore, mentre il magniloquente fregio centrale riconduce al filologico classicismo melozzesco, che esalta il recupero del repertorio decorativo antico fino nei particolari della fusarola, delle perle e degli ovoli che decorano l'architettura della Roma imperiale.
La presenza dello stemma Nardini al centro non lascia dubbi sulla cronologia della decorazione che, come attestano diverse iscrizioni su portali in vari passaggi dell'edificio, è lecito porre tra il 1475, data che compare sull'architrave del portale sul cortile del lato più antico del palazzo, e il 1480, quando il palazzo è donato dal cardinale (morto il 22 ottobre 1484) all'Arciconfraternita dell'ospedale del Salvatore al Laterano 3.
A questa cronologia così bassa per la cultura figurativa rinascimentale romana, che vede negli stessi giorni al lavoro Melozzo in Vaticano, Ghirlandaio alla Minerva e prossimo l'arrivo di Pinturicchio e Perugino, in una delle fabbriche più imponenti del centro della città, appare quindi una decorazione di gusto e stile ancora tardogotico, che sarebbe pertinente in un ambito attardato di provincia. Tuttavia lo stemma del cardinale Nardini e la sua pertinenza con il ciclo istoriato nella corrispondente parete non consentono alcuna altra ipotesi, cioè qualunque congettura in direzione di un ambiente decorato precedentemente e in seguito inglobato nell'erigendo palazzo.
Così pure l'analisi delle parti architettoniche riconosciute come le più antiche (quelle del lato del loggiato opposto all'ingresso di via del Governo Vecchio) indica un gusto architettonico attardato, di sapore quasi prerinascimentale, che invece sembra decisamente mutare nelle parti della fabbrica realizzate intorno al 1480, quasi a suggerire un primo cantiere di maestranze estranee agli esiti di un classicismo maturo come quello espresso dalla coeva architettura sistina, in seguito sostituite da altre più aggiornate. Pure corrispondendo alla parte più antica della fabbrica, relativa alle case acquistate dal cardinale dagli eredi di Petri de Nuxeto (morto nel 1471) 4, la presenza dello stemma al centro del fregio dipinto non lascia dubbi sulla committenza e quindi sulla relativa cronologia.
Innanzitutto qualche considerazione sull'iconografia rappresentata. Sotto il fregio classico, a sinistra, due figure di soldati sembrano dialogare (fig. 6). Il primo, solo parzialmente recuperato, reca chiaro il disegno dell'armatura e si appoggia ad una lancia che lo divide dal secondo che sembra tenere in mano un paniere con una forma di pane (il cibo dei messaggeri); accanto a destra, sotto un porticato, due figure ignude sono rappresentate inginocchiate con le mani incrociate sul petto in segno di devozione o di supplica e con lo sguardo rivolto verso l'alto, divise da un pilastrino della loggia (fig. 7). La prima è di belle sembianze giovanili, la seconda invece mostra una lunga barba. Dopo un pilastrino divisorio, il ciclo prosegue sulla destra, con tre figure disposte intorno a una tavola imbandita; quella abbigliata con maggiore prestigio reca in caratteri gotici il nome iscritto Saul e appare seduta su di un seggio fastoso; a destra, un giovane sta tirando con l'arco una freccia rivolto verso destra; un terzo invitato, posto di spalle sull'altro lato della tavola, è girato e indica con il braccio teso la medesima direzione della freccia che sta per essere scagliata; sotto un altro portico archiacuto, un quarto giovane personaggio assiste facendo capolino tra due colonnine e recando in mano una freccia precedentemente raccolta (fig. 8).
