Rosetta Messori attraversa i corpi dotata com'è di una propria capacità di sondare nell'invisibile quelle rarefazioni di passaggio tra l'essere e l'esser stato.
Il passato si racchiude pregno e folto nello scatto di un quarto di secondo.
Ciò che l'occhio non vede lei ce lo rivela.
Mostrandoci come il movimento ci vive sempre a nostra insaputa. Capaci come siamo di dileguarci perdendoci nelle scie di un istante già compiuto e che non potrà più essere ormai che nella nostra memoria.
Il passato come scorie di un noi che camminando avanziamo nell'esistenza divenendo di già altri da ciò che eravamo: la distruzione dell'essere che animato nel contempo muore sempre un po' del sé.
Quel sé che la luce vince, annientandolo. Quel sé evidentemente di troppo nella moltitudine che ci caratterizza sotto l'egida dell'io così refrattario a mostrarsi, non può nascondersi alla luce e all'occhio che, curioso, fugace si accelera nella cattura.
Ma l'occhio altro non è se non lo strumento che consente di porci in contatto catturandola la vibrazione di un altro essere. Il vibrare energetico, quell'aura che avvolge ognuno Rosetta è andata a indagarla acciuffandola fino in Egitto là dove essa è realmente e ancora. Nell'habitat dell'uomo ancora integro di se stesso, scevro da bramosie di possesso consumistico ma anzi oggetto di un possesso da parte di chi, più grande di lui, si prostra ad onorare nel luogo simbolo della sua fede: la moschea.
La sintonia del sentire dota Rosetta della chiave d'accesso ad altri imprendibile. La macchinetta fotografica il medium che consente il passaggio dell'energia; l'infinita vitalità che ci permea abitando i corpi di una speciale forza, che diviene cinetica. E il linguaggio di per sé piatto della fotografia diviene cinetico. Mentre però il cinema segue, asseconda e "vigila", la fotografia, il fotodinamismo di Rosetta Messori svela, cattura nella non posa ma nella naturalezza e spontaneità di un gesto connaturato in colui che lo compie.
Il passato è già morto e ci dona diversi spogliandoci di una parte di noi, quasi assottigliandoci perché ci libera di qualcosa che non c'è più; bruciandocela ci consente di progredire.
Allora pure i corpi ci appaiono scindersi in plurimi io ormai divenuti ombre ma non per questo incancellabili.
La luce brucia e rigenera. Come un utero contiene e poi sprigiona via per sempre. Il buio e la luce ci contengono entrambi come a volerci l'uno tenere in gestazione, l'altra condannarci alla nostra esistenza che ci rende finiti, enumerati come individui riconoscibili e perciò destinati a una fine.
Ma l'individuo, come un albero, si spoglia prontamente di ciascun io per rigenerarsi come quando muoiono le foglie.
L'essenza si scioglie al sole ma è l'ombra a permettere all'occhio fotografico di giocare. L'ombra è l'orpello di troppo, l'io già dimenticato. E l'occhio di Rosetta si pone in ascolto. Pazienta il passaggio di chi potrà concederle quella parte di sé a lui ignota e perciò per noi fruitori più vera.
L'attendere di sorpresa che l'inaspettato si compia (o si scompia) è ciò che ci rende l'alibi a essere sempre nuovi benché assottigliati. Il nostro potere ci trascende e Rosetta lo sa bene cogliendolo alle spalle affinché il mistero resti celato, puro accadimento nostro malgrado.
Forse perché proibito guardare ? Allora la sua missione è divenuta indagare, esacerbandolo fino allo sfinimento l'essere che si ripete così all'infinito come un andare oltre prescindendo da ogni proibizione.
Diversamente dal disegnare con la luce siamo in contatto con un fotografare che è rendere alla propria infinita finità sdoppiandoci, tenendoci prigionieri di un falso movimento che mai ci consentirà di liberarci di noi stessi.
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http://www.rosettamessorigarbin.com/
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