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Decostruire l'architettura: Peter Eisenman e Zaha Hadid  
Marco Enrico Giacomelli
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 17 Giugno 2003, n. 326
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Area Architettura

Premessa

Ciò che va sotto il nome di decostruzione - pur nell'imprecisione della sua singolarità e dell'accento posto su un'apparente metodologia - ha evidenti legami con l'architettura o, meglio, con le riflessioni che alcuni architetti hanno elaborato confrontandosi col pensiero di Jacques Derrida. Innanzitutto occorre sottolineare che la de-costruzione è un'operazione che si distingue dalla Destruktion heideggeriana: non è decompositiva, nel senso che è in sé un'azione positiva e contesta la possibilità di raggiungere, tramite l'analisi, elementi fondamentali. Per queste ragioni, l'idea tradizionale di architettura sembra in palese contraddizione con la decostruzione, in modo analogo al rapporto istituito fra decostruzione e metafisica della presenza: l'architettura ruota intorno al focolare (l'oikos) e in base alla sua legge (l'oikonomia) si regolano gli altri luoghi dell'abitare. La casa fonda dunque l'architettura sulla base di un principio direttivo che funge da origine (arché) e fine (telos): "L'architettura, come la metafisica, si presenta come teleologia dell'abitare" (Roberto Diodato, Decostruzionismo, Ed. Bibliografica, Milano 1996, p. 82).

Fra gli architetti che hanno recepito in maniera più proficua le riflessioni derridiane, Ann van Sevenant (Architettura decostruttiva, Aesthetica Preprint, Palermo 1992) cita - oltre a Peter Eisenman e Zaha Hadid - Gordon Matta-Clark, Frank Gehry, Bernard Tschumi, Coop Himmelblau, Elia Zenghelis, Rem Koolhas e Dirk Coopman. Il momento di maggior visibilità e al contempo fonte di innumerevoli equivoci per la decostruzione architetturale coincide con Deconstructive Architecture, mostra organizzata al Moma di New York nel 1988 da Philiph Johnson.
Queste poche nozioni hanno il fine di contestualizzare alcune recenti affermazioni e realizzazioni di due grandi architetti contemporanei: Peter Eisenman e Zaha Hadid.

Peter Eisenman

Intervistato nel 1999 da Massimo Sodini, Eisenman riassume in poche pagine la sua visione architetturali. Cattura l'attenzione la lista di ispiratori che l'architetto statunitense fa figurare nel suo 'patrimonio genetico': oltre ad Adolf Loos, Mies van der Rohe e Le Corbusier, Eisenman nomina Terragni, Moretti e Cattaneo - capaci di eludere il cosiddetto 'razionalismo italiano'. Ma il rapporto con i 'padri' va interrotto al momento opportuno, poiché ogni architetto dev'essere in primis "esperto di demolizioni" (p. 16). Esemplare in questo senso il dialogo fra Eisenman e Colin Rowe: "Mi ha insegnato a vedere come un architetto" e "gli architetti vedono ciò che non c'è" (p. 11). L'inevitabile rottura avviene a causa della convinzione di Eisenman che le relazioni scaturenti dal non-visibile siano di natura storica, legate cioè allo spazio-tempo, e non confinate in una temporalità stabile e dunque astorica. A parere di Eisenman, "l'egemonia del visibile è cominciata con Brunelleschi, con la prospettiva. Ciò che ho fatto è stato superare il dominio di ciò che riteniamo essere naturale, come la prospettiva" (p. 17). È Terragni ad aver condotto l'architettura fuori dall'egemonia del visibile: "Ciò che l'architettura deve sempre fare, è superare la metafisica della presenza" (p. 18). Si istituisce così un ricorso storico: "Bramante ha preso la forma e da essa ha creato la materia", così come hanno fatto Le Corbusier e Van der Rohe, e anche ora "utilizziamo le stesse capacità utilizzate da Palladio" (p. 43).

