A partire dal X secolo, nella zona più
interna del versante orientale di Ravello, compare nella documentazione una
località, chiamata Sabuco, il cui
nome deriverebbe dalle piante di sambuco, utilizzate soprattutto
come siepi di delimitazione tra le proprietà terriere. L’area presentava una
fitta vegetazione, in gran parte costituita da castagneti, inserteti, querceti,
selve e frutteti, nonché dall’esistenza di diverse sorgenti, come Aqua Fliba e Aqua Sabucana, quest’ultima al confine con Tramonti. All’interno di
questo vasto territorio si trovavano diversi insediamenti, tra cui quello di Ponte Magno, che al suo interno
comprendeva il casale detto la Pumice
o Pomice. Tale denominazione deriverebbe da un tipo di roccia magmatica molto
leggera, la pomice appunto, abbondante in Costiera Amalfitana, e utilizzata
specialmente nella composizione delle malte [1] .
La prima attestazione della località Pumice di Sambuco è in una pergamena del
998, il più antico documento originale ravellese, attualmente conservata
nell’Archivio Vescovile di Ravello [2] . Da essa è possibile avere
una chiara descrizione del territorio, composto da vigneti, castagneti, campi,
selve, frutteti, nonché da case coloniche e ambienti per la vinificazione. Fu
proprio la coltura della vite ad avere la massima diffusione agli inizi dell’XI
secolo, quale risultato di un’intensa attività di colonizzazione, attuata da
alcune famiglie autoctone, come, nel caso della località Pumice, dai de Maurone [3] . All’interno dei casali,
dove lavoravano e vivevano famiglie contadine, iniziarono a sorgere alcuni
edifici di culto, spesso di fondazione privata, come avvenne presumibilmente
anche per la chiesa di Santa Maria della Pumice o Pomice, sulla quale, agli
inizi del XIII secolo, esisteva un diritto di patronato della famiglia atranese
dei Cappasanta [4] .
Nei primi decenni del XIII secolo, Tommaso
Cappasanta vantava sulla chiesa un credito di 60 uova, che annualmente
percepiva a Pasqua e a Natale. Non essendo state riscosse le annualità per
diversi decenni, nel 1232 il debito aumentò a circa 1200 uova. Esasperato da
tale situazione e per porre un argine all’ingerenza dei porzionari o consorti
dei luoghi di culto su cui gravavano questi enormi oneri, il Vescovo di Ravello, Pietro de Plano, richiese l’intervento del
pontefice Gregorio IX, che, con breve
del 5 ottobre 1232, affidò la vertenza al vescovo di Troia Gregorio [5] .
La sentenza del primo agosto 1235, emanata da
Guardia Lombardi, si pronunciò a favore delle chiese ravellesi, che ottennero
la piena libertà nei confronti dei loro “patroni” e il condono del grosso
debito [6] .
Alla fine del Duecento, risale,
presumibilmente, anche la decorazione absidale, che culminava con l’affresco
del Cristo Pantocratore, cioè “Signore di tutte le cose”, paragonato da Angiola
Maria Romanini, una delle massime studiose di Storia dell’Arte Medievale del
Novecento, alla qualità esecutiva del «secondo maestro del Duomo di Anagni» [7] . Lucinia Speciale, invece,
proponendo come fase di realizzazione la seconda metà del XIII secolo,
associava l’affresco ravellese a quelli della cappella funeraria dell’abbazia
di S. Maria de Ferraria, presso
Vairano Patenora, nel casertano, oppure a quelli duecenteschi del Chiostro
amalfitano del Paradiso [8] . Dal quadro fin qui
delineato risulta che la chiesa di Santa Maria della Pomice, dal punto di vista
canonico, era un beneficio ecclesiastico senza cura d’anime, concesso molto
spesso dalla Santa Sede a sacerdoti di diverse diocesi, italiane e straniere,
come avvenne nel 1324 per Guglielmo de Ferraria, canonico della cattedrale
francese di San Gaugerico, in Diocesi di Cambrai. Nel documento pontificio si
fa menzione anche di altre chiese ravellesi, come quelle di San Vito di
Sambuco, di San Nicola a Bivaro, di Santa Maria de Factirossis e
dell’Annunziata, le cui rendite ascendevano a trenta fiorini.
