Nella seconda metà del Cinquecento, nella valle collinosa circondata dai Monti Cimini presso il lago di Vico, che secondo la leggenda era nato dal lancio della clava di Ercole che aveva così voluto dimostrare la sua forza ai contadini, le grandi casate romane fecero sorgere una miriade di palazzi e parchi, meraviglie del manierismo per testimoniare sia la loro potenza politica sia la sapienza platonica ed ermetica trasferendo, nel tufo, le tradizioni ricevute dalle Accademie fiorentina e romana. In questi santuari si ammisero solo dèi pagani.
Lo stesso ideatore del bosco di Bomarzo, Pier Francesco Orsini detto Vicino, si liberò del timore di Dio rifiutandone sia il disegno provvidenziale sia la sua istituzione terrena, il papato, reputandolo meno del suo "puzzar selvatico" e detestandone tanto gli emblemi, la corte, la città e la politica, da farsi "cittadin de' boschi" applicando la norma epicurea del "Vivi Nascosto".
Seguendo i dettami di questa filosofia egli si liberava anche del timore della morte, negandola e cercando invece la "Meraviglia", che era possibile solo illudendo i sensi. Il motivo centrale del suo progetto è proprio la "Meraviglia". All'Orsini erano anche chiari i messaggi provenienti dal suo ambiente quotidiano: le abitazioni contadine di Bomarzo, da sempre scalpellate nel tufo e poi prolungate a mattoni erano un segno tangibile della continuità tra creazioni naturali e creazioni umane. Senza dubbio, egli vide quanto Kircher descriverà nella sua opera Mundus Subterraneus, a metà del '600: il fumo che saliva dai campi della scomparsa Polimartium non erano vulcani, ma i camini scolpiti nel tufo delle antiche tombe etrusche, divenute le case dei contadini nelle quali anche gli arredi erano scolpiti nel tufo. Ugualmente nel Bosco i Mostri furono scolpiti direttamente nel suolo modellando il colle e dandogli voce.
Il motivo per la creazione del "giardino", venne dato a Vicino da un funesto avvenimento: nel 1560 infatti moriva Giulia Farnese, la sua adorata consorte. Il duca iniziò la costruzione del parco per rendere viva e tangibile la memoria della consorte che tanto egli aveva amato. I lavori si protrassero a lungo: dal 1550 fino alla morte dello stesso Duca avvenuta nel 1586.
Il Sacro Bosco è un assemblaggio contrastante di vicende e desideri privati, un'avventura emotiva ed intellettuale, contraddittoria ma unitaria nel suo tragico e materiale amore per la vita. Costellato di colossali e stravaganti sculture realizzate con massi di peperino locali, dal colore grigiastro, e non facilmente comprensibili se non alla fantasia dell'eccentrico committente, è concepito con un disegno pienamente antirinascimentale.
Visto il lungo protrarsi dei lavori, gli studiosi non sono ancora oggi certi di attribuire ad uno specifico artista le opere di cui Vicino sarebbe stato l'inventore. Non si avanza nemmeno una data precisa e né tanto meno firme precise per i singoli manufatti che presentano i caratteri difformi di rusticità ed eleganza. Ma, prendendo come base concordanze stilistiche e cronologiche, analizzando il castello di Bomarzo, le altre fabbriche degli Orsini e le tracce negli epistolari soprattutto in quelli intrattenuti da Vicino con Annibal Caro e Giovanni Drouet, sono state formulate varie ipotesi che sembrano essere tutte in contrasto e tutte verosimili. È impossibile escludere qualsiasi forma di influenza da quella dei trattati, delle visite, dei consigli verbali o dei disegni elaborati da un imprecisato numero di persone reinterpretati poi dagli artigiani locali. Questo giardino infatti si differenzia molto da quelli prevalentemente geometrizzati che si realizzavano allora in Italia: fu creata una vera e propria selva incantata in cui, ancora oggi, ci si imbatte
nella fantasia, nell'amore e nella morte seguendo molteplici itinerari.
Con ogni probabilità è un viaggio catartico attraverso il quale Vicino cerca di ritrovare la donna amata; ma questo viaggio è anche un continuo "inganno", al quale si è introdotti da una serie di iscrizioni sparse qua e la nel bosco. Una in particolare, posta all'entrata principale recita così:
TU CH'ENTRI QUA PON MENTE
PARTE A PARTE
E DIMMI POI SE TANTE
MERAVIGLIE SIAN FATTE PER INGANNO
O PUR PER ARTE.
La domanda dell'Orsini è capziosa perché "arte" può significare anche "inganno" o "incantesimo"; e nel Bosco l'arte è al servizio dei suoi inganni e dei suoi incantesimi. Questa è un'ulteriore prova del fatto che ci si muove nell'ambito cavalleresco del bosco stregato o Sacro Bosco; in questa letteratura infatti il termine sacro è usato spesso come sinonimo di magico e stregato.
Alcuni studiosi hanno paragonato il bosco ad un labirinto, ed in effetti lo è. Non dobbiamo però pensare ad un labirinto geometrico in cui basta il filo di Arianna per riavere la soluzione unica e banale ma è un labirinto aperto che non ammette automatismi, né conclusioni né controlli preordinati. Tanti percorsi sono possibili, ogni entrata può essere quella principale.
Infatti un primo percorso poteva iniziare dal basso; qui si veniva accolti dalle due sfingi appollaiate su piedistalli. Su uno di questi vi è una scritta che recita:
CHI CON CIGLIA INARCATE E LABBRA STRETTE NON VA PER QUESTO LOCO
MANCO AMMIRA LE FAMOSE DEL MONDO MOLI SETTE
Ovvero: Guarda e Taci.
Ma, nel lato sinistro dell'entrata c'è una fenditura, creata artificialmente nella roccia, che invita ad attraversare il ruscello e ad iniziare un percorso senz'altro più inquietante rispetto al precedente dal momento che conduce al lato dell'Orco infernale sormontato dal castello degli Orsini. Questi percorsi non escludono però l'approccio dall'alto, ovvero dal Tempietto, dedicato a Giulia, come premessa serena ai turbamenti dello spirito.
Il parco fu progettato su tre terrazzamenti in cui gli scalpellini crearono balaustre e modellarono, a ninfeo, l'arco inferiore. Gli scultori sbozzarono le figure nelle rupi; i muratori eressero un tempietto e una casa pendente e i fontanieri crearono cascate e giochi d'acqua.
La Storia
P. F. Vicino Orsini (1523-1583) aveva ereditato il Ducato di Bomarzo a sette anni dalla morte del padre a causa di un contenzioso per la successione risolto solo con l'intervento di Alessandro Farnese, nipote dell'omonimo religioso che salì al soglio pontificio con il nome di Paolo III (1534-1549).
La moglie di Vicino, Giulia, era una stretta parente del cardinale amico. Egli la sposò nel 1545 legandosi all'altra grande famiglia in ascesa nella Roma rinascimentale. Ma, già un anno dopo il matrimonio, Vicino dovette affrontare molte campagne militari che lo tennero lontano dalla moglie per molti anni e lo provarono sia fisicamente che intellettualmente. Egli infatti non fu mai un uomo fortunato soprattutto in amore. Si era già innamorato, precedentemente di una giovane veneziana la cui morte prematura lo aveva segnato profondamente. Giulia, che ricolmò la sua vita affettiva, non riuscì però ad evitargli una vita travagliata.
Alla fine degli anni '50, mentre era in guerra, fu fatto prigioniero e la sua carriera militare declinò sia per la fine dei grossi conflitti internazionali (1559, Trattato di Cateau-Cambresis che pose fine alla guerra franco-ispanica), che per il suo rifiuto di continuare a combattere.
