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...Eppure siamo ancora "solo umani" Londra,
Crafts Council Gallery
14 ott. 1999 - 9 Gen. 2000
Irene Amore
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 8 agosto 2000, n. 214
http://www.bta.it/txt/a0/02/bta00214.html
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Area Mostre

Alle soglie del nuovo millennio, e allo scadere dello scorso, il significato del termine "essere umano" appare tra i più complessi culturalmente e filosoficamente. Provare a rintracciare e ridelineare la figura umana nella fitta rete delle comunicazioni globali, al passo coi rapidi cambiamenti tecnologici e a fronte della frantumazione postmoderna dell'individuo sembra essere compito particolarmente scomodo.

Eppure ne esiste l'urgenza. Una mostra come questa, dedicata alla riscoperta della coppia romantica "body and soul", ci appare adesso più che mai necessaria proprio perchè affronta un argomento scottante come quello dell'identità dell'individuo in tempi in cui l'avanzata del virtuale e della cultura postmoderna rischiano di nascondere dietro i loro bagliori spettacolari ed il loro astratto idealismo le differenze appunto tra identità culturali, sociali e psicologiche, in una sorta di caos schizofrenico in cui le reali e quotidiane problematiche del convivere in uno spazio sempre più ristretto vengono così facilmente ed artificialmente scavalcate. Only Human, dunque, nei temi che affronta, non è una mostra semplice; nel modo in cui li affronta, è tuttavia una mostra estremamente lucida.

La suddivisione della mostra in tre sezioni è in realtà meno netta e costrittiva di quanto il pannello all'ingresso della galleria lasci intuire. The Self and Culture, The Self and Others and The Self Inside consentono di riorganizzare il tema della condizione umana con un margine di flessibilità, nel tentativo, al tempo stesso, di evitarne la dispersione. Un approccio curatoriale tradizionale in questa scelta lascia così spazio alla possibilità di rintracciare interferenze tra una sezione e l'altra, rendendo l'intera mostra particolarmente compatta e coerente. All'interno di ciascuna sezione artisti di diversa origine e nazionalità, operanti nelle più varie discipline artistiche (dalla ceramica al vetro, dal tessuto al film d'animazione) studiano la figura umana da diverse prospettive e rendono alla mostra una dimensione plurifrangente e variamente coinvolgente. D'altronde l'attenzione prestata dal Craft Council (nella cui galleria questa mostra è ospitata) agli aspetti più provocatori e stimolanti delle arti applicate è politica ormai nota, come dimostrano le passate mostre No PicNic e (Un)Limited.

La prima sezione, The Self and Culture, è dedicata appunto al rapporto tra individuo e religione, etnicità, cultura popolare così come riflesse nella contemporanea cultura multimediale di massa.

Le icone qui riproposte, sia che si riferiscano al passato religioso (come nel caso delle due Pietà, degli stendardi del gruppo di artisti haitiani e nel recupero dell'arte precolombiana di Michael Lucero) sia che sostituiscano drasticamente le classiche immagini religiose con le mitologie introdotte dai massmedia (come negli arazzi di Tass Mavrogordato e nelle installazioni d'argilla di Irene Nordli) verificano sempre uno stridore di accostamenti e la collisione irrisolta di simbologie che tuttavia ancora non hanno perso il loro aggancio con le origini.

Così nella Pietà di Philip Eglin l'iconologia eccellente ed abusata dell'arte cattolica (da Michelangelo in poi) viene riadottata nella sua forma elementare, imbrattata di colori e dei simboli dei peccati dell'uomo e aggiornata con le fotografie di Hugh Grant e Divine Brown. Accanto a questa e con una interessante diversione dalla tradizionale interpretazione dottrinale della Pietà, la Pietà in video di Erzebet Baergveldt associa la versione biblica della storia della creazione di Adamo con la versione ebraica del Golem. In questa "terza versione" il creatore è per la prima volta una donna e la fragilità, il mancato funzionamento ed il crollo della creatura produce una sorta di irrisolta circolarità creazione-caduta.

I coloratissimi e sfavillanti stendardi degli artisti haitiani combinano elementi della religione voodoo e della religione cristiana introdotta dalle missioni occidentali, producendo un effetto di carnevalesca armonia e di grottesco candore; così, nella coniugazione delle due ritualità, il teschio si conforma al crocifisso, laddove le due religioni, per quanto fortemente distanti, pure accolgono entrambe il sacrificio come elemento portante del mito religioso.

