Joseph
Cornell, il “cacciatore di immagini”
Joseph
Cornell, eterno flâneur
per le strade di Manhattan, è un artista viaggiatore, un “uomo
della folla” alla Edgar Allan Poe. I suoi viaggi si limitano alla
New York degli emigranti, dei rigattieri, delle biblioteche, dei
parchi, dove l’immaginazione infantile dell’artista può
esplorare con incanto la meraviglia del quotidiano. Cornell è un
autodidatta che si nutre dell’esperienza visiva: la sua arte nasce
dalla sua vita, dai suoi incontri, da quello che percepisce e che lo
affascina.
La
sua fama è legata alla creazione delle Shadow
Boxes,
assemblages
mnemonici
nei quali la poetica dell’objet
trouvé
viene esposta in una ragnatela di corrispondenze che nascono dalle
sue consonanze interiori. Le scatole, cioè, sono una collezione di
“oggetti trovati” nella città di New York (seguendo un rituale
di “caccia di immagini”) e assemblati secondo una poesia dettata
dal ricordo e dalle sensazioni personali dell’artista. “Ma
Cornell, anche se usciva ogni giorno dalla porta del tempo per
esplorare le magiche prospettive dell’immaginazione associativa e,
come un bimbo che incolla le figurine la sera, lavorava sul tavolo
della cucina della modesta casa di Long Island sepolto in un mondo di
piccoli oggetti, ritagli di stampe, biglietti di viaggio scaduti,
angeli di bisquit
e
di carta ricamata, bicchierini, palle di vetro colorate, etichette,
piccoli flaconi, carte del cielo e del mare, fotografie, frammenti di
specchio, rami secchi e infiniti relitti del tempo, non per questo
mancò di partecipare attivamente, in prima linea, alla vita di
quella grande vicenda dell’arte americana”
.
Le
sue creazioni nascono da un “accumulo” di influenze che
rispecchia le diverse tendenze dell’arte americana di quegli anni,
debitrice del contatto con la cultura europea: la storia del vecchio
continente arriva negli Usa ritagliata e ricomposta nel collage,
vero
e proprio deposito di immagini.
Le
scatole di Cornell sono un’evoluzione nonché una rilettura di
questa tecnica, medium
che permette di realizzare le opere secondo un meccanismo di
parificazione delle componenti. L’artista rielabora, cioè, i
principi teorici alla base del Cubismo, del Dada e del Surrealismo
secondo una visione intima e personale filtrata da una memoria
nostalgica dal sapore dechirichiano.
Proprio
grazie al collage,
Cornell si avvicina all’arte sperimentando il potere del frammento:
è una condizione contemporanea che anima le opere di James Joyce e
Gertrude Stein, la musica di Eric Satie, l’arte di Pablo Picasso e
Kurt Schwitters. “Il modernismo in arte e in letteratura ha dato
all’individuo una libertà senza precedenti d’inventarsi un suo
mondo a partire dai frammenti di quello esistente”.
La
frammentazione e l’attenzione ai singoli elementi nascono dalla
sensibilità collezionistica dell’artista: “L’oggetto più
caduco egli lo trattava come il più raro cimelio di un principe o di
una principessa leggendari: si deve rispettare l’intensità di tale
visione e la magia con cui adornava il consueto riferendogli un
aspetto espressivo interessante”.
La
cantina-laboratorio di Utopia Parkway , emblema della sua passione
per l’oggetto, è il deposito espositivo della sua collezione
(accessibile a pochi intimi): come in una Wunderkammer,
gli oggetti diventano rarità da cabinet
de curiosité
e i ritagli di giornale, le pagine delle riviste, gli appunti, le
fotografie costituiscono dossiers
tematici sulla cultura europea e americana.
Una
galleria di incontri casuali
La
cultura visiva di Cornell non basta a giustificare il suo lavoro
interpretativo. La sua arte è specchio del dibattito sull’estetica
contemporanea, un intreccio di tecniche e modalità percettive che
risentono della cultura europea portata dai Surrealisti.
L’incontro
tra Cornell e questi artisti va in scena alla Galleria di Julien
Levy, colto e sensibile amante dell’arte che aveva fatto del suo
centro espositivo un ponte tra le due culture. Il suo interesse non
si limita alle grandi opere, ma si spinge verso le espressioni più
bizzarre e sconosciute delle ricerche contemporanee.