Egli ritornò così a Bomarzo per dedicarsi alla sua sposa che, in questi lunghi anni, lo aveva sostenuto moralmente.
Lei fece completare come ex-voto la Chiesa di Santa Maria della Valle (1546), parrocchia del paese, iniziata dal suocero quando Vicino era in battaglia. Vicino, ormai pronto a dedicarsi alla vita famigliare e alla moglie, perse la sua adorata consorte.
Riuscì superare il lutto grazie ai suoi interessi letterari e filosofici e al suo ritiro tra le selve del viterbese dove coltivò l'idea di dedicare proprio alla memoria di Giulia Farnese il parco sotto la sua dimora.
La personalità del Duca si comprende leggendo alcune lettere dello stesso all'amico francese Giovanni Drouet, che da anni viveva a Roma e datate dopo la morte prematura della moglie: In queste si legge la disperazione dell'uomo che «non riesce più a provare piacere al cospetto di una donna». Nel feudo di Bomarzo infatti, proprio in quegli anni, nacquero delle leggende in cui spose novelle "provate" dal signore potevano anche sparire nel "Parco dei Mostri".
Nei suoi scritti Vicino ama definirsi «uomo sbuffante»; gli piace vedersi come un ariostesco Atlante, un mago che edifica un castello fatato. A "dame e paladini" dice:
CHE OGNUNO VI INCONTRI CIO' CHE PIU' GLI STA A CUORE E CHE TUTTI VI SI SMARRISCANO.
Era molto interessato a nuovi libri e ad "avvisi dall'India" che suggeriva all'amico Drouet di procurarsi dall'ambasciatore portoghese. Voleva libri che narrassero di "cose nove", "saporite", "stravaganti". Allo stesso Drouet, pratico di distillatori e forse di pratiche alchemiche, chiedeva anche di procurargli colori tenaci per dipingere, alla maniera etrusca e greca, le statue del Sacro Bosco. Negli ultimi scritti però il tono è spento; Vicino parla di sé come di un gelido e arido Saturno annoiato ormai anche dal parco. In tutto questo però non troviamo mai traccia della filosofia di cui è pervaso tutto il parco.
L'Orsini fece scalpellare sulle pareti del terrazzo dei dilemmi che diventarono la tavola delle sue antinomie etiche:
1) MANGIA BEVI E GIOCA;
2) SPREGIA LE COSE TERRENE;
3) VIVI BENE E SARAI FELICE;
1) DOPO LA MORTE NESSUNA FELICITA';
2) DOPO LA MORTE VERA VOLUTTA';
3) I BEATI TENNERO LA VIA DI MEZZO;
1) IL SAPIENTE DOMINERA' GLI ASTRI;
2) LA PRUDENZA E' DA MENO DEL FATO;
3) E DUNQUE ?
CONOSCERE. VINCERSI. VIVERE PER SE STESSI.
NON GLI UOMINI PER I LUOGHI, MA I LUOGHI PER GLI UOMINI.
Il castello è, ancora oggi, tempestato dal simbolo che risponde a questi dilemmi e che è anche un'insegna di famiglia:
LA ROSA D'ORO O ROSSA A CINQUE PETALI: simbolo di Venere e dell'amore platonico oltre che del segreto ermetico (la verità è detta SUB ROSA).
Il Sacro Bosco e l'arte dei giardini nel Rinascimento
Come accennato, il Sacro Bosco noto anche come Parco dei Mostri per la presenza di figure fantastiche e grottesche, è situato sotto il paese di Bomarzo alle pendici di un anfiteatro naturale.
È uno dei più importanti giardini del Cinquecento ma è anche quello che più di tutti rimane avvolto nel mistero; non se ne conosce infatti né il preciso programma iconografico e neppure il progettista.
Nel Cinquecento avere un giardino era, per i nobili, una sorta di status symbol e, nelle capitali del Rinascimento, si gareggiava per avere i migliori architetti del momento. È proprio questo infatti il periodo in cui a Roma si realizzano i giardini più importanti della storia del paesaggio.
Negli anni tra il 1504-1513, viene realizzato il Belvedere Vaticano di Bramante, un vero e proprio prototipo nell'evoluzione del giardino cinquecentesco.
Questo fu commissionato da Giulio II della Rovere il quale aveva voluto uno spazio destinato sia alle incombenze solenni di rappresentanza, che alle funzioni ludiche e di spettacolo. L'architetto ebbe a disposizione un'ampia superficie nella quale costruì il giardino prendendo spunto dalle numerose ville e dimore degli imperatori romani tra cui la cittadina Domus Aurea, riscoperta in questo periodo, e la suburbana villa di Adriano nonché il santuario della Fortuna a Preneste. Lo spazio intermedio è ordinato su tre piani, collegati da scalinate che sono la chiave dell'opera: dal primo livello che è impiantato nel cortile con le gradinate per gli spettatori si passa al terrazzo di mezzo con il ninfeo; si sale infine alla terrazza superiore in cui il giardino si chiude con l'emiciclo terminale.
Immediatamente susseguente a questo, è la creazione nel 1517 del giardino di Villa Madama, alle pendici di Monte Mario, opera di Raffaello. Questa commissione fu data da Giulio II de'Medici (divenuto papa nel 1523 con il nome di Clemente VII), cugino di Leone X (morto nel 1521). La villa prendeva nome da Madama Margherita d'Austria, figlia di Carlo V e moglie del duca di Firenze Alessandro de' Medici, che la abitò da giovane e poi da vedova. Il progetto di Raffaello, rimasto incompiuto per la prematura morte dell'artista (1520), recuperava anch'esso moduli antichi derivati soprattutto da quelli delle ville romane quali la Villa tiburtina di Adriano e delle Ville di Plinio il Giovane al Tuscolo e a Laurento, descritte nelle sue lettere.
Del progetto originale ci restano dei disegni e la accurata descrizione fatta dall'artista: una serie di ambienti imperniati su un cortile circolare che diviene il centro armonico del complesso.
Nel progetto si prevedevano: un cortile rettangolare come accesso monumentale dal lato verso Roma, un teatro "all'antica", un criptoportico, e poi sale, logge, scuderie, terrazze e fontane nel giardino che, su diversi livelli, scendeva verso il Tevere.
Raffaello ebbe come aiuto nella realizzazione dell'opera l'architetto Antonio da Sangallo il Giovane. Di tutto il complesso fu realizzata soltanto la parte verso nord che comprende meno di metà del palazzo (destra), la loggia e la sistemazione dei giardini dietro di essa, con la terrazza che affaccia sulla peschiera e chiamata da Raffaelo "Xystus", nome ripreso da Vitruvio.
La loggia è direttamente ripresa dalle strutture termali romane nelle quali gli spazi quadrati venivano dilatati con l'inserimento di esedre coperte da volte a botte. La facciata posteriore della villa fu invece concepita come uno spazio aperto verso il giardino in modo da creare un rapporto armonico tra interno ed esterno.
La villa era adibita a soggiorno durante le stagioni calde e a luogo di riposo dagli affanni del lavoro.
Ad abbellire i giardini si era dedicato Giovanni da Udine che aveva realizzato, nella parte "selvatica" a cui si accede attraverso un elegante portale affiancato da due giganti in stucco di Baccio Bandinelli, una "grande testa di leone" che coronava una sorta di ninfeo naturale, con grotte artificiali e fontane. Ma quasi tutte le sculture sono perdute.
Resta però la bellissima Fontana dell'Elefante, al centro del giardino all'Italiana, detta così per la grande testa di elefante che è scolpita al centro dalla cui proboscide scaturisce l'acqua. È questo il ritratto dell'elefante bianco di Ceylon, Annone, regalato dal re Emanuele del Portogallo al Papa Leone X.