Superare il convenzionalismo è la cifra che contraddistingue il lavoro di Eisenman, così come quello di Zaha Hadid: "Ciò che noi assumiamo come naturale in architettura è puramente una serie di convenzioni che reprimono altre convenzioni. [...] Tendo sempre a superare tutti quegli aspetti che hanno precedentemente legittimato l'architettura, tipo la funzione, la struttura, i significati" (pp. 26-28). Questo vuol dire che l'architettura "non è legittimata di per sé unicamente dalla sua funzione" (p. 49). Certo, un edificio dev'essere anche pratico; ma i vari aspetti dell'architettura riguardano più ampiamente "le relazioni tra la pratica, la teoria, la metafisica e il significato delle cose" (p. 8) e, non da ultimo, l'architettura "deve anche parlarci dell'architettura" (p. 10).

Quali sono le tendenze contemporanee dell'architettura? Secondo Eisenman, tre sono le principali: 1. l'architettura intesa come «espressione dello spirito del momento" (p. 24, tendenza rappresentata da Rem Koolhaas); 2. l'architettura intesa come «sensibilità estetica di un certo periodo storico» (p. 25, esemplarizzata da Frank Gehry); 3. l'architettura come «critica sperimentale [...] interna [che] riguarda l'interiorità dell'architettura» (ibid., tendenza incarnata dallo stesso Eisenman). Con questo modo di procedere cadono sotto la scure della 'critica' i concetti fondamentali dell'architettura: il tempo («Sperimentare l'architettura in una sequenza temporale non lineare» (p. 28), in un «tempo disgiuntivo non narrativo», p. 79); i materiali («I miei lavori cercavano di dematerializzare la realtà, in quanto i materiali erano stati già celebrati in architettura», p. 57); lo spazio («A me interessa l'organizzazione concettuale dal macro ambiente dell'edificio e del luogo, al micro ambiente del dettaglio e come ciò funzioni inserito in una metrica concettuale e teoretica», pp. 49-50). Ne scaturisce un'architettura curiosa e aperta : «L'architettura ha sempre a che fare [...] non tanto con il fornire delle risposte a delle domande, quanto con l'occuparsi delle domande stesse» (p. 90). Il concetto chiave è quello di dislocazione: «Dobbiamo superare e dislocare ciò che è normale per scoprire ciò che è possibile» (p. 29). L'architettura è infatti il «regno dell'inaspettato» (p. 68) e come tale «possiamo ipotizzare che l'interiorità dell'architettura derivi da un movimento iniziale di dislocamento, cioè la sua originale condizione sia di dislocare ciò che è collocato» (p. 81). In questo senso, va recuperato un rapporto essenziale con l'intuizione: «Devi distruggere l'esperienza per essere nuovamente in grado di dislocarla e lasciare aperta la strada all'intuizione» (p. 54).


Zaha Hadid e Hélène Binet

Una scelta di piante e disegni preparatorî realizzati da Zaha Hadid accompagnano le fotografie in bicromia di Hélène Binet - nota per saper rendere con suggestività le realizzazioni di tanti architetti contemporanei. Particolarmente interessanti gli scatti realizzati nel corso dell'edificazione, che permettono di intuire le complesse dinamiche del cantiere; ma soprattutto consentono di comprendere l'interesse nutrito da Binet per l' «esperienza architettonica nel processo temporale del suo essere situata o posizionata. Costituisce quindi una sorta di coreografia del cammino dell'architettura, e pure una cronoscopia del suo strutturale erigersi» (p. 70). Nel caso di LF One, Zaha Hadid e Patrik Schumacher hanno concepito una costruzione che supera l'ordine geometrico, per meglio conciliarsi con le caratteristiche paesaggistiche veicolate dalla mostra stessa che l'edificio doveva ospitare. Ne è nata una struttura emergente da un "network of paths": «La sua armoniosa geometria si estende all'ambiente, inventando nuovi paesaggi artificiali e forme terrestri» (pp. 40-41). In un caso apparentemente analogo - la mostra Addressing the Century - Zaha Hadid concepisce uno spazio che partecipa dell'attitudine transfrontaliera veicolata dall'esposizione stessa, che accosta arte e moda. Ogni galleria gode di un design derivato dal carattere degli oggetti esposti, generando «theatrical settings, catwalks and stages»: «Questi paesaggi emergenti inabissano il visitatore e sfocano i confini fra spettatore e spettacolo» (pp. 84-85), dando vita a un'architettura dinamica, complementare al carattere effimero dei soggetti dell'esposizione. Lo stand allestito per l'esposizione Blueprint permette di approcciare con spregiudicatezza i materiali: con una sorta di richiamo critico al Modernismo, l'acciaio è piegato su sé stesso e crea uno spazio all'interno del volume cubico preesistente, incorporando luci e finiture.