Sarà
proprio Julien Levy a spronare Cornell ad esporre e a continuare i
suoi esperimenti artistici quando gli mostra quei “due o tre
collage
che aveva in tasca”.
Il
gallerista diventa un punto di riferimento importantissimo per
Cornell, un consulente, un mecenate, un amico e un tramite che gli
permette di incontrare i maggiori artisti dell’epoca.
Levy
capisce da subito il valore e il fascino dei lavori di Cornell, tanto
da inserirli in una delle mostre della galleria: “Cornell
showed his own initial efforts at collage, consisting of montages on
cardboard in a photo-collage technique influenced by Ernst, to Julien
Levy, who included them in the pioneering Surrealist group show held
at the Gallery in January 1932”.
In questa mostra Cornell ha la possibilità di confrontarsi con gli
esponenti più significativi dell’arte di quegli anni: “The
exhibition featured collages by Ernst together with paintings by
Dalì, Ernst, Picasso, Man Ray, Pierre Roy, and others, and
photographs by Eugène Atget, J.A. (Jacques André) Boiffard, Man
Ray, Georges Lynes, and László Moholy-Nagy”.
L’idea
di Levy non è così ardita perché le opere di Cornell sono
realmente avvicinabili alla sperimentazione artistica dell’epoca.
“Cornell
exhibited a glass bell containing a mannequin’s hand holding a
collage of roses”,
un chiaro riferimento a Snowball
di Man Ray.
Le
sue creazioni, dal carattere fortemente collezionistico, risentono
del culto vernacolare di Max Ernst: “Ernst’s
collages, however, were not just inspirational in their own right.
They
also resonated with Cornell because his familiarity with the cult of
vernacular images that he had grown up with and then encountered in
mountains of discarded, out-of-fashion Victorian ephemera during the
1920s”.
Alla
fine dello stesso anno Levy promuove la prima personale di Cornell
dal titolo Minutiae,
glass Bells, Coups d’ Oeil, Jouets Surréalistes
che
evidenzia ulteriormente la vicinanza d’idee tra l’artista e il
gruppo.
Cornell
parte dalla stessa densità associative illogica dei Surrealisti
volta ad un effetto straniante sull’osservatore, ma si sostituisce
al caso: l’accostamento dei ritagli nell’arte di Cornell non
nasce in modo automatico, ma è frutto di una riflessione originata
dalle sensazioni dell’artista, muse della poesia dell’immagine
che permette di far incontrare due oggetti in una scatola.
Guggenheim-Ernst:
una casa “carica di matti”
Nella
New York della cultura, animata da intrecci di idee e di opere
innovative, galleristi ed artisti vivono a stretto contatto grazie al
fervente mercato dell’arte che basta, da solo, a spiegare molti
degli “incontri casuali” dell’epoca.
Tra
i maggiori collezionisti delle opere di Cornell intorno agli anni
Quaranta c’è Peggy Guggenheim, moglie del noto surrealista Max
Ernst e grande acquirente di pezzi pregiati di Calder, Tanguy, Ernst
e Duchamp per l’apertura di una galleria, la "Art of this Century".
In
una giornata piovosa del 1942 Cornell prova a contattare la
Guggenheim per accordarsi sulla spedizione di alcune scatole quando,
all’altro capo del telefono, risponde un ospite abituale di casa
Ernst: Marcel Duchamp.
La
stima tra questi due artisti è ben radicata all’epoca della
telefonata: Duchamp aveva consigliato a Peggy Guggenheim l’acquisto
delle scatole di Cornell e il “cacciatore di immagini”, dal canto
suo, nutriva per Duchamp un’ammirazione quasi maniacale, tanto da
collezionare ritagli, articoli e fotografie come objets
trouvés
per un dossier
tematico dell’artista.
I
due si erano incontrati per la prima volta nel 1933 ad una mostra di
Brancusi organizzata proprio da Duchamp alla Brummer Gallery. C’era
una grande folla di visitatori alla mostra, vista l’eco della
vicenda legale del celebre Bird
in Space
del 1926: la causa, vinta da Brancusi con l’aiuto di Edward
Steichen, aveva facilitato l’importazione delle opere europee negli
Stati Uniti.
Duchamp,
grazie al suo carattere socievole e alla delicatezza nell’avvicinarsi
agli artisti, era riuscito ad accattivarsi la fiducia del timidissimo
Cornell: sarà uno dei pochi visitatori della cantina-laboratorio di
Utopia Parkway, covo dell’archivista visionario.