La volta della fontana è decorata con mosaici di pietre e conchiglie con la raffigurazione di soggetti acquatici. Molte dovevano essere le fontane previste per decorare il giardino che servivano anche per rinfrescare l'ambiente nelle stagioni calde. Ancora oggi la villa è ornata dalla vasca del terrazzo, davanti alla loggia, e soprattutto dalla grande Peschiera.
L'ampia e classica struttura del Giardino all'Italiana è concepita come luogo di ristoro e le nicchie servivano per riparare dal sole chi voleva pescare nella vasca.
Ancora negli anni tra il 1565- 1573, vengono progettati e costruiti gli Orti Farnesiani sul Palatino ad opera di Jacopo Barozzi detto il Vignola. Tutti questi giardini erano distribuiti su dislivelli pronunciati. Ma, circa dieci anni dopo, altri tre giardini tracciarono le linee costruttive su cui si sarebbero confrontati tutti i progettisti successivi:
1) il giardino di Palazzo Farnese di Caprarola progettato da Jacopo Barozzi detto il Vignola, realizzato tra 1559 e 1575 dove il Cardinal Farnese (amico di Vicino) costruì un edificio pentagonale intorno al cerchio del cortile con la pinacoteca delle cui simbologie si era occupato Annibal Caro ed il parco la cui chiave è, per Elémire Zolla, alchemica.
Anche qui l'archetipo è quello del Belvedere Vaticano.
L'architetto realizzò un giardino suddiviso in varie aree, abitate da erme e cariatidi che danno, ancora oggi, all'ambiente un carattere alquanto teatrale. C'era un disegno preciso e significativo soprattutto nei riguardi del clero romano: si dimostrava infatti la supremazia dello spirito del committente sulla spontaneità della natura aderendo così, pienamente, ai dettami della Controriforma.
2) il giardino di Villa Gambara, poi Lante a Bagnaia, costruita, forse su progetto del Vignola intorno al 1568, dal Cardinal Gambara, divenuto Vescovo di Viterbo nel 1566.
Nel programma iconografico, probabilmente, il cardinale si servì di Fulvio Orsini, bibliotecario del Cardinale Alessandro Farnese nonché studioso di letteratura sia greca che latina, erudito di numismatica ed esperto di epigrafia.
Il principio sotteso all'iconografia del giardino è quello dell'ut pictura poesis.
In origine il giardino era costellato di fontane decorate ugualmente da animali fantastici come draghi, unicorni, (simboli dell'età dell'oro, l'aetas felicior, descritta da Virgilio e Ovidio !) che reali come le anitre nonché dalla statua di Bacco.
All'inizio dell'itinerario fantastico c'è la Fontana di Pegaso e i Busti delle Muse, che presiedono all'ispirazione artistica: è la descrizione del volo del cavallo Pégaso, del furore poetico e del culto delle muse, quasi ad indicarci che la collina sulla quale stiamo salendo è, in realtà, il monte Parnaso.
All'estremità superiore del giardino c'è invece la Fontana del Diluvio Universale, così come viene rappresentato nelle Metamorfosi di Ovidio.
Anche nella Fontana dei Delfini sono ricordati i versi dell'autore il quale descrive questi animali
«guizzanti fra i rami delle querce» dopo l'alluvione.
Altre statue e fontane, con citazioni prese in prestito dalla letteratura e dall'araldica come il Gambero -emblema del cardinale-, concludono la decorazione della villa insieme al parterre, squadrato e regolare, simbolo del dominio dell'estetica dell'arte sulla natura la quale, allo stesso tempo, viene soggiogata in maniera serena e graduale regalandoci una sensazione di atemporalità.
3) il giardino di Villa D'Este a Tivoli, progettata dall'architetto Galvani insieme all'esperto di iconografia Pirro Logorio, su commissione del Cardinale Ippolito II, con l'intento preciso di eclissare lo splendore del giardino dei Farnese.
Anche qui posti su tre livelli, che si svolgono in salita, furono create fontane, giochi d'acqua, sculture e labirinti, sentieri e scalinate. Nella parte inferiore c'è la Fontana dell'Organo (sculture simili in Porta nuova a Palermo); la zona centrale è occupata dalla Fontana dei Draghi, vicino al cosiddetto viale delle Cento Cannelle o Fontane.
L'iconografia del giardino si fonda sull'iconografia del cardinale e di Ercole, eroe simbolo del coraggio e della forza, le virtù che erano richieste ad un signore del tardo Rinascimento e nondimeno capostipite della famiglia D'Este. Di nuovo l'aspetto legato alla moralità che riporta, indiscutibilmente, al rispetto per i nuovi programmi del Concilio di Trento.
Tutti questi progetti avevano dunque in comune sia il rigido tracciato geometrizzato che l'utilizzo di essenze arboree sempreverdi e aiuole ornamentali (parterres) e, infine, un preciso programma narrativo-iconografico.
Queste caratteristiche, spesso mediate dalla mitologia greca e latina, connotarono quella tipologia chiamata: "Giardino all'Italiana".
In realtà, alla base di tutta questa nuova arte era un'opera letteraria pubblicata un secolo prima, nel 1499, la:
Hypnerotomachia Poliphili (Il Combattimento Erotico in Sogno di Polifilo) scritta dal signore di Palestrina Francesco Colonna (e non dal frate domenicano Veneziano !) in cui il personaggio principale si ricongiungeva all'amata dopo svariate peripezie condotte attraverso una serie di giardini, descritti nei dettagli e minuziosamente rappresentati da 170 illustrazioni.
In questo testo, elaborato cinquanta anni prima della sua pubblicazione, si dichiaravano i nuovi dettami dell'estetica e della concezione paesaggistica: il giardino diventava un microcosmo in cui la ragione dominava la natura per il raggiungimento della perfezione, mentre la geometria rigorosa dei percorsi svelava l'ordine cosmico presente in tutte le cose.
Siamo, come abbiamo già ricordato, nella piena crisi dei valori che avevano caratterizzato il Rinascimento. Gli artisti della cosiddetta "maniera" vivono una sorta di "rifiuto" delle regole rinascimentali che li conduce a non conoscere più il reale e quindi a non poterlo rappresentare nelle forme artistiche tradizionali.
Nasce, in questo modo, l'uso del "natural artificio" che crea i giardini, appendici delle ville, gareggiando in "Meraviglia" con la Natura creatrice irrazionale.
Tipica di quest'epoca è anche la sperimentazione in ambito teatrale di nuovi effetti scenografici; allo stesso modo questi "effetti" vennero impiegati nella realizzazione degli scenari presenti nei giardini con la creazione di labirinti, trabocchetti, congegni semoventi e quant'altro servisse a sorprendere l'ospite durante la passeggiata.
Anche le continue allusioni cosmologiche, quelle moraleggianti e quelle semplicemente ludiche creavano susseguenti rimandi tra la realtà e l'apparenza, indice chiaro della perdita delle certezze razionali dell'umanesimo rinascimentale. La natura non è più quindi rappresentata nella sua forma logica ma nel suo continuo divenire.
Il gioco teatrale poi, che si realizza in tutte le stagioni, è riprodotto in questi luoghi attraverso l'uso di piante sempreverdi, di giochi d'acqua che creano l'habitat naturale per le ninfe e i satiri, creature del mito eterne ed in contrasto con la caducità umana.
Questo effetto di selva è aumentato dalla presenza delle grotte che, create dalla unione di vari materiali come il tufo, la vegetazione, le conchiglie e i muschi, rappresentano un ritorno allo stato primitivo e al grembo di madre Terra da cui tutto ha origine. Questo concetto verrà ripreso appieno nel Sacro Bosco.