Tuttavia è la stazione dei vigili del fuoco edificata a Weil am Rhein che riscuote il maggior successo. Il progetto ha comportato una riflessione in merito al rapporto con il paesaggio circostante, nella fattispecie enormi fabbricati agricoli: «Piuttosto che progettare l'edificio come un oggetto isolato, venne sviluppato il bordo esterno della zona adiacente: definire lo spazio piuttosto che occuparlo» (p. 126). In quest'ottica, la costruzione si presenta con un carattere "ermetico" (p. 127) a uno sguardo frontale, rivelando le sue zone funzionali solo da un punto di vista perpendicolare: «L'intero edificio è movimento, frozen. Esprime la tensione dell'essere in allerta; e la potenzialità a esplodere nell'azione in ogni momento» (ibid.). Ancora una volta, Zaha Hadid connette con originalità e funzionalità lo spazio e il tempo, privilegiando la potentia dell'architettura, il suo carattere fluido e deambulante.

Il testo pubblicato dalla casa editrice svizzera non indica un autore. Zaha Hadid non è il 'soggetto': «Le fotografie di Binet difficilmente sono rappresentazioni dell'architettura di Hadid. Sono piuttosto un'eco, un riverbero. [...] Non sono rappresentazione né commento; illuminano i limiti dell'architettura, sono tocchi tangenziali» (pp. 71-72). L'apparentemente semplice opzione editoriale sottende questioni autoriali di indubbia complessità: l'architettura contemporanea è anche questo, e soprattutto non l'illustrazione di presunti sistemi filosofici.



I libri

Peter Eisenman, Saper credere in architettura, a cura di Massimo Sodini. Trad. it. di S. Servetti, Napoli, Clean, 2001, pp. 95, € 4,13.

Architecture of Zaha Hadid in Photographs by Hélène Binet. Baden, Lars Müller Publishers, 2001, pp. 176, CHF 88,00.


Indici

Peter Eisenman, Saper credere in architettura

Nota del curatore Massimo Sodini
Settantacinque domande a Peter Eisenman
Epilogo di Massimo Sodini e Simona Servetti

Architecture of Zaha Hadid in Photographs by Hélène Binet

LF One - Landscape Formation one in Weil am Rhein. Meeting Point Baden-Württemberg/Trinational Enviromental Centre. Gardening Show in Weil am Rhein, Germany - 1997-1999
Translating Architecture - Points of Reference di Hubertus von Amelunxen
Addressing the Century - 100 Years of Art and Fashion. Hayward Gallery, London - 1998
Blueprint/Interbuild Pavilion - Exhibition stand, National Exhibition Centre. Birmingham, UK - 1995
Vitra Fire Station. Weil am Rhein, Germany - 1991-1993


Gli autori

Hélène Binet (1959) ha studiato fotografia a Roma e dal 1986 si è specializzata in fotografia architetturale, lavorando tra gli altri con Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Coop Himmelblau e Peter Zumthor.

Peter Eisenman (1932) è stato membro dei Five Architects, direttore dell'Iaus e fondatore della rivista Oppositions. Insegna alla Yale University e alla Cooper Union. Tra le sue realizzazioni più note, il Wexner Center for the Visual Arts (Ohio State University at Columbus, 1982-89), per il quale ha ricevuto nel 1993 il National Honor Award conferito dall'Istituto Americano degli Architetti.

Zaha Hadid (1950) ha lasciato l'Iraq per studiare all'Architectural Association di Londra, ove ha insegnato per molti anni insieme a Koolhaas e Zenghelis. A maggio di quest'anno verrà inaugurato il Contemporary Art Center di Cincinnati da lei realizzato.


Links

Clean Editore
http://www.cleanedizioni.it/
Lars Müller Publishers
http://www.lars-mueller-publishers.com/
Peter Eisenman alla Stanford University
http://prelectur.stanford.edu/lecturers/eisenman/
Sito ufficiale di Zaha Hadid
http://www.zaha-hadid.com/






 
 

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