Cornell,
come Duchamp, è un artista che “lavora con le cose”. L’amore
per l’oggetto, enigmatico serbatoio di significati, è il nodo
d’intreccio dell’operare dei due artisti che scoprono, nella
passione per la veridicità dell’opera tridimensionale, un modo di
interpretare il contemporaneo sulla scia di Picasso: l’arte non si
crea, ma si trova.
Le
scatole di Cornell, come i ready-made
duchampiani, rappresentano l’evoluzione di questa concezione
estetica: è la poetica dell’objet
trouvé
prelevato dal suo contesto d’origine e riqualificato come opera
d’arte. L’idea rispecchia la stessa finalità del museo in cui un
oggetto perde la sua funzione pratica per diventare arte in
esposizione proprio come gli ephemeras
delle Shadow
Boxes.
L’operazione
realizzata da Cornell sull’oggetto, però, è più complessa di
quella duchampiana. Il materiale trovato costituisce la prima tappa
della sua arte: solo dopo una profonda meditazione che segue le
consonanze interiori dell’artista un oggetto incontra l’altro
secondo un’associazione tematica che permette di costituire gli
assemblages.
Ernst
e Duchamp: una chiave di lettura per l’arte di Joseph Cornell
Se
l’arte newyorkese degli anni Trenta è il risultato di una
contaminazione tra la cultura americana ed europea proprio grazie
agli incontri favoriti dal mercato dell’arte e dalle esposizioni,
le opere di quell’epoca sono realizzate secondo una visione
fortemente influenzata dal Dada e dal Surrealismo.
La
densità associativa dei Surrealisti e la riqualificazione
dell’oggetto duchampiano creano uno shock
sullo spettatore tanto a livello visivo quanto narrativo. Queste
opere sono accompagnate da titoli stranianti che risentono
dell’atmosfera ludica che nasce dal potere evocativo ed ingannevole
dell’immagine e della parola.
Ė
la premessa di quella che verrà identificata come la différance
derridiana, simbolo dell’impossibile corrispondenza tra
immagine/parola e cosa.
La
critica, su invito del gioco surrealista e dadaista, ha partecipato
allo spettacolo degli artisti, illusionisti del palcoscenico
dell’arte, interagendo con le loro opere nell’intento di scoprire
i paradossi, i doppi sensi, le assonanze fonetiche e i travestimenti
dell’inganno visivo.
Su
questa idea di partenza il romanzo- collage
di Ernst,
La
Femme 100
têtes,
svela nuovi scenari.
Il
titolo è “un pun
basato sulle possibilità omofoniche della lingua francese con almeno
quattro possibili significati: la donna dalle cento teste, la donna
senza testa, la donna testarda, la donna sanguisuga”.
L’interpretazione
linguistica dei titoli è stata applicata anche alle opere di
Duchamp: il celebre travestimento dell’artista Rrose
Sélavy
è stato letto come Eros
c’est/sel la vie,
mentre la sigla L.
H. O. O. Q.
sotto la “Gioconda coi baffi” sembra voler significare Elle
a choqué o
Elle
a chaud au cul.
La
vicinanza di idee tra Cornell e questi artisti, colta da subito da
Julien Levy, è sancita dalla sua partecipazione alla mostra
Fantastic
Art, Dada, Surrealism
al Museum of Modern Art di New York nel 1936.
Il
fascino esercitato dal Surrealismo e da Duchamp su Cornell è
storico: “Nel 1942, con grande gioia di Joseph Cornell- che amava
il surrealismo già da molto tempo prima che la maggior parte degli
americani ne avesse sentito parlare,- i surrealisti e il loro amico
Duchamp, che non faceva parte di nessun movimento, lasciarono i
pericoli di Parigi per andare a New York”.
Il
contatto tra Cornell e questi artisti potrebbe aver dato origine ad
opere simili non solo sotto il profilo estetico e contenutistico, ma
anche narrativo.