Anche Ovidio, nelle Metamorfosi, aveva descritto la grotta sacra a Diana dove «simulaverat artem ingenio natura suo» ovvero la natura con il suo ingegno aveva simulato un'opera d'arte !
Descrizione del Sacro Bosco
Il giardino voluto da Vicino Orsini, invece, era lontanissimo da questa logica progettuale.
Abbiamo già ricordato che gli anni in cui visse l'Orsini erano quelli del declino del Rinascimento. Era questa l'epoca in cui si iniziarono ad amare i giganti, i mostri e le invenzioni sceniche, preludio dell'epoca immediatamente successiva che si espresse nel ridondante e "meraviglioso" Barocco.
Pier Francesco era, in effetti, figlio di quell'epoca e di quel "gusto". Tutto nel giardino fu fatto per stupire: giganteschi animali fantastici, colossi grotteschi, figure mitologiche.
Inoltre, nei poemi cavallereschi del Rinascimento, uno degli accenti più vivi è dato dal ricorrere spesso nel "bosco incantato" in cui l'Eroe si imbatte in fiere, giganti nonché in seducenti i ingannevoli fanciulle.
Questa volontà del principe, di sorprendere i suoi ospiti e di rievocare, è chiaramente espressa dall'invito che egli fece incidere sulla cosiddetta Panca Etrusca:
VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO, VAGHI
DI VEDER MERAVIGLIE ALTE E STUPENDE,
VENITE QUA DOVE SON FACCE HORRENDE,
ELEFANTI, LEONI, ORSI, ORCHI E DRAGHI
Nelle lettere scritte da Annibal Caro a Vicino egli descrive già nel 1564 il teatro, ovvero il ninfeo; il mausoleo ovvero il tempietto ed anche le sfingi, i mostri e le meraviglie soprannaturali ovvero le statue gigantesche create e da crearsi nel Parco di Bomarzo.
Ed in effetti fin dall'entrata della Porta Monumentale, sovrastata dallo stemma degli Orsini, si incontra la prima meraviglia lo:
Orco Araldico: con il globo terrestre, avvolto da bande un tempo verdi (nel 1574 Vicino scrivendo a Drouet, gli annuncia di aver colorato variamente «parecchie statue» per renderle «più belle» dando al boschetto «un'altra forma»), che sembra ruotare. Il globo sorregge il modello, in miniatura, del castello tetragono stemma degli Orsini.
Stando a Macrobio, la Sfera dovrebbe essere identificata con la mente.
La bocca dell'Orco è spalancata e mostra dei denti giganteschi. Ma non è, nel bosco, un unico caso; tutte le sculture hanno infatti misure spropositate.
In apparenza sembra che l'ideatore si sia divertito a spargere sul terreno in declivio un'orda scomposta di creature mitiche e infernali e che ogni episodio scultoreo sia stato ideato senza alcun legame preciso in un percorso casuale e incoerente, vicino alle ricerche pittoriche e scultoree dell'epoca, il Manierismo con i suoi continui scambi da un'arte all'altra: la dilatazione della scultura post-michelangiolesca; lo straniamento dai canoni dell' architettura e l'impiego spregiudicato della scala metrica; il sentimento stregato della natura e la poetica dell'avventura, della sfida e dell'incantesimo propri dei poemi cavallereschi, mescolati con gli accenti dell'orrido, del meraviglioso e del grottesco; la teatralità come invadente parametro discendente dalla nuova forma dello spettacolo che si fonda sulla sorpresa delle apparizioni e del coinvolgimento dello spettatore; il gigantismo, desunto anche dagli apparati festivi e il ricorso scenografico al falso rudere e al frammento simulato ed infine l'inganno e l'artificio come momento d'incontro tra natura e arte (Calvesi).
La visione disordinata, che si è presto accompagnata agli studi del Parco, in realtà si deve ad una lettura delle generazioni successive fatta su di un unico piano mentre si sono sovrapposte almeno un paio di fasi precise.
Nel secolo scorso, i critici e gli storici dell'arte hanno cercato di dare una chiave di lettura definitiva e il nome del progettista (Pirro Ligorio, Vignola etc.) di questo "sogno" immerso tra rocce e alberi, interpretandone le iscrizioni in pietra che quivi abbondano e studiando anche il carteggio di Vicino Orsini. Ma tutte le teorie non sono state mai scientificamente avallate.
Tra queste, una è forse quella più calzante. È quella che vede impegnato lo scultore Bartolomeo Ammannati, il quale proveniva dall'accademia michelangiolesca di Baccio Bandinelli che aveva collaborato, a Venezia, con Jacopo Sansovino.
Lo scultore del parco sembra infatti conoscere il Veneto come si vede dal confronto dei due Orchi, a fauci aperte, con i precedenti di Bartolomeo Ridolfi tra Vicenza e Verona. Inoltre, come vedremo, Vicino stesso era stato nel Veneto dove aveva conosciuto anche l'opera di Giulio Romano.
Ma, quello che in realtà ha fatto maggiormente discutere gli studiosi era soprattutto la mancanza o meno di un "programma" iconografico coerente ossia di un tema che coordinasse le varie invenzioni del bosco.
In una recente lettura, Maurizio Calvesi ha visto tre fasi ben precise nella realizzazione di questo giardino.
I due obelischi o cippi e la casa pendente, presenti all'interno del Parco, furono invece realizzati prima delle 3 fasi.
Su uno dei cippi è scolpita la data 1552 e la dimora inclinata fu realizzata, forse come voto, da Giulia Farnese negli anni della prigionia di Vicino (1555).
Le 2 scritte alla base dei cippi sono state fondamentali per le interpretazioni degli oscuri significati del giardino. La prima recita:
VICINO ORSINO / NEL / MDLII
La seconda:
SOL PER / SFOGAR / IL / CORE
Arnaldo Bruschi vide nella seconda scritta «la chiave di interpretazione delle ragioni e dello stato d'animo del committente nel concepire il singolare complesso, quasi a giustificare preliminarmente tante "follie" e meraviglie» ovvero «un divertimento, uno sfogo de core».
Ma in realtà fu certamente ispirata dalle poesie di Vittoria Colonna «Scrivo sol per sfogar l'interna doglia/di che si pasce il cor» (1538), i cui versi dilettavano Michelangelo nelle loro passeggiate.
C'è chi ha visto anche un collegamento col Canzoniere di Petrarca e precisamente il sonetto CCXCIII «E certo ogni mio studio in quel tempo era / pur d'isfogare il doloroso core / in qualche modo, non d'acquistar fama /».
La Casa Pendente, forse costruita nel decennio 1551-1562 quasi all'estremità nord del bosco presenta, oltre allo stemma araldico degli Orsini, la dedica al cardinal Madruzzo, per intercessione del quale Vicino fu liberato dalla prigionia, e un cartiglio in cui è scritto:
ANIMUS QUIESCENDO FIT PRUDENTIOR
Ovvero prova ad acquietarti in questa dimora sbilenca, entra e vedi se ci trovi pace.
Entrandoci infatti, sia il pavimento in salita che le pareti storte creano un capogiro, come quando si giri su se stessi e sembra che tutto ci crolli addosso, come dice anche Lucrezio nel canto delle illusioni ottiche. La casa fu realizzata per iniziativa di Giulia come augurio per evitare la caduta e la rovina della casata dopo il fallimento della missione militare del marito.
La casa è costituita da un unico masso su due livelli e ripropone il modello della casa patrizia semplice con uno zoccolo bugnato che sale angolarmente al primo livello, mentre al secondo è sostituito da paraste di ordine tuscanico.
Siamo nella zona in cui viene edificato l'elemento primordiale della Terra, dove non c'è riposo. Siamo nel secondo livello, alle spalle abbiamo il regno infero delle acque di cui parleremo.