Notizie più precise e frequenti su Santa
Maria della Pomice cominciano ad aversi dal 1577, anno della Visita Pastorale
del vescovo ravellese Paolo Fusco, che si recò a Sambuco il 26 novembre,
visitando la piccola chiesa, di cui era beneficiario il sacerdote Vito Antonio
de Mandina.
Il verbale riferisce che la festa si celebrava il 17 di agosto, poi spostata
dal 1612 alla domenica tra l’ottava dell’Assunzione, e in quel giorno il popolo
di Ravello, con grande devozione, accorreva verso quel luogo, a ricordo di un
evento miracoloso operato per mezzo dell’intercessione della Vergine della
Pomice, presso la quale i fedeli si rivolsero nel tempo delle piogge
torrenziali chiedendo il ritorno del clima sereno. Per tale motivo, dal 1577 al
1579, papa Gregorio XIII concesse la celebrazione di uno speciale giubileo per
il giorno della festa di Santa Maria della Pomice. Nel corso della visita, il
presule ravellese visitò anche l’altare, che trovò spoglio, e alle spalle del
quale era affrescato il Cristo Pantocratore, altarem unum cum imagine Salvatoris depicta in pariete. Vi era anche un dipinto
su tavola raffigurante la Vergine Maria, quasi del tutto rovinato, e una croce
di ferro. Al beneficiario veniva ordinata la riparazione del tetto e il
rifacimento del dipinto. Alla fine del Cinquecento, il patrimonio mobiliare e
immobiliare della chiesa era costituito da censi annui, gravanti su terreni,
case, e castagneti situati a Campo, nel luogo detto li libertinii, e accanto alla chiesa, con annesso bosco.
Quest’ultima proprietà versava in condizioni rovinose, aggravate dai continui
incendi dolosi, per cui Don Vito Antonio richiese al vescovo Paolo Fusco la
possibilità di concederla in enfiteusi a Cosma Mandina, che poteva usufruire
anche di una antica casa con cisterna lì presente, lasciando alla chiesa il
libero godimento del cortile antistante. Agli inizi del Seicento, il nuovo beneficiario
di Santa Maria della Pomice era Don Fabio D’Agostino, al quale fu ordinato di
apporre un telo colorato sul dipinto della Vergine e una tovaglia decente
sull’altare.
Alla morte di D. Fabio D’Agostino, agli inizi
del 1608, il vescovo della Diocesi Ravello-Scala, Francesco Benni, univa alla
Parrocchia di Santa Maria del Lacco i benefici di Santa Maria della Pomice, San
Vito di Sambuco, San Giorgio alla Pendola, Santa Caterina del Lacco, Sant’
Aniello alla Marina, Sant’ Eustachio al Petrito, San Salvatore de Sabuco – in località Cigliano - e la
quarta parte di San Bartolomeo del Toro; decisione suggellata dall’atto
notarile del 23 marzo 1608, rogato dal Notaio Emilio Mandina.
Nello stesso anno, la seconda Visita
Pastorale del vescovo Benni confermava le prescrizioni precedenti, cioè di
provvedere al panno per coprire il dipinto e alla tovaglia per l’altare, e ciò
fu ribadito anche nel 1610. In quell’occasione, fu
ordinato al beneficiato, D. Francesco Bonito, di tenere ben chiusa la chiesa
durante la settimana e di aprirla solo la domenica e nei giorni festivi, onde
evitare che di notte potessero dormirvi all’interno. A metà del Seicento, la
chiesa appariva ben ornata e munita di molti paramenti, conservati presso
l’amministrazione laicale del luogo, i cui governatori (magistri) erano Giovanni de Domenico e Gennaro de Manso, e che
probabilmente curava anche le due feste annue che allora si celebravano in
onore della Vergine, la prima nell’Ottava di Pasqua, la seconda ad agosto. Un inventario di fine
secolo, che appare a margine del verbale della Visita Pastorale del 1694,
effettuata dal vescovo Luigi Capuano, annoverava tra gli oggetti preziosi della
chiesa tre lampade d’argento e due corone dello stesso materiale, applicate al
dipinto, all’altezza delle teste della Vergine e del Bambino.