L’idea
di questo scritto è quella di provare a rivedere l’arte di Joseph
Cornell attraverso giochi linguistici basati sulle assonanze
fonetiche dei titoli delle sue opere e delle tecniche artistiche
sperimentate partendo dalla certezza di un’influenza da parte del
Dada e del Surrealismo sul suo modo di creare e della passione per la
lingua francese. Lo studio sviluppa e amplia alcune letture
realizzate nel corso delle mie ricerche volte ad approfondire il
legame tra Cornell e gli artisti delle “scatole magiche”:
questa espressione veniva utilizzata per connotare il potere
illusionistico prima della macchina fotografica e poi del cinema.
Il
cinema di Cornell: un taglia e cuci di audiovisivi
Cornell
è universalmente noto come l’inventore del Found
Footage,
una tecnica cinematografica basata sulla combinazione di fotogrammi
provenienti da pellicole preesistenti, montate con visibile
imperfezione tecnica: la poesia di immagini si sussegue con effetto
straniante sullo spettatore.
Il
primo Found
Footage
realizzato da Cornell nel 1936 è Rose
Hobart:
è un movie-collage
composto da parti tratte da East of Borneo ( jungle
drama
del 1931 dove compare l’attrice Rose Hobart) e da un documentario
scientifico sulle fasi di un’eclissi. Le scene sono accompagnate da
un’insolita colonna sonora appartenente a Holidays
in Brazil
di Nestor Amaral. La visione del film è doppiamente falsata: le
sequenze si sviluppano a rallentatore rendendo solenne l’incanto
della diva, mentre il bianco e nero originale delle pellicole viene
alterato da un filtro di vetro blu montato sul proiettore.
L’idea,
assolutamente innovativa per l’epoca, non verrà ripresa fino al
1958 quando Bruce Conner monterà A
Movie.
Il
Found
Footage
sembrerebbe un genere minore della cinematografia: in realtà si
tratta di una tecnica che è alla base del Compilation
Film
degli anni Sessanta e del Mokumentary
degli anni Settanta, nonché stile compositivo del Vj
(video performance artist).
Oggi
il Found
Footage
si ritrova nella creazione dei video musicali o in un fenomeno
televisivo come Blob.
Anche
internet ha il suo Found
Footage:
i video caricati su youtube
rappresentano un’interpretazione della tecnica secondo
un’elaborazione personale da parte dell’utente.
Il
taglia e cuci di audiovisivi genera innumerevoli problemi di
copyright,
ma è anche fattore pubblicitario che, attraverso il recupero di
materiali preesistenti, ne promuove la fortuna.
L’idea
che è alla base del montaggio di Rose
Hobart
potrebbe essere nata in modo assolutamente casuale nella necessità
di riparare le pellicole danneggiate, evento frequente per chi, come
Cornell, colleziona vecchi film muti.
Lo
spirito infantile di Cornell nell’attaccare le pellicole come
nell’assemblare gli elementi delle Shadow
Boxes
riflette l’atmosfera ludica del Surrealismo. La sua arte è un
divertimento, un passatempo magico (tanto da chiamare alcune delle
sue opere slot
machines),
un’evoluzione dei primi giocattoli realizzati per il fratello
Robert. È proprio questo aspetto che mi spinge a leggere il Found
Footage
come Fun
Footage.
Il termine fun
(che significa “divertente”) si avvicina allo spirito dei film di
Charlie Chaplin tanto amati da Cornell.
La
comicità di Chaplin, però, nasce da un riso amaro in una condizione
di disagio e tristezza.
Intorno
alla metà degli anni Cinquanta Cornell vuole aggiungere un secondo
titolo o sottotitolo al film: tristes
tropiques.
La critica non si interroga su questa doppio titolo credendo che sia
un omaggio a Lévi- Strauss. Cornell, invece, aveva trovato questa
espressione in Against
Interpretation
di Susan Sontag: “The
tropics are not merely sad.
They are in agony”.
L’espressione
tradotta in francese permetteva di creare un’allitterazione forte
della “t” e di trasmettere un sentimento di tristezza che
caratterizza i primi film di Cornell. La scelta del filtro di vetro
blu, quindi, non è più così casuale: in francese bleu,
come in inglese blue,
il termine è un sinonimo di “triste”.
Il
colore si ritrova nelle scatole composte da Cornell per le dive, ma
anche nelle fotografie di Lee Miller, musa dei Surrealisti e amica di
Cornell. Gli scatti della Miller in questi anni vengono dipinti
proprio con una tinta blu che enfatizza l’intento di rappresentare
la tristezza nelle teste fluttuanti dei suoi ritratti.