Iº percorso (1561-1563): l'Hynerotomachia Poliphili (Sogno di Polifilo) filo conduttore del sogno di Vicino Orsini.
L'influenza del Sogno doveva assolutamente esercitarsi su questo giardino soprattutto perché l'autore era un antenato della sua sposa.
Mentre nei giardini rinascimentali il suo influsso fu di carattere ideologico-compositivo qui, nel Sacro Bosco diventava il sostrato letterario che reggeva un preciso programma iconografico: sia il racconto di F. Colonna che il Giardino di Bomarzo erano dedicati alle rispettive donne amate e morte prematuramente.
All'inizio del primo percorso troviamo infatti il:
Tempietto: costruito nel 1552. È dedicato a Giulia, decorato con Decorazioni Zodiacali (scomparse) simili a quelle del tempio che nel "Sogno" era dedicato a Venere Physizoa (che genera Vita) nel quale Polia, la donna di Polifilo, si manifestava e dal quale il protagonista iniziava il viaggio.
È uno dei manufatti più importanti realizzati nel giardino; è composto da un ampio pronao tetrastilo di ordine tuscanico, istoriato dalla rosa e innestato su un corpo a pianta ottagonale con Cupola e Lanternino.
È questa una costruzione intrisa di simbolismo: ottagonali sono i Battisteri perché il numero otto equivale alla Resurrezione; l'ottava sfera corona le sette orbite dei pianeti; dopo il settimo giorno si riemerge dalla febbre; dopo il settimo mese il feto è pronto alla nuova vita e in ambito astrologico l'ottava casa è quella della morte e della rinascita.
Architettonicamente, la costruzione della Cupola del Lanternino accentua la verticalità dell'intero volume e conclude in modo ascensionale il promontorio naturale legando così, inscindibilmente, Architettura e Natura (di nuovo il prolungamento tra opera della natura e opera dell'Uomo !).
Vicino, nelle sue lettere paragonava la cupola del tempietto nel suo apparire da lontano a quella fiorentina di Santa Maria del Fiore.
Non lontano, c'era un obelisco, perduto, simbolo dell'emanazione della luce da un punto inesteso, dall'Uno che è al di sopra delle forme in giù fino alla quadrata materia. Nella fontana dei Quattro fiumi, a Piazza Navona, Bernini consigliato da Athanasius Kircher farà costruire l'obelisco come simbolo della illuminazione interiore che dall'Uno penetra nella caverna (che è la mente), la quale attraverso i quattro sensi maggiori comunica con il Fiume del divenire.
Tra il 1561 e il 1564 furono realizzate le sculture dei:
- FALSI RUDERI;
- TRE GRAZIE;
- NINFEO;
- VENERE;
- MONCONE DI COLONNA;
- FONTANA DI PEGASO;
- FONTANA DELLA NAVICELLA;
- INTERO TEATRO;
- LAGHETTO ( ora scomparso).
Questi elementi servivano per mostrare al visitatore che il viaggio interiore di Vicino era simile a quello di Polifilo che, nell'immaginazione, faceva rivivere l'amata e catapultava il visitatore nell'Isola di Citera.
Tra i "reperti archeologici" il:
Sepolcro Pseudo-Etrusco, fu un ulteriore elemento d'ispirazione polifilesca. Esso fu posizionato in basso rispetto al tempietto dedicato a Giulia, riproponendo la medesima sequenza che nel percorso del romanzo vedeva il tempio cimiteriale dopo quello di Venere.
Esso è composto da un timpano che sormontava un ingresso mutilo, in cui una serie di loculi si aprono all'interno di una stanza ovale. Nel timpano vi sono dei bassorilievi: al centro c'è la Sirena Bifida, forse il simbolo del "FESTINA TARDE" che ritroveremo espresso simbolicamente nel gruppo della tartaruga e che era anche in Polifilo; a destra un delfino e un ariete dal corpo di pesce e, a sinistra, un tritone che suona una conchiglia mentre con la sinistra sorregge un timone; di nuovo forse ci troviamo di fronte alla simbologia del "FESTINA TARDE".
Da questo complesso prende vita la "componente etrusca" del boschetto, supposta dall'Oleson e da altri, a cui risalirebbe la qualità formale delle "statue", la cui determinazione espressiva, già segnalata dal Benevolo, ne farebbe opera non già di scalpellini ingenui ma di artefici smaliziati, forse attivi in quelle regioni.
Questa componente è testimoniata anche nei dettagli e negli insiemi scultorei della Villa di Soriano del Cardinal Madruzzo, delle Ville di Bagnaia e Caprarola e dei domini di altri Orsini, a Bracciano e a Pitigliano (vicino Bomarzo), dove esiste una sorta di "parco dei mostri" distrutto, evidentemente etrusco.
Questa concezione si può inquadrare in un progetto più generale riassunto nell'opus rusticum a cui aderirono anche Vignola, Giulio Romano, Zuccari e Serlio.
Ma il frammento viciniano, come sottile memoria di arcaiche reliquie visibili ancora oggi nell'area della Polimartium etrusca (Bomarzo), potrebbe alludere ad un altro tema primordiale: il confronto tra l'integrità iniziale di un monumento, espressione di un momento storico ben preciso, e l'azione devastatrice del tempo.
In quel momento l'interesse per l'antichità portava a scavare in siti dove affioravano tracce di resti, ricordo della sontuosità del passato, nascosti dalla terra come se fossero stati inghiottiti.
Anche qui c'è un riscontro nel Sogno di Polifilo e precisamente nel Tempio "destructo". Nel testo del Colonna si evince la natura cimiteriale del luogo dal fatto che è dedicato a Plutone, dio degli Inferi, e che contiene un grande vaso con iscrizioni. Anche nel Bosco troveremo dei vasi con iscrizioni dedicate a Plutone.
Lungo il percorso, parallelo al ruscello, si concretizzarono altre forme derivate direttamente dalle iscrizioni di F. Colonna nel Sogno: un Ninfeo, forse costruito nel 1564, come si ricava da allusioni contenute nello scritto di Annibal Caro, ispirato probabilmente ad un edificio termale illustrato nell'edizione francese dell'Hypnerotomachia (1546) in cui il protagonista s'intratteneva a parlare con 5 ninfe che personificavano i sensi, presenti in altrettante nicchie; di seguito l'autore descriveva una fontana con il gruppo delle Tre Grazie (Eurydomene; Eurymone ed Eurymedusa) ispirata al celebre modello classico che apparteneva alla famiglia Colonna. Il bassorilievo che le rappresentava fu posto, qui a Bomarzo, su una parete precedente lo spazio del ninfeo, attrezzato a sua volta con sedili per la sosta degli ospiti.
Di fronte ad esso una: Fontana a forma di barca (o dei Delfini), disposta come se fluttuasse sopra il pendio (Bredekamp) che materializzava la leggera imbarcazione guidata da Cupido su cui Polifilo era trasportato sull'isola di Citera, l'isola dell'amore.
Non casualmente, subito dopo, Vicino pose un: Sacrario di Venere. La divinità, nuda dalla cintola in su, venne posta su una conchiglia simulante anche le ali di un essere mostruoso; nel suo ombelico un foro permetteva la fuoriuscita di uno zampillo d'acqua, mentre altri getti sgorgavano dalla parte superiore della nicchia, facendo scorrere l'acqua su tutto il corpo della statua.
Nel Sogno, il Sacrario e la Sacra Fonte erano immersi in uno scenografico "teatro"(struttura gradinata) ad arcate sovrapposte e, per analogia nel bosco si costruì una struttura a esedra, anche se in forme più semplici e povere.