Agli inizi del Settecento erano in corso i
lavori di rifacimento del tetto, per cui le tavole occorrenti erano conservate
nella sacrestia, creando non pochi problemi al decoro del luogo. Il 30
settembre 1710, il Vescovo Perrimezzi ordinava la rimozione delle tavole e il
completamento dei lavori entro due mesi, nonché l’apposizione di un cancello
doppio per la finestra al di sopra della porta d’ingresso. La preoccupazione
maggiore per i rettori della chiesa era lo sfruttamento delle grosse selve di
proprietà, situate accanto all’edificio e a Grotta di Campo, che rischiavano di
essere rovinate dagli animali. Nel 1721, il nuovo Parroco di Santa Maria del
Lacco, Don Natale Capezza, chiese al vescovo di Ravello l’assenso per poterle
locare per diciotto anni al medico, allora detto dottore fisico, Felice Coppola. Nel 1763, invece, poiché la chiesa
parrocchiale di Santa Maria del Lacco necessitava di urgenti lavori di
restauro, a causa delle tenuità delle rendite, il parroco pro tempore, D.
Romualdo Guerrasio, fu costretto a vendere tre lampade d’argento della chiesa
di Santa Maria della Pomice, ricavandone 50 ducati, il cui residuo fu
reimpiegato per l’acquisto di suppellettili.
A cura dello stesso Don Romualdo, tra il 1744
e il 1770, furono eseguiti i lavori di manutenzione della cappella, «perché da
me si ci è speso molto e ridotta altresì allo stato presente», e la costruzione
di un’abitazione per un eremita che aveva scelto la vita contemplativa presso
quel luogo.
La notizia compare in una relazione del 1770,
che ci informa dettagliatamente anche sulle dimensioni della chiesa, lunga
13,60 e larga 4 metri, e contenente due altari, l’uno dedicato alla Vergine,
l’altro al SS. Crocifisso. La devozione per la Vergine della Pomice, intanto,
aveva valicato i confini ravellesi, come attestavano il legato di Teresa
Colucci, che nel 1743 donava tre appezzamenti di terra con alberi di carrube,
situati alla Marina, sopra la località Castiglione, con l’onere di celebrare
otto messe annue in onore della Madonna, oppure la festa in Suo onore,
organizzata a settembre, nella domenica dopo la Natività della Beata Vergine
Maria, dalla famiglia Iannelli di Minori.
Per tale occasione, Benedetto XIV concesse,
con breve del 6 giugno 1749, l’indulgenza plenaria ai fedeli che avessero
visitata la chiesa, mentre, due anni dopo,
lo stesso pontefice ne accordò un’altra per la Commemorazione dei Defunti fino
all’Ottava, e in un giorno di ogni settimana da designarsi dall’Ordinario a
chiunque avesse celebrato messa per i defunti stessi. Nel corso
dell’Ottocento, la chiesa fu visitata, nel 1874, da Don Paolino Pansa, durante
la Visita Pastorale dell’Arcivescovo di Amalfi Francesco Majorsini, che non vi
si recò perché molto distante dal centro e situata in luogo alpestre. Il verbale, vergato dal
Segretario Don Salvatore Porpora, si limitava a confermare la discreta tenuta
del luogo di culto, mentre si ordinava di coprire la pietra d’altare con tela cerata. Nel 1880, da una
“rivela” (relazione) redatta dal Parroco di Santa Maria del Lacco Pantaleone
Mansi, e allegata ai verbali della Visita di Majorsini, sappiamo che Santa
Maria della Pomice «era ben tenuta a spese e divozione de’ fedeli di quei
contorni. Si celebra la messa ne’ giorni festivi colla limosina che
contribuiscono i fedeli, e n’è Cappellano il Canonico D. Giacomo Mansi»;
aggiungeva, poi, che, in occasione della festa, celebrata come ricordato la Domenica in Albis, con la partecipazione del Parroco di Santa Maria del Lacco,
non si faceva la processione, «essendovi solo un bel quadro di Maria
Santissima», ma vi partecipavano molti fedeli.
