Un imprevedibile spirito sacrale
mi hanno da subito ispirato queste immagini, nate grazie ad un esperimento
apparentemente tecnico affidato alla proiezione molecolare.
Se al sacro, al santo, al divino
è legato il tema dell’apparizione, dell’epifania, non è insensato scorgere
nelle improvvise visioni che l’occhio incontra (capta) di fronte alle lastre in
plexiglas - a secondo del punto di vista, a secondo della posizione della fonte
luminosa - un’epifania che le sottrae al tecnicismo, rendendo le sequenze di
questi oggetti virtuali – il telefono, il tape recorder, la macchina da
scrivere – una sorta di teoria di santi o di profeti. All’inconsistenza
dell’oggetto si aggiunge l’elemento circolare onnipresente ed il circolo della
luce che domina dall’alto la ‘cosa’, l’oggetto.
La tastiera della macchina da
scrivere, o le bobine della vecchia telecamera, se da un lato ricordano in
quanto oggetti vaghe ascendenze duchampiane, dall’altro impongono alla visione
un gioco liberatorio del pensiero. Insomma il
ready-made duchampiano, sostanziato dalla sfera dell’esperienza mistica,
diviene un vero gioco sui prodigi, un anti-ready-made.
Inoltre l’oggetto virtuale si
completa quasi sempre con un oggetto concreto (la cornetta reale vicino al
telefono virtuale). Questo fa sì che nello stesso luogo, spazio e tempo si
percepisca contemporaneamente il reale e
il virtuale, la tecnica e l’esperienza mistica: mondi inconciliabili che
entrano così non tanto in dialogo quanto in ‘frizione’ fra loro. L’assurdità di
questo ‘assemblaggio’ di sensazioni disparate e distanti intensifica le facoltà
visionarie. Afferrare due realtà distinte ha dunque lo scopo di ottenere una
‘scintilla’ dal loro accostamento e - privandoci di un sistema di referenza -
di spaesarci.
Con questo esperimento sulla
visione è come se l’artista cercasse la collaborazione al di fuori di sé, per
andare incontro ad un ‘nuovo ignoto’, conferendo alla sua ricerca sulla
proiezione molecolare uno straordinario potere di suggestione.
Il gioco sul buio (la tavola nera
di supporto), illuminato dal lampo di luce abilmente orchestrato rende gli objets
simili a misteriose apparizioni, a una successione allucinante di immagini
contraddittorie.
Se di uno sfioramento surreale (o
surrealista) si può parlare nel modo in cui sono presentati gli ologrammi,
questo è maggiormente ravvisabile in quella ‘surrealtà’ faticosamente portata
avanti da Georges Bataille sui fogli di ««Documents» con gli accostamenti
triviali delle sue fotografie (documenti, appunto) che mettono a nudo uno scarto
tra realtà e immaginario, tra realtà e simulazione, grazie alla provocazione di
un corto circuito, di una paradossale quanto imprevedibile rete di rapporti che
ha fatto affermare a una certa critica che la rilettura di «Documents» può
presentarsi oggi come un autentico momento chiave del pensiero moderno
sull’immagine.
Ecco in questo senso, l’aspetto
effimero, temporaneo, provvisorio delle lastre ologrammate di Dora Tass pongono
una riflessione non sul ‘divino’ in quanto tale, ma piuttosto su un nuovo, libero
modo di pensare le immagini. In questo senso l’artista-creatore fa opera di
conoscenza, forse scoprendo in questi oggetti proprietà latenti che altrimenti
non potevano essere percepite; esattamente come fa il poeta ogni volta che si
serve di una parola in modo inconsueto.
La qualità eminentemente mentale,
analitica e critica del lavoro, si distacca anche dalla ‘corposità scomposta’
degli esperimenti di Bataille sull’immagine, provocando tuttavia un risultato
per certi versi simile.
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