L'Orsini, che non era molto ricco anche se era membro di una influente famiglia forse, se avesse avuto più denaro, avrebbe realizzato qualcosa di più simile a Caprarola e Bagnaia.
Il Teatro, sul cui zoccolo fu scolpita un'altra epigrafe, fu progettato con uno spazio antistante delimitato da una serie di erme sorreggenti canestri di frutta (ora situate sulla strada che porta all'Orco con lo stemma degli Orsini), ricollegabili nel testo letterario a una processione rituale guidata da Cupido con satiri e ninfe danzanti innalzanti rami fioriti e avvolti da un'aria profumata da frutti.
Tutti questi episodi architettonici nacquero, molto probabilmente, in un medesimo periodo poiché hanno in comune le dimensioni ridotte (rispetto ai colossi successivi), la realizzazione uniforme ma grossolana, la disposizione topografica lungo il corso del ruscello (eccetto il Tempietto e il Sepolcro) e i costanti rinvii al Sogno di Polifilo.
Per questi lavori bisogna ipotizzare una squadra di più persone ma guidata da un unico scultore-architetto. È da tener presente anche l'ipotesi del Bredekamp che pensa agli scultori Fabio Toti e Ippolito Scalza che lavorarono insieme nella vicina Orvieto. In particolare, lo studioso ha in mente la statua nel Duomo di Orvieto di Eva, opera del Toti, messa a confronto con la Venere bomarziana che il tedesco descrive come Iside.
IIº percorso, creato dopo il 1565 e suggerito dall'Orlando Furioso di L. Ariosto.
La donna alata sulla tartaruga e il Gigante Assassino , realizzata dopo il 1565.
In alcune epistole di Vicino Orsini si riscontra un particolare interesse per il mondo dei Giganti. Egli avrebbe voluto far decorare il suo palazzo di Bomarzo con la Gigantomachia (1564), conoscendo bene gli affreschi realizzati da Giulio Romano (1498-1546) nel Palazzo del Te a Mantova, dove forse si recò durante il viaggio in Veneto (1542 - 43). Ma, più probabilmente, il suo interesse per il pittore e i suoi temi gli venne dalla conoscenza del Cardinale Madruzzo il quale si era, da poco, trasferito da Trento a Soriano (feudo acquistato nel 1560 proprio dagli Orsini e che confinava con quello di Bomarzo). Quest'ultimo aveva incrementato il suo interesse per i Giganti collezionando anche «ossa di giganti» (probabilmente animali preistorici).
Il cardinale d'altronde aveva commissionato proprio nel suo palazzo di Soriano una fontana, scolpita direttamente nella roccia, che raffigura un'enorme figura femminile, una Fauna che stringe un putto; dietro di Lei ci sono un piccolo fauno eccitato, una capra che bruca dei rami e un pastore che suona lo zufolo di canne.
Alla sua sinistra emerge, immenso, dal suolo e con lo sguardo acceso e scherzevole, Fauno, Pan latino che suscita il panico e accende i sensi (nel 1564 il Cardinale Madruzzo invita il Cardinale Farnese per mostrargli «il nuovo disegno della fonte». La data coincide anche con il progetto della Gigantomachia di Vicino).
Pan stringe e fa volteggiare per aria delle cinghie di cuoio caprino, le stesse alle cui sferzate, come recita Ovidio nei Fasti, offrivano la schiena nei riti di eccitazione lupercale le ragazze romane che si volevano bene immedesimare con le ninfe rabbrividenti di metus e voluptas a cospetto di Faunus Incubus Ficarius. Fauna è la sua compagna e complice, detta anche Iuno Caprotina. Si diceva che, come ogni uomo aveva il suo Genius, ogni donna aveva la sua Iuno. Genialità e Generare sono, in effetti, due parole affini; il genius è anche visibile nel furore erotico dell'uomo mentre nella donna c'è la Iuno, alleata e complice del panico.
Il Cardinale Madruzzo inoltre introdusse Vicino all'arte di quel Bartolomeo Ammannati (1511-1592) il quale aveva eseguito un colosso destinato alla fontana di Nettuno, a Piazza della Signoria in Firenze, prendendo spunto dalle macchine costruite in occasione dei festeggiamenti nel 1565 per il matrimonio di Francesco de' Medici, figlio di Cosimo I.
Gli apparati di questa festa emozionarono molto la fantasia di Vicino, come vediamo qui di seguito.
Nel piano inferiore del Parco troviamo La tartaruga, colossale ed ispirata da una simile macchina scenografica realizzata sempre in quell'occasione, forse volendo ricordare un testuggine presente nello zoo della famiglia fiorentina. Ma la figura si incontra anche nei versi del Morgante di Luigi Pulci, dove Margotte, dopo aver ucciso un "fer gigante" avvista una «testuggine ch'un monte parea».
La nostra figura ha, sopra la corazza, un vaso capovolto con sopra un globo dove una figurina femminile mutila poggia appena con il calcagno. Quest'ultima possedeva, in origine, un paio di ali e due trombe nelle mani; questi attributi erano tipici della Fama, come ci testimonia un disegno del Guerra: le ali ricordavano sia la sua fugacità sia la capacità di valicare i confini più lontani (Fama volat) le trombe la buona e cattiva sorte.
La Fama è rappresentata anche nel Palazzo Farnese a Caprarola e, più tardi, nel soffitto di Palazzo Mattei a Roma (Faustina Orsini, figlia di Vicino, sposò Fabio Mattei). Qui la Fama suona solo una tromba, quella della Buona Sorte mentre, a Bomarzo, entrambe. Vicino voleva rappresentare la Fama come pura immagine allegorica; la statua poggia su un globo ed è quindi in bilico: La Fama è accomunata infatti alla Fortuna.
Questa rappresentazione è ripresa da alcuni apparati scenici, visti a Venezia (1542-43), ideati dal Vasari per la Talenta, opera di Pietro Aretino. Legata alla tartaruga riconduce, nuovamente, al significato del "FESTINA TARDE" o "FESTINA LENTE".
Sotto la tartaruga, sulla riva opposta del ruscello, spalanca le fauci: Un'orca (o una Balena) che usciva dalle acque e che ripeteva l'illustrazione di un altro testo letterario, nell'edizione del 1563, de L'Orlando Furioso di L. Ariosto. La redazione di questo testo fu curata da Giovan Andrea d'Anguillara, il quale era nativo di Sutri, cittadina vicina a Bomarzo.
L'Orsini stesso ideò che le acque le schiumassero attorno. Veniva sottolineata probabilmente una situazione di pericolo, da cui salvaguardarsi attraverso una condotta prudente e tempestiva: forse è il simbolo della morte che però è vinta dalla Fama.
A fianco della tartaruga c'è la Fontana Di Pegaso dove il cavallo alato, simbolo della poesia, svetta su una roccia.
Qui il gruppo scultoreo è concepito con la particolarità di due assi compositivi:
1)quello dell'animale ben dritto
2)quello della fontana molto inclinato.
La pendenza della vasca voleva forse alludere agli effetti dei terremoti che, secondo la leggenda, Pegaso arrestava battendo lo zoccolo sul suolo dal quale poi faceva subito zampillare fonti d'acqua.
L'iconografia dell'animale mitologico era molto diffusa all'epoca ma l'ispirazione venne da una xilografia compresa tra le tante immagini del Sogno che rappresentava un modello di fontana con Pegaso quasi identico a questa, su un simile piano inclinato. Una vasca inclinata che ha al centro una caverna che regge un Pegaso, cavallo alato del furore poetico che sta per spiccare il volo.
In questo percorso si può leggere un'altra simbologia.