Il dipinto sembra alludere a due passi del I libro di Samuele (19,18 e 20,18) nei quali il giovane Davide dopo la vittoriosa lotta contro Golia suscita la gelosia omicida di Saul, incoronato proprio da Samuele come re degli Israeliti. Dopo due attentati alla sua vita da parte dello stesso Saul, Davide fugge dal vecchio Samuele a Rama. Saputo della successiva fuga dei due a Naiot, Saul invia più messaggeri per catturare Davide ma questi insieme al vecchio Samuele è invaso dello spirito di Dio che lo conduce ad assumere i comportamenti del profeta, coinvolgendo anche i messi mandati da Saul. Il senso dell'assumere gli atteggiamenti del profeta è chiaro nel passo (19,24) quando infine anche lo stesso Saul giunse presso Davide e Samuele e «anch'egli si tolse le vesti e fece il profeta» cadendo nudo quindi per tutta la notte e il giorno in ascolto della voce del Signore. Si definisce così la presenza a sinistra dei soldati/messaggeri, mandati da Saul, e, a destra, di due personaggi, quindi il giovane Davide e il più anziano Samuele, posti sotto il prospiciente loggiato, che nudi in ginocchio guardano ispirati verso l'alto. La scena successiva segue la narrazione dello stesso libro di Samuele. Nonostante Gionata, figlio di Saul, non voglia credere alle parole di Davide, circa l'intenzione omicide del padre, convince l'amico fraterno Davide a nascondersi, non comparendo alla mensa del re per tre sere. Lo stesso Gionata escogita uno stratagemma: se dovesse comprendere che il re vuole la testa di Davide scaglierà delle frecce con l'arco dicendo a un suo servitore di raccoglierle; dalle parole che pronuncerà al servitore, Davide comprenderà se darsi alla fuga o se ritornare tranquillamente alla reggia di Saul. La scena quindi raffigura la mensa di Saul, con accanto Abner posto di spalle, mentre di fronte il giovane Gionata (fig. 9) scaglia una freccia con l'arco (un'iscrizione mutila dipinta sulla figura del giovane che scaglia la freccia potrebbe presentare la lettura delle lettere y[...]thas, quindi come Yonathas); sotto il porticato un giovane raccoglie la freccia (fig. 10), impersonando il servitore di Gionata al quale viene rivolta la frase convenuta che porterà Davide a decidere per la fuga.
Tutto il lessico figurativo esibito, dalla grafia tondeggiante e minuta alle pose angolose e alla sintesi anatomica, dal tono favoleggiante all'espressività caricata e ingenua, rinvia alla cultura tardogotica e fa di questo reperto un unicum nella Roma rinascimentale di questi anni. Se era lecito attendersi una datazione prossima alla decorazione della Sala degli Svizzeri nel Palazzo Vaticano, quindi intorno alla metà degli anni '50, si resta perplessi ad immaginare una bottega di un universo figurativo ormai considerato arcaico, attiva in piena età sistina in una dimora cardinalizia di simile fastosità e ambizione, ben lontana dalla dimensione civile e culturale della provincia.
Tuttavia proprio da quella che oggi si qualifica come provincia e che all'epoca doveva ancora esercitare grande rispetto e considerazione per essere il primo centro editoriale dell'Italia rinascimentale, l'abbazia benedettina di Subiaco, potrebbe essere venuto l'attardato esecutore di questa decorazione. Mentre della pittura romana degli anni Settanta - segnata dalle prime elaborazioni della bottega antoniazzesca in direzione di Ghirlandaio e Melozzo, e dall'esaurimento dell'influenza fino ad allora determinante del linguaggio benozzesco - nulla si è conservato di avvicinabile a questo episodio di palazzo Nardini, la roccaforte della potente abbazia sublacense indica, in quegli stessi anni, produzioni di estremo interesse nella valutazione storica di questo inedito romano. La lunga vicenda decorativa del complesso abbaziale, dopo la copiosa e storicamente importante attività decorativa trecentesca, aveva toccato il suo acme agli inizi del secolo con la presenza della bottega di una delle più alte maestranze dell'Italia centrale, quel misterioso pittore presumibilmente abruzzese che si era già esibito a Sulmona, nella badia Morronese e poi a Celano, la cui raffinatezza e carica espressiva è paragonabile solo alle coeve imprese salimbenesche a Urbino e San Severino 5.