Il
titolo d’origine del film, Rose
Hobart,
potrebbe essere un gioco di parole: se si legge in francese suona
come Rose
au bard
“(La) rosa al poeta”. Vista la stima di Cornell per Duchamp
potrebbe essere un omaggio al travestimento dell’artista.
Il
titolo del film è dato dallo stesso nome dell’attrice: l’actrice
si può scomporre in lac
(lago) e tricher
(barare). Il primo termine è l’eco della colorazione blu del film
e delle immagini liquide che popolano l’arte di Cornell e dei
Surrealisti: sono inganni visivi, trucchi da baro.
L’
“estetica del rottame”
Cornell
progetta altri tre capolavori di Found
Footage,
Cotillion,
Midnight Party
e Children
Party, che
saranno completati da Larry Jordan negli anni Sessanta su indicazione
dell’artista. La trilogia mostra la stessa frammentazione visiva di
Rose
Hobart,
ma suggerisce un’ulteriore interpretazione: i fotogrammi e le
pellicole preesistenti vengono montati secondo una pratica di riciclo
dei materiali.
Le
pellicole vengono trattate proprio come oggetti trovati, tolti dal
loro contesto o sequenza d’origine e riqualificati come arte,
secondo un’operazione che rispecchia la creazione delle Shadow
Boxes
di Cornell e i ready-mades
duchampiani. “Cornell giuntava immagini e spezzoni di vecchi film
di Hollywood trovati nelle botteghe dei rigattieri. Montava collage
cinematografici guidato solo dalla poesia delle immagini”.
I
materiali trovati nelle botteghe dei rigattieri sono di seconda mano
(second
hand):
rappresentano gli ephemeras
che la grande città ha scartato e abbandonato. Gli oggetti,
nell’arte di Cornell e di Duchamp, vengono rivalutati e assunti
come opere d’arte proprio come avviene in un museo. L’objet
trouvé perde
ogni funzione d’origine e assume una seconda/nuova fine (second
end).
Tra second
hand
e second
end
c’è un’assonanza fonetica che rispecchia il legame
contenutistico tra le due espressioni.
La
pratica del riciclo nell’arte di Joseph Cornell segue una visione
tardo-romantica e simbolista: ricorda il poeta straccivendolo di
Charles Baudelaire che subisce il fascino della città, ma anche
Arthur Rimbaud che pensava la poesia come tre scarpe spaiate
all’ingresso di un vicolo oscuro.
L’idea
di un’arte fatta di piccoli oggetti raccolti per strada trova eco
nell’autobiografia di Nadar
dal titolo
Quand j’étais photographe:
“Nous
sommes à une époque de curiosité esasperée qui fouille tout,
hommes et choses; à default de la grande histoire que nous ne savons
plus faire, nous ramassons les miettes de la petite avec un tel zèle
que notre considération en est venue à ouvrir ses grands yeux
devant un collectionneur de timbres-poste”.
Nadar
(Gaspard-Félix Tournachon) è uno degli artisti più amati da
Cornell:
“Cornell also admired Nadar (Gaspard-Félix Tournachon) for his
portraits of Baudelaire, Delacroix, Sarah Bernhardt, Offenbach,
George Sand, Jules Verne, and others”.
Dei
tanti ritratti vorrei ricordare, in particolare, quello di Gérard de
Nerval, artista per cui Cornell nutriva una stima particolarissima:
il poeta era noto per il suo girovagare per le strade di Parigi con
un’aragosta al guinzaglio.
La
città come deposito di immagini costituisce la fonte ideale per
reperire i materiali per le scatole: “La città è il luogo dove
gli opposti più improbabili si incontrano, il luogo dove le nostre
separate intuizioni per un attimo convergono.. La città è un
labirinto di analogie, una foresta simbolista di corrispondenze”.
Gli
oggetti trovati da Cornell si incontrano nella magia delle Shadow
Boxes
proprio come le scarpe spaiate di Rimbaud nella poesia di un vicolo
oscuro. Le scatole, come i collages,
diventano teorie dell’accumulo di immagini. Anche il Found
Footage
esprime questa sensazione: il risultato è una sequenza di fotogrammi
che, accostati, provocano un forte attrito concettuale sulla scia
dello shock
surrealista. Il termine footage
letto in francese si può scomporre in tre termini fou
(folle), tas
(cumulo che leggerei come accumulo) e je
(io). Questi elementi sono presenti nell’estetica delle opere di
Cornell, ma nel film sono ancora più evidenti grazie al potere del
cinema che diventa un’esperienza eternamente ripetibile. Il
risultato, quindi, è una pellicola (footage)
dove l’io-artista (je)
crea un accumulo (tas)
illogico (fou)
di immagini trovate (found).