Nel periodo in cui il Cardinale Chigi faceva dipingere alla Farnesina il suo oroscopo, il linguaggio degli astri era comune e in quest'angolo di parco si riconosce un pezzo di cielo.
Sotto il ruscello, che rappresenta la divisione tra il nostro emisfero e quello meridionale, appare la costellazione della Balena e, a suo riscontro, nel nostro emisfero, fra essa e i pesci, appare una piccola costellazione cui fu dato il nome di Tartaruga.
Manilio dice nella sua opera: «Quando, sorti i Pesci, il loro ventunesimo grado sull'orizzonte illumina la terra, Pégaso s'inclina, volando al cielo» (vedi la vasca inclinata). Il cielo configurato è quello dell'inizio della Primavera quando le tartarughe escono dal letargo.
Ma la Tartaruga ricorda anche quella dello stemma di Cosimo de'Medici, che è sormontata da una vela: "Festina Tarde" ovvero ponderazione e celerità si devono unire. Il Wind ci dice che gli ermetici del cinquecento interpretavano il detto in questo modo: rifletti lentamente e a lungo e agisci di furia e di scatto senza che l'una cosa intralci l'altra.
Ancora, in alchimia, la Tartaruga è la materia dell'opera, coperta da un involucro che non si scalfisce e il vaso capovolto è quello delle cotture mentre la creatura liberata identifica gli olii volatili.
Anche se Vicino non la conobbe, questa statua è identica ad un'icona indù identificata con Vishnu ovvero la Base dell'essere.
Da questa raffigurazione si giunge alla Fontana dei Delfini, di cui abbiamo già parlato, dove si svolge ancora la carta del cielo.
Infatti, dopo Pegaso, brilla la piccola costellazione dei Delfini (o Nettuno) alla fine dei Pesci: chi ne riceve gli influssi è il beniamino delle Grazie (nicchia delle Grazie).
Dopo i Pesci c'è l'Ariete, Zeus Ammone con testa arietina.
Alla fine dell'Ariete c'è una contemplazione del mistero dell'acqua, il principio ondulatorio che tutto plasma e discioglie.
Non dimentichiamoci che al tempo di Vicino il Polifilo era tutto un invito a contemplare l'acqua exsurgente. Nei poemi di Bruno, Oceano è il principio orfico di tutto «e dalle fonti d'Oceano sorge Pegaso». Dopo molti secoli Goethe ricontemplerà il mistero dell'acqua e nel secondo Faust emergeranno le stesse creature che sono scorse nel parco: ninfe, sirene, delfini, arpie e anche la tartaruga.
Accanto a queste composizioni Vicino fece realizzare i: Falsi Ruderi composti da una colonna spezzata e un tronco d'albero, per dare l'idea di come la natura e il tempo modificassero l'opera dell'uomo e di come poi il prodigio del cavallo alato (o della poesia) riportasse vita nel paesaggio devastato dagli elementi naturali (il terremoto).
Nell'enorme bocca dell'Orco (alterazione di Orcus re degli Inferi), entro cui furono scolpiti un tavolo e un sedile perimetrale, continuò la tematica dell'orrido e dell'incantato.
Tutte queste sculture erano state colorate per aumentare gli effetti di verosimiglianza nel loro aspetto irreale (molte tracce sono state osservate dallo storico dell'architettura Arnaldo Bruschi, che le ha dettagliatamente descritte).
Vicino si rifà qui ad altre due opere, il De Raptu Proserpinae di Claudiano e la Teogonia di Esiodo.
Il primo descrive la Spelunca Aevi con il serpente verde della sempiterna vita.
Tranne quest'ultimo ci sono tutti gli elementi: la caverna che «manda fuori e si riprende i tempi» è un mascherone sulle cui labbra un verso, oggi mutilo, di Dante annunciava l'ingresso in un mondo occulto e misterioso:
LASCIATE OGNI PENSIERO VOI CH'ENTRATE
Nel realizzare uno dei gruppi mastodontici presenti nel parco, Vicino si ispirò, nuovamente, all'opera di Ariosto creando la cosiddetta Lotta tra Giganti. Questa è, probabilmente,la raffigurazione di Orlando impazzito per amore che, spogliatosi di tutte le armature scolpite dietro la scultura, squartava un innocente che gli contendeva il passo (nel 1578 scrivendo al Drouet Vicino dirà di voler far «deventar l'Orlando mezz'uomo dabbene» forse eliminandone qualche aspetto scabroso in attesa di una probabile visita del papa).
Accanto alla figura c'è una terzina rimasta mutila in cui si legge:
... TIER GIGANTE
... O SCEMPIO
... ANGLANTE
Da queste tracce si comprende che l' «altier gigante» incontra malauguratamente il «signor d'Anglante» come spesso viene chiamato Orlando nel poema ariostesco.
Alcuni studiosi nel passato sostennero che queste sculture rappresentavano la violenza perpetrata ai danni di una fanciulla (un'amazzone per l'assenza di seno), a causa di una contraffatta fenditura scavata successivamente sul pube ma, la postura dei colossi non può far pensare ad una siffatta azione, per quanto violenta potesse essere.
L'effetto è drammatico anche se le proporzioni delle figure sembrano allontanare la tragicità della rappresentazione, come se appartenesse ad un mondo lontano da quello degli uomini reali.
La pazzia di Orlando, che dunque non ha più la ragione, diventa il simbolo della disposizione delle figure del bosco che non segue più i canoni compositivi del giardino rinascimentale.
Accanto al gruppo scultoreo c'è anche un'epigrafe che recita:
SE RODI GIA FU DEL SUO COLOSSO
PUR DI QUEST IL MIO BOSCO ANCHO SI GLORIA
E PER PIU NON POTER RO QUANT IO POSSO,
ovvero questo colosso supera l'Apollo di Rodi, l'isola della Rosa.
IIIº Percorso del Bosco Sacro creato dopo il 1573, alimentato dalle opere di B. T. Tasso: La selva stregata e i temi infernali.
Con gli anni, Vicino si appassionò ai poemi cavallereschi dai quali trasse l'ispirazione per realizzare un boschetto incantato; probabilmente da questi fu tratto anche l'attributo "Sacro", che in essi veniva utilizzato con un'accezione simile ad incantato.
In verità, anche il Sogno di Polifilo si apriva con la descrizione della selva incantata di Circe. Anche l'idea delle gigantesche sculture, corredate da iscrizioni, risaliva alla tradizione del bosco magico descritto nell'Orlando Innamorato di Matteo Mattia Boiardo. Ma, l'ispirazione gli venne probabilmente dal poema di Bernardo Tasso, L'Amadigi, in cui il bosco ha un ruolo dominante e dove si descrive la selva di Oronte (nel 1575, Vicino ebbe una figlia naturale che chiamò "Oronthea"), un luogo magico popolato di creature e personaggi fantastici. In quest'opera, più che nell'Orlando Furioso, la prova della selva stregata o bosco incantato è uno dei momenti cruciali dell'iniziazione del cavaliere al coraggio e alla gloria.
La revisione di quest'opera era stata fatta da Bernardo Capello, uno dei poeti della cerchia di Vicino, che era conosciuto personalmente dall'autore il quale lo citò nell'ultimo capitolo dell'opera. Ma, quando stavano per iniziare i lavori, la foresta di Saron descritta nella Gerusalemme Liberata, opera del figlio di Bernardo, Torquato, colpì maggiormente la fantasia dell'Orsini: la selva stregata da un Plutone analogo a Oronte, con tutti i suoi richiami agli Inferi, divenne la linea guida del nuovo ampliamento.
In Torquato Tasso l'orrendo non è più manipolazione demoniaca della natura ma diviene categoria del naturale che suscita il sentimento "tragico" del tema e sollecita il pathos della poesia.