Dopo questa eccezionale presenza il cantiere pittorico di Subiaco piega decisamente verso il basso, con la realizzazione di un Giudizio datato 1466 (fig. 11), insieme a un san Girolamo (fig. 12), che segnala per la prima volta la presenza di un curioso maestro, che sembra mescolare grafia tardogotica di radice umbra, nella direzione di Ottaviano Nelli, a patetismo nordico tanto da far supporre un'appartenenza a quella numerosissima schiera di monaci tedeschi, seconda solo agli spagnoli, documentata in quegli anni a Subiaco e responsabile di decorazioni flamboyant, come il magnifico arco del chiostro dei Cosmati, e della notevolissima Madonna lignea con Bambino, ancora oggi conservata nel museo dell'abbazia. Il nome di questo modesto pittore è noto per un'altra impresa, successiva di diciassette anni (1483), che ne costituisce forse anche l'estremo impegno. A Trevi, un centro della valle dell'Aniene della provincia frusinate, all'epoca pertinenza dell'abbazia sublacense, un altrimenti sconosciuto Petrus dipinse la cappellina rurale della Madonna del Riposo alla data iscritta del 1483 (figg. 13-14). Come è già stato notato 6 a questo artefice appartiene il Giudizio sublacense menzionato. Tra le due produzioni il divario di quasi vent'anni giustifica una maggiore monumentalità e una marginale adesione e conoscenza di moduli antoniazzeschi che questa decorazione Nardini - da porre, come si è già detto, tra il 1475 e il 1480 ca.- ignora ma che potrebbe porsi come attestazione di una produzione romana che poteva facilmente aver costituito occasione di aggiornamento sui numerosi coevi testi antoniazzeschi, prima di un repentino ritorno a Subiaco. La cospicua attività di questo maestro, riscontrata in diversi luoghi dell'attuale provincia romana limitrofi all'epicentro sublacense, dal santuario dei Bisognosi presso Rocca di Botte (fig. 15), ai confini con l'Abruzzo, a Paliano nel frusinate (figg. 16-17), con responsabilità per una vasta decorazione in S. Pietro ad Affile, si costituisce in un isolato territorio linguistico che sembra essere stato generato e perpetrato in quell'enclave culturale di Subiaco dove, per tutto il Quattrocento, si incrociavano maestranze internazionali tedesche, spagnole e italiane.
Durante la vasta attività nell'abbazia, che, oltre al Giudizio posto su di una parete dell'atrio di S. Gregorio al Sacro Speco, comprende anche tutta la decorazione muraria dell'oratorio della Crocella, nonché altri brani sparsi per il complesso abbaziale, come due dipinti del monastero superiore, Petrus ripeté coerentemente un dettato di illustrazione devozionale modesto ma di singolare sincresi linguistica. Questa comprendeva le stesse commistioni di gusto e stile riscontrabili nei pochi lacerti visibili di palazzo Nardini. Nella Disputa con i dottori, che costituisce uno dei brani delle Storie della Passione dipinte sulle pareti dell'Oratorio della Crocella, un notevole partito architettonico inquadra la scena. Un vasto portico con grandi arcate laterali, volta cassettonata e soprattutto con una raffinata terminazione con lunetta a conchiglia, è decorato da un motivo di nastri appesi con frutti di memoria veneto-adriatica (fig. 18). Il pavimento è invece movimentato da un curioso rialzo con andamento ondulato e terminazione acuta che invece è rintracciabile in retabli spagnoleggianti o nelle architetture catalane della provincia napoletana degli ultimi decenni del secolo.
Questa contaminazione di gusto tardogotico e formale adesione rinascimentale viene ribadita anche oltre. Poco lontano, nella scena del Cristo davanti a Pilato, ricompare lo stesso porticato, con archi tendenzialmente acuti e modesti capitellini, riscontrato nei due episodi emersi a palazzo Nardini. Ancora. In quella che sembra, subito dopo Trevi, un momento finale della produzione di Petrus, ovvero il riquadro posto al centro di una delle pareti dipinte nel Santuario della Madonna dei Bisognosi, presso Rocca di Botte, da riferire alla metà degli anni Ottanta, il trono dall'intaglio tardogotico della Madonna ripresenta una grafia minuta e approssimata che ripete la stessa capacità di citazione antiquariale espressa nei riquadri divisori del ciclo Nardini. Anche il motivo antiquariale delle perle, dal disegno incerto e il tratto scuro di notevole pesantezza, ricompare nella Madonna in trono con Bambino e i ss. Mauro e Placido (fig. 19), del complesso sublacense, che reca la data del 1478 e che sembra il reperto della decorazione benedettina più stilisticamente vicino alla decorazione Nardini, a conferma di una produzione prossima di quegli anni. Ancora più significativi sembrano poter essere gli accostamenti di tipologie disegnative del repertorio figurale. La medesima modesta definizione di volti ed espressioni con identiche soluzioni di teste ripiegate e pose angolate ancora di tardogotica memoria sembra conformare sia la decorazione Nardini sia le produzioni sublacensi. L'isolamento culturale dell'abbazia benedettina di questi anni ben giustifica questa appartata esperienza di Petrus, seppure nella limitrofa chiesa conventuale di S. Francesco, alle pendici del centro di Subiaco, si potesse precocemente osservare la diffusione della bottega antoniazzesca, che nel 1468 aveva licenziato il notevolissimo trittico per i francescani locali.