Monsieur
Phot tra cinema e fotografia
I
film di Cornell sono prodotti cerebrali, realizzazione di idee già
abbozzate agli inizi degli anni Trenta: “initially
Cornell’s film existed in his mind’s eye recorded in form of
scenarios that he wrote”.
Il
primo approccio al cinema, infatti, riguarda un soggetto
cinematografico, un movie
scenario
tratto da una sceneggiatura trovata in una rivista surrealista. Lo
screenplay
è composto da dieci typed
pages
progettate per essere proiettate con uno stereoscopio.
Il
soggetto “dramatizes
the experience of a nineteenth century New York photographer, a man
who resembles a camera in that he’s always on the outside, always
looking in, yet who’s sensitive he feels overwhelmed by everything
he sees”.
Phot
è un’abbreviazione per photographe:
Cornell
si identifica con il personaggio, un girovago che, come lui, si
lascia guidare dal fascino delle immagini che si presentano davanti
ai suoi occhi. La percezione sembra essere addirittura quella di una
macchina fotografica che interpreta la realtà indagata con
l’obiettivo.
Il
suo sguardo si concentra su un gruppo di “monelli” (urchins):
sono gli stessi bambini che popolano i vicoli catturati dall’
“occhio del secolo”: Henri Cartier Bresson. I suoi scatti,
arrivati a New York proprio in quegli anni, affascinano tanto Cornell
quanto Julien Levy perché propongono un tipo di fotografia che si
concentra sul quotidiano e sul banale, temi molto cari ai
surrealisti.
Le
stesse tematiche nonché la medesima qualità estetica sono tratti
dominanti degli scatti di Eugène Atget, il fotografo più amato dal
Surrealismo. Le sue opere costituiscono un corpus
che rappresenta il miglior foto-documentario di Parigi. Gli scatti di
Atget, pubblicati sulle riviste surrealiste dell’epoca da Man Ray,
vengono portati a New York da Berenice Abbott: le fotografie saranno
esposte alla Galleria di Julien Levy e contribuiranno ad arricchire
di idee e nuovi spunti l’arte americana.
Gli
scatti di Atget più amati dai Surrealisti immortalavano le vetrine
parigine, veri capolavori di accumulo di oggetti in esposizione,
proprio come le scatole di Cornell. Il vuoto metafisico che circonda
i manichini esposti ricorda tanto il Soap
Bubble Set
del 1936 quanto le opere dechirichiane. Gli scatti, infatti, sono
attraversati da un’atmosfera nostalgica per la città. Lo stesso
sentimento pervade le opere della Abbott, molto simili agli scatti di
Atget, ma espressione della tipica esagerazione americana.
Le
vetrine creano immagini stranianti dovute al riflesso dello
spettatore che si avvicina per vedere l’esposizione: il potere del
vetro, capace di riflettere come uno specchio, si ritrova nella
composizione delle Shadow
Boxes di
Cornell.
L’inganno
dovuto al potere del vetro è un trucco: è un falso. Monsieur
Phot
è stato letto dalla critica come Monsieur
Faux:
l’idea della resa falsata è data anche dalla progettazione dello
scenario pensato appunto per essere proiettato con uno stereoscopio
capace di illudere l’occhio mostrando all’osservatore un’immagine
tridimensionale. I visori ottocenteschi di questo tipo sono la
premessa dell’inganno cinematografico: “Il cinema, ovviamente, è
il più riuscito trucco illusionistico”.
La
tridimensionalità è una condizione vera, un avvicinamento alla vita
stessa, motivo per cui Cornell passa dal collage
al mondo della scatola cercando, proprio come i Surrealisti, una
spazialità reale. Cornell “condivide con i surrealisti la
necessità di far prevalere l’elemento psichico, di avviare un
discorso interiore, di introdurre la vita dell’opera in progresso
nella dimensione stessa della propria vita (…) Di ritrovare così
una spazialità non astratta ma reale, cioè che trovasse echi
inconfondibili entro di noi, di conferire un significato psichico ad
ogni forma, di percepire la realtà non come estraniante, ma come una
realtà che nasconde un’altra realtà”.