Il Sacro Bosco riproduce quindi la prova della selva incantata con evidenti margini di avventuroso divertimento. Ecco perché c'è anche un alternarsi continuo di visioni spaventevoli e allettanti (ninfe e sirene) fatto che era invece sembrato ai critici un'insanabile contraddizione.
Una delle sculture più enigmatiche, presente nel parco, è proprio quella di
Plutone, identificata spesso con Nettuno, rappresentato maestosamente seduto e affiancato da attributi iconografici consueti:
1)la cornucopia (Plutone in greco significa: donatore di ricchezze);
2)il mostro marino a fauci spalancate (rappresentante i fiumi infernali e il suo dominio su di esse).
Alla sua destra c'è un delfino, che egli accarezza.
È comunque un'iconografia che ricalca anche quella dei fiumi. Nell'Amadigi, Oronte è il nome di un grande fiume della Siria, che è ricordato anche nell'Orlando Furioso.
Inoltre l'Oronte dell'Amadigi ha molte affinità con le acque e con Oceano. Un particolare ancora più importante è che la sua donna teneva i prigionieri "immersi in un profondo lago", proprio come avviene nella scultura presente subito dopo questa: è una figura femminile mastodontica che tiene un'altra figura a testa in giù.
Davanti al gigante maschio c'erano, inoltre, una serie di vasi in doppia fila che introducevano alla sua fonte e che visibilmente richiamavano le urne funerarie del tempio distrutto di polifilesca memoria (modello per il Sepolcro) e dedicato a Plutone. Ma in questi vasi ci sono delle scritte che riportano al motivo delle fiere che nell'Amadigi vigilano su Oronte. Si legge infatti in alcune scritte mutile:
FONTE NON FU ...
CHINGUARDIA SIA DELLE PIU' STRANE BELVE
NOTTE E GIORNO NOI SIAM VIGILI E PRONTE A GUARDAR D'OGNI INGIURIA QUESTA FONTE ...
Le belve sono "strane" ovvero sono creature dell'inganno o di un incantesimo.
Come si vede chiaramente c'è il continuo riamando alle varie opere a cui si fa riferimento che vengono così inglobate in un'unica grande rappresentazione.
Un po' prima, nello spazio confinante con il sottostante Sacrario di Venere, fu posta un'enorme figura femminile addormentata, da tutti considerata una ninfa, ma che nel quadro della Gerusalemme assume l'identità della bella maga Armida che, come Plutone, fu incaricata di ostacolare gli eserciti cristiani; o forse è la divinità orfica del Sonno e della Notte cui Michelangelo dedicò un sonetto:
"O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn'opera sempr'al fin assalta.
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero
Che l'umid'ombra ogni quiet'appalta
E dall'infima parte alla più alta
In sogno speso porti ov'io ire spero".
Il Drago: dalle ali di farfalla, azzannato da un leone doveva dare corpo agli echi delle creature che si muovevano dentro la selva di Saron, mentre:
L'elefante, in assetto di guerra, munito di torre sul dorso e stritolante un legionario incarnava l'Africa, nemico e "mostro" da sopprimere per i militi di religione cristiana. Il pachiderma poteva essere pure un tributo al figlio dello stesso Vicino, Orazio, morto nella battaglia di Lepanto (1571) contro i Turchi. Forse al primo percorso dedicato alla memoria di Giulia si aggiungeva quello in memoria del figlio.
La figura seduta ai margini delle urne, quella di migliore fattura dell'intero Bosco Sacro, fu spesso identificata con Cerere, ma con ogni probabilità all'interno del comprensorio infernale si volle rappresentare Proserpina (ninfa dello Stige), la compagna di Plutone e figlia di Cerere stessa che, della madre, possedeva gli attributi.
Il mondo dei morti continuò ad animare il boschetto con il:
Cantaro (o Vaso Gigante), sulla cui base compare Medusa, creatura sotterranea. Nel Timeo viene detto che in un cratere furono gettati i semi di tutte le cose e ogni anima li contiene tutti quanti; e, come in quel cratere in cui c'è la mescolanza di tutto, essa può riconoscere ogni cosa grazie ad un'intima affinità.
Nel bosco c'è anche la presenza di Cerbero, custode tricipite dell'accesso agli Inferi, a cui salgono i pànici. Triplice perché, come insegna Pico, anche nel regno dell'oscurità vale la regola della Triade: il regno infero è quello delle Tre Parche:
- la prima porge lo stame
- la seconda lo avvolge
- la terza lo annoda;
È il regno del gelido Saturno, dove:
- Giove dà inizio;
- Nettuno svolge;
- Plutone chiude.
Le tre fauci di Cerbero sono aperte: perché, come cane, latra ad ogni ombra: è in questo modo che Cerbero annuncia le ombre e i misteri.
Salendo per un declivio si giunge al terzo livello del parco.
Qui si viene accolti da due figure femminili:
1) la Sirena Bifida con il volto aggraziato che finisce con un corpo di pesce che si divarica in due code scagliose. La si incontra spesso nelle pagine di Polifilo. È una figura del panico sottile che può suscitare il potere del grembo femminile, delle acque che nelle viscere della terra sollecitano la febbre delle geminazioni
2) la figura senza braccia né gambe che alza le vaste ali di pipistrello, animale notturno e fecondo e simbolo di paurose irruzioni della notte.
Ancora leoni, tombe, uno spazio evocativo delimitato da grosse pigne e ghiande in peperino cui presiedono due orsi che reggono, tra le zampe, la rosa. Gli orsi si nutrono di ghiande e di pinoli e in loro si concentra la forza riproduttrice.
Nel 1583, prossimo alla fine, Vicino si persuase di «essere ancor bono per li diletti de Venere ... perché alle volte giova considerare e intendere una cosa come se fusse vera» in ciò coerente a quanto aveva fatto dire alla sfinge: «e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte».
Come per Aristotele, anche per Vicino la Meraviglia divenne il motivo della conoscenza: «Chi ammira e dubita sa di ignorare».
Nei secoli successivi il Parco, opera di certo singolare, fu sempre considerato il «curioso esperimento» di un sognatore.
Il Sacro Bosco fu trascurato fino a quando, nella prima metà del XX secolo, ad artisti e uomini di cultura sembrò geniale l'idea di trasformare le rocce insignificanti del luogo in creature e architetture immaginifiche.
Fu Salvador Dalì, esponente del movimento surrealista, tra i primi che cercarono di recuperare la memoria storica del Bosco Sacro e il suo recupero architettonico.
Egli vide negli ignoti artisti di questo capolavoro a cielo aperto alcuni dei precursori del surreale, come già erano considerati sia Bosch sia l'Arcimboldo.
A tutt'oggi però non c'è una pubblicazione che abbia dato una risposta definitiva e ancora più misteriosi risultano gli artefici, come se magicamente il Bosco stesso si fosse impossessato delle loro identità storiche per acquistare un'anima autoctona.
Bibliografia
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Calvesi M., Il Sacro Bosco di Bomarzo, La prova della selva stregata, in "Art e Dossier", N. 40, pp. 15-23, 1989.
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Zuccari A., Raffaello e le dimore del Rinascimento, in "Art Dossier", n. 7.
AA.VV. , Il Cinquecento, Natura e Artificio, in Enciyclomedia, CD-ROM de "L'Espresso".
Calvesi M. , Gli incantesimi di Bomarzo, Il Sacro Bosco tra arte e letteratura, Milano, Bompiani, 2000.
Brio William Davide, Il Sacro Bosco di Bomarzo (Viterbo) tra incantesimi d'amore e creature fantastiche, in "Italy Vision", n. 1, pp. 2-15, Gennaio - Febbraio, 2003.
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