Michael Lucero, discendente dei primi messicani stabilitisi nel Nuovo Messico, porta avanti il discorso sullo stridente rapporto tra cultura occidentale e culture primitive ed arcaiche. L'autenticità e originalità della sua produzione artigianale, di evidente estrazione precolombiana e afro-caraibica, viene qui distratta dalla presenza, su ciascuna delle figure in terra e ceramica, dal codice a barre che ne ricorda la riduzione seriale a prodotti commerciali e dalla scritta "Made in New York" che ne sposta l'origine geografica estraniando l'intera opera dalle sue origini. L' Autoritratto di Lucero rappresenta l'intera figura stilizzata dell'artista ridotta in cocci, ad eccezione del vaso ancora intatto ma rovesciato che raffigura la testa, segnale di una ostinata ricerca "sottosopra" di unità nella tradizione.

Ma la vera esplosione del postmoderno appare chiara nelle opere di Tass Mavrogordato e di Irene Nordli, che funzionano da anello di collegamento con la successiva sezione The Self and Others. I tappeti della prima e le porcellane della seconda sono ridondanti di referenti tratti dalla cultura di massa: nel primo caso, a delineare e insieme confondere i concetti di famiglia e di viaggio, nel secondo a definire e insieme deformare le icone legate al mondo infantile. Kill me on TV di Tass Mavrogordato è un montaggio di immagini riferite al mondo delle comunicazioni: satelliti, elicotteri, dinosauri, la bomba atomica, la televisione digitale, testi in giapponese ed inglese (Anyone for Karahoki, o How to shop smart in recession) si combinano artificiosamente attorno alla resistente figura femminile centrale, nascosta con candore dietro una macchina fotografica Nikon.

Musical chairs di Irene Nordli è un grottesco girotondo di ambigui personaggi seduti a darsi le spalle. Il loro corpo asessuato di eroi ed eroine si coniuga fantasticamente con i tratti dei più svariati caratteri della produzione televisiva e cinematografica per bambini (ET, Alien, l'Incredibile Hulk, Action Man, etc.) definendo gli sviluppi surreali e capricciosi del puro mondo infantile.

Come già accennato, queste due ultime artiste anticipano alcuni dei motivi della sezione successiva, The Self and Others dedicata ai rapporti sociali dell'individuo, inclusi famiglia, amici, conoscenti, partners.

Di nuovo, elementi della tradizione artistica vengono associati a fattori di più immediato e personale referente. Nelle opere della scultrice tedesca Gertraud Mohwald, nella installazione di Natasha Kerr e nel video d'animazione del ceco Jan Svankmajer, il messaggio comune è quello della frantumazione dei rapporti interpersonali ed il tentativo di ricomporli seguendo modelli culturali o una puntigliosa ricerca documentaria.

Così i ritratti di Gertraud Mohwald, ricchi di referenti più culturali che personali, non sono altro che frammenti di materiali trovati, per lo più porcellane e argille, ricomposte seguendo insieme un ritmo classico ed un gusto asimmetrico barocco. L'installazione di Natasha Kerr è piuttosto densa di dettagli personali meticolosamente collezionati. Otto's Surgery è la ricostruzione raccontata e disegnata, asettica ed insieme appassionata, della storia del nonno dell'artista, chirurgo di fama nazionale; ma indirettamente vuole essere anche la ricostruzione dell'identità dell'artista stessa. Numerose tracce documentarie, dalla raccolta disordinata di libri ad un paio di scarpe e ai ritagli di giornali, sono montati in questa stanza/ambulatorio a ripercorrere simbolicamente le tappe di una vita semi-eroica e di un passato come quello familiare dal quale ognuno di noi è sottilmente ed irresistibilmente condizionato.

Dimensioni del Dialogo di Jan Svankmajer è uno straordinario studio sulla labilità della comprensione e comunicazione umana. Prodotto nel 1982, durante il difficile periodo del repressivo regime comunista, l'opera di Svankmajer sfrutta un linguaggo trasversale, fatto di oggetti del vivere quotidiano (e di riferimenti al barocco e alle composizioni fantastiche dell'Arcimboldi); adoperati con associazioni buffe e carnevalesche essi diventano metafora della tendenza della società a fagocitare l'individuo, della disfunzionalità dei rapporti interpersonali e del loro trasformarsi in un inesorabile processo di distruzione.