La
qualità estetica imprecisa delle opere di Cornell e degli scatti di
Atget riflettono l’estetica dell’ “errore” che, in francese,
si traduce con il termine faute.
Forse
Monsieur
Phot
è in realtà Monsieur
Faute.
La
fautographie
ha una storia illustre:
l’erreur
photographique
risale alla fine dell’Ottocento, ad André Adolphe Eugène Disdéri,
ad Antonio Beato, a Roger Fenton, ma anche a Man Ray che, per primo
nel Novecento, si definisce fautographe.
L’errore
fotografico ha una sua valenza artistica: la fotografia errata
(ratée),
rifiutata per mancanza di precisione nella messa a fuoco o nella
taratura del diaframma, costituisce un’opera d’arte quanto quella
esatta (tarée).
Esiste,
a livello linguistico, un forte legame tra le due tipologie di
fotografia ratée
e tarée:
l’una costituisce l’anagramma dell’altra: “Il
faut être amateur d’anagrammes pour comprendre que la photographie
ratée servira, précisément, à tarer la photographie”
.
La
fotografia: un metodo per il “cecchino di Manhattan”
L’identificazione
tra Cornell e la macchina fotografica di Monsieur
Phot
non può essere casuale. L’artista, nel soggetto cinematografico,
mostra come il suo metodo per la “caccia delle immagini” sia in
realtà una tecnica molto simile alla fotografia: “A
camera aperture can be described as an eye or a window, yet Cornell
walkabouts in New York’s outdoor studio had so opened his
observational aperture that being confined to a lens at close range
most likely did not appeal him”.
L’idea
di scegliere all’interno di una moltitudine in accumulo l’immagine
che più colpisce l’artista riflette il meccanismo di selezione
operata attraverso l’inquadratura fotografica.
“Scattare
una fotografia”, in inglese e in francese, si rende con una
terminologia che segue l’idea dell’oggetto trovato: take
a photograph
o prendre
une photo.
La
fotografia, come suggerisce Benjamin, interpreta la realtà: lo
stesso avviene nell’arte di Cornell dove l’artista, che si
identifica con la camera
di Monsieur
Phot,
agisce come una macchina fotografica e filtra le immagini.
L’inquadratura
“ritaglia” in un certo senso una parte dell’immagine della
realtà operando un meccanismo di scelta che è alla base della
ricerca del materiale per il collage
e per le scatole.
Lo
scatto (snapshot)
è un vero e proprio frammento (snippet)
della visione. La radice inglese del termine snippet
è snip
che significa “sarto” o “ritaglio”.
Cornell
dedica una particolare cura alla scelta del ritaglio/oggetto: è come
se avesse la precisione di un cecchino. In inglese questo termine si
traduce come sniper
e deriva sempre dalla radice snip.
L’idea
di Cornell come cecchino viene da diverse caratteristiche della sua
arte. Simic
lo chiama “il cacciatore di immagini”, definizione appopriata se
si pensa che “most
of his hunting was done in lower Manhattan, where Cornell browsed
through bookstalls, record stores, variety shops, used-magazine
outlets, and five-and-dimes for hidden treasures”.
Quando
guardiamo Untitled
(Medici Prince)
del 1952, inoltre, “non si sa se ad esempio siamo noi sotto lo
sguardo critico di un principe dei Medici che ci giunge dal fondo di
una scatola, oppure se ne stiamo contemplando l’immagine attraverso
il mirino di un fucile”.
Nelle sue opere compaiono tantissimi bersagli, cerchi e anelli che
imprigionano gli uccellini che popolano le Shadow
Boxes:
queste scatole-ombra/delle ombre rimandano ad una metafora di morte e
fanno di Cornell un artista funereo.
Il
compito del cecchino è quello di individuare la sua vittima con
attenzione e precisione nonché di sparare: questo termine si traduce
con to
shoot
che, in inglese, significa anche filmare o fotografare. Cornell
potrebbe essere definito “il cecchino di Manhattan”.
Found
photography e objet trouvé
La
fotografia non è solo un metodo per la caccia di Cornell, ma una
vera e propria passione dell’artista.