Quanto scritto finora era confermato, nel
1887, in un’ulteriore descrizione della chiesa, contenuta nel volume Ravello Sacra Monumentale, scritto
dall’arcidiacono della Chiesa ravellese Don Luigi Mansi, che aggiungeva: «oltre
l’altare maggiore ve n’è un altro di marmo al presente fatto e dedicato
all’Addolorata, vi è pure la sagrestia, due stanze sopra la chiesa (…) Da pochi
anni vi si conserva il SS. Sacramento».
All’aprirsi del nuovo secolo, sono ancora le
fonti dell’Archivio Arcivescovile di Amalfi a fare luce sulle vicende della
piccola cappella di Santa Maria della Pomice; la prima Visita Pastorale
compiuta il 29 luglio 1917 dall’Arcivescovo Ercolano Marini restituiva una
testimonianza davvero toccante sulla realtà sambucana di inizio secolo,
«povera, come povera è la popolazione di questo alpestre villaggio, molto
lontano dalla parrocchia del Lacco, di cui fa parte. Mons. Arcivescovo entrato
in chiesa rivolge un’esortazione al popolo, prendendo occasione dal Vangelo del
giorno: Videns civitatem, flevit super
eam. Esorta gli uditori a far sì che i fanciulli frequentino il Catechismo
e ordina a Don Carmine Mansi di leggere in ogni Domenica una breve spiegazione
del S. Vangelo, e d’insegnare il Catechismo ai fanciulli, a cui d’altra parte
il Parroco già ha provveduto, dandone l’incarico alla Maestra di Stato. Il
popolo è molto grato non avendo mai veduto l’Arcivescovo nel loro villaggio.
Prima di partire Mons. Arcivescovo amministra la Cresima in Chiesa ad un
fanciulli idiota (incolto)».
Ed è questa anche una delle ultime
testimonianze, peraltro singolare, sull’antica chiesa di Santa Maria della
Pomice, perché non apparirà più visitata nelle Visite che il presule
marchigiano tenne fino al 1945.
Nel 1982, a seguito della contemporanea
realizzazione di un nuovo complesso parrocchiale, con chiesa e strutture
abitative, e presumibilmente per coprire una buona parte delle spese necessarie
al suo completamento, col consenso della Curia Arcivescovile e dei
parrocchiani, la chiesa di Santa Maria della Pomice veniva ceduta a privati,
con atto rogato dal Notaio Pansa di Amalfi, in data 12 luglio, imponendo al
compratore l’onere di ristrutturare e conservare l’area absidale dell’antica
chiesa per il suo carattere sacro.
Pochi anni dopo, nel settembre 1991, fu
denunciata alla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e
Storici la presenza di un affresco nel catino absidale, cui seguì, ad agosto
1992, quella dell’Associazione “Ravello Nostra”.
Intanto, grazie all’interessamento del Prof.
Stefano Colonna e della Soprintendenza l’affresco era sottoposto alla
valutazione di autorevoli studiosi, e, nel 2000, il Ministero dei Beni e le
Attività Culturali avviò il giudizio per dichiarare la nullità del contratto di
vendita della cappella e al quale la Parrocchia non fece alcuna opposizione, sostenendo le ragioni del Ministero.
Successivamente, a seguito di procedura
fallimentare, una parte del complesso, quella superiore, veniva esecutata,
divenendone creditore il Banco di Napoli.
Oggi, per buona ventura, la parte inferiore
del complesso, corrispondente all’antica chiesa, è ritornata nel possesso della
Parrocchia di Santa Maria del Lacco, mentre si resta in attesa non solo che gli
altri ambienti siano definitivamente restituiti al primo possessore, ma che la
pianificazione di un grosso intervento di restauro restituisca, nella sua
primigenia fattura, l’affresco absidale del Cristo Pantocratore, Signore del
tempo e della storia.
NOTE
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