Collegata alle altre due sezioni attraverso un corridoio tappezzato d' argento, quasi un interiore riflettere su se stessi nel passaggio dell'individuo dalla sfera esterna a quella interiore, la sezione The Inside Self appunto considera i pensieri e le emozioni che incidono nella definizione della identità individuale. Questa sezione dialoga con le altre due sezioni, dalle quali pure è isolata, così come la psiche in ogni individuo è in perpetuo dialogo con la cultura ed il contesto sociale in cui si genera. Così in questa sezione l'io viene affrontato a partire da una varietà di punti di vista e in una sfaccettatura di forme che ne rivelano la condizione contemporanea.

Le forme in vetro di Emma Woffenden, talvolta associate ad altri materiali come il legno di una sedia o il metallo della struttura sulla quale di appoggiano, tendono ad astrarre le tensioni interne, già rappresentate nelle "Castings Table" dalla concavità dei pugni, delle braccia e delle dita nel blocco di vetro. La generale ambiguità sessuale di queste forme falliche sembrerebbe alludere ad un ritorno del rimosso, quasi un manifestarsi, esteticizzato e fatto puro nella trasparenza del vetro, dei desideri, delle ansie e delle paure di ogni individuo.

Delle costruzioni ancora in vetro della ceca Dana Zamecnikova, la molteplice identità emotiva femminile fa i conti con la sua univoca immagine così come culturalmente idealizzata. La purezza del vetro sul quale l'immagine della damina settecentesca viene riprodotta, accompagnata dal simbolo stilizzato del bambino con la croce, è stata abbrutita dall'intrusione confusa di altre immagini, dal sovrapporsi dell'immagine dell'uccellino nella mano della damina con quella di un ratto, dal duplicarsi del suo profilo in altre sagome violate e sanguinanti.

Il progetto Access-able, per il quale le foto di Nick Knight sono state inizialmente prodotte, fu ideato dallo stilista Alexander McQueen e pubblicato dalla rivista "Dazed and Confused". Il progetto voleva essere una sfida al senso comune del bello, proponendo immagini patinate di persone mutilate o affette da gravi malformazioni fisiche. Riproposte nell'ambito di questa mostra, le fotografie di Aimee, Catherine, David, Alison e Sue rappresentano il tentativo di affrontare il rapporto dell'individuo con il proprio corpo da un più problematico punto di vista, quello della disfunzione, sublimandone esteticamente la malformazione in un prodotto artistico in cui la disfunzione stessa diventa funzione estetica. L'io di Masashi Honda verifica il modificarsi del concetto di identità: ridotto ad un paio di gambe frenetiche capaci di muoversi in direzioni diametralmente opposte, la sua resistenza, in un contesto fatto di frammenti di graffiti pop, consiste nella capacità appunto di raggiungere un pur sempre instabile equilibrio tra la spiritualità umana e le tecniche sempre rinnovate e adottate per rappresentarla. Le identità femminili rappresentate da Lucy Brown hanno perso la loro consistenza corporea e si sono ridotte qui ad addobbi di seconda mano senza scheletro, sostenute da una fragile struttura. Gli abiti di Lucy Brown rappresentano anch'essi uno spazio di resistenza: il tentativo emaciato di rinventarsi a partire da zero, di riproporre la propria sfinita esistenza nel suo sensuale rosso (Squeeze) e nella sua finta ma protettiva pelliccia (Petti-Fur-Coat).

Il rapporto dell'io con il corpo viene di nuovo indagato nelle duplice forma della difesa e dell'aggressione da Hazel White. L'artificio del processo, che si vorrebbe verificato direttamente sul corpo in forme tipicamente feticistiche, viene ulteriormente accentuato dalla qualità "psichedelica" delle riproduzioni fotografiche a colori. Infine gli oggetti di vita quotidiana (spazzole, bollitori) proposti da Mah Rana nascondono un segreto: sono prodotti utilizzando, talvolta in maniera impercettibile, fedi nuziali di seconda mano. Riproposti con gusto minimale, questi oggetti suggeriscono nella loro essenziale solitudine una ansia domestica e un recondito timore di perdita e di abbandono al quale anche il titolo di una delle due opere qui proposte, Have you ever dreamt that your teeth have fallen out ?, freudianamente allude.

Il percorso di Only Human è terminato. Questa indagine sulle forme di resistenza e sopravvivenza al caos postmoderno, alla vanità globale e all'annullamento delle differenze etniche ha un sapore moderno che mi sorprende. Mi chiedo quanti artisti stanno tentando la stessa resistenza con coerenza e lucidità. Le tentazioni del labirinto contemporaneo sono tante e straordinarie. Lasciarsi tentare senza farsene inghiottire è un lavoro da artisti.




 
 

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