Come la decorazione Nardini attesta anche questo estensore mostra una totale estraneità al coevo ambiente romano ribadendo invece gli stessi caratteri di grafia figurata delle decorazioni sublacensi che esattamente in quegli anni, tra il 1466 e presumibilmente la fine degli anni Settanta, vedeva all'opera il maestro Petrus che non lascia più traccia di sé dopo gli affreschi trebani del 1483, secondo le nostre ipotesi dopo aver liquidato anche la decorazione Nardini. L'incarico di protonotario apostolico in Germania potrebbe aver costituito occasione di conoscenza tra il cardinale forlivese e il modesto maestro che è lecito supporre di origine nordiche, seppure il monopolio decorativo acquisito tra gli anni sessanta e gli anni settanta presso l'importantissima sede abbaziale di Subiaco potrebbe giustificare comunque notorietà e prestigio per questo magister Petrus che con identica grafia rispetto ai pochi elementi alfabetici conservati a palazzo Nardini siglava il lungo cartiglio dedicatorio della cappellina rurale di Trevi nel Lazio.
NOTE
1
Sugli esiti del cantiere del palazzo, ancora in corso, e sul rinvenimento degli affreschi v. Strinati (T. Strinati, Brevi note sui restauri di Palazzo Nardini a Roma, in "MonumentidiRoma", 1, 2003, pp. 35-43). Un primo importante intervento sul restauro di palazzo Nardini è quello di Marconi (P. Marconi, Il restauro di Pal. Nardini, Roma Centro 10, Edifici per la cultura, 1989). Ringrazio Livia Carloni, funzionario della Soprintendenza per il Patrimonio storico-artistico ed etnologico del Lazio, che ha curato il cantiere di restauro, e la restauratrice Paola Surace che hanno consentito la realizzazione di questo breve studio.
2
Sulla storia architettonica del palazzo di grande interesse è il ritrovamento delle piante del Maggi che consentono di comprendere meglio la scansione cronologica della fabbrica (E. Morelli, Palazzo Nardini a Roma. Due piante inedite del Maggi e altri documenti d'archivio relativi alla topografia originaria del palazzo, in "Ricerche di Storia dell'arte", 1989, pp. 77-86). Imprescindibili anche gli studi di Bentivoglio (E. Bentivoglio, Alcune considerazioni sul Palazzo del cardinale Nardini nel presentare materiale d'archivio, in "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'architettura", 1976, XXII, fascicoli 127-132, pp. 171-176) e di Magnuson (T. Magnuson, Studies in Roman Quattrocento architecture, Roma 1958, pp. 298-312). Di interesse anche le annotazioni sull'architettura di epoca sistina di Benzi (F. Benzi, Sisto IV Renovator Urbis, Roma 1990, pp. 139-144). Sulle vicende del cardinale Nardini esistono invece poche note biografiche desumibili soprattutto dal Moroni (G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiatica, XLVII, Venezia 1847, pp. 221-222). V. anche Nardini (L. Nardini, La Tomba del cardinale Stefano Nardini ed i suoi due palazzi a Roma, Urbino, 1929).
3
Sulla donazione e su altre considerazioni architettoniche sul palazzo v. Zippel (G. Zippel, Il palazzo del Governo vecchio a Roma, in Atti del Primo Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1929, I, pp. 579-588).
4
Sulle vicende iniziali del palazzo v. Morelli, cit.
5
Sul Maestro di Subiaco e Sulmona v. da ultimo (A. Tomei, Tra Abruzzo e Lazio: affreschi quattrocenteschi nel transetto di Santa Scolastica a Subiaco, in L'Abruzzo in età angioina, atti del convegno internazionale di studi, Chieti 2004, Milano 2005, pp. 237-254, con tutta la bibl. precedente).
6
La prima ricostruzione sull'attività di questo maestro si deve alla Nardecchia (P. Nardecchia, Pittori di frontiera, L'affresco quattro-cinquecentesco tra Lazio e Abruzzo, Casamari (FR) 2001, pp. 167-187. L'argomento sarà di nuovo oggetto di studio di un volume di prossima pubblicazione a cura di chi scrive e di A. Cavallaro, con un saggio di E. Capparelli.
|