Per
un collezionista come Cornell gli scatti, le cartes
de visites
vittoriane, le immagini ritagliate da giornali e riviste sono piccoli
tesori visivi da inserire nelle scatole,
nei collages
e nei dossiers
tematici conservati nella cantina-laboratorio di Utopia Parkway.
La
fotografia offre all’artista opere documentarie e commerciali allo
stesso tempo: “thanks
to technological advances in printing and photography after 1820,
images abounded in inexpensive illustrated book and magazines, and
mass-produced prints, trade cards, and sheets of die-cut ‘scraps’
to decorate scrapbooks and letters. All were intended for mass
consumption as advertising or as educational and recreational
accessories”.
Sono
merci e quindi vengono trattate come oggetti trovati.
L’idea
della found
photography
non è casuale: Cornell dimostra di aver amato e capito l’arte di
Atget tanto cara al Surrealismo. Atget, infatti, non si era mai
definito un fotografo, ma si considerava un artigiano al servizio
degli artisti tanto da chiamare i suoi scatti documents
pour artistes.
Susan
Sontag,
commentando le considerazioni di Benjamin sulla
fotografia
(in particolare della fotografia di Atget), ricorda “nella
particolarità che questo fotografo ebbe nel prediligere il ciarpame,
i rifiuti, il kitsch, si dimostra come la fotografia
realizzi l’imperativo surrealista di adottare un atteggiamento
egualitario di fronte a un qualsiasi oggetto”.
Il fotografo si comporta come il poeta straccivendolo di Baudelaire:
“come un collezionista del ciarpame, come un avaro che custodisca
un tesoro di rifiuti, il fotografo è uno straccivendolo surrealista,
che trasforma la rovina urbana in opera d’arte”.
Cornell
si avvicina alla fotografia del banale nello stesso periodo in cui
Ansel Adams
costituisce il gruppo f/64:
nato nel 1932, il gruppo concentra la propria attività sugli stimoli
offerti dai risvolti sociali e dall’attualità proponendosi di
rilanciare l’arte contemporanea sul principio dell'indipendenza
ideologica del fotografo e della fotografia che doveva dedicarsi in
maniera diretta alla cattura della quotidianità.
Lo
scatto più conosciuto di Ansel Adams, realizzato nello stesso anno,
è Rose
and Driftwood,
erroneamente reso come “Rosa su legno galleggiante”. Driftwood,
in realtà, significa “detrito” o “relitto”, eco dei principi
del gruppo f/64
e dell’estetica del rottame dell’arte di Cornell.
To
drift,
inoltre, è un verbo dalla triplice valenza: può significare sia
“girovagare” che “ammucchiarsi” (e quindi accumularsi) o
“andare alla deriva”.
Cornell
è un artista girovago per le strade di Manhattan che raccoglie
oggetti e li accumula nelle scatole.
“Andare
alla deriva” rimanda al mondo del mare e delle navi, temi molto
cari a Cornell che discendeva da una famiglia di navigatori di
origine olandese.
Nelle
sue opere i riferimenti a questo mondo sono frequenti: i vascelli,
l’acqua e il mare (come metafora di visioni liquide) e le scatole
dedicate alle rose dei venti.
Un
gioco di ritratti
I
cataloghi e le mostre dedicate all’arte di Joseph Cornell sono
pieni di scatti che ritraggono l’artista a Utopia Parkway. Il suo
rapporto con i fotografi è ben documentato da numerose lettere,
pagine di diario e appunti conservati alla Smithsonian Institution.
Il
contatto con questi artisti è favorito dagli scambi che
caratterizzano l’ambiente newyorkese degli anni Trenta, ma anche
dal crescente interesse dei fotografi per Cornell alla fine degli
anni Sessanta.
Nel
1932 Julien Levy organizza la prima personale di Elizabeth (Lee)
Miller
nota come la “Musa dei Surrealisti”: è la modella di Steichen e
Man Ray nonché allieva e amante di quest’ultimo negli anni
trascorsi a Parigi per imparare la tecnica fotografica.
Gli
scatti della fotografa sono i ricordi della sua vita: paesaggi che
spaziano dall’Egitto, alla Normandia, da Londra a New York, veri
foto-documentari emotivi dei suoi viaggi; capolavori rivisitati di
still
life
su cosmetici e profumi in accumulo; ritratti degli artisti dell’epoca
(Miro, Delvaux, Picasso, Ernst). I suoi lavori sono filtrati
dall’amore per il teatro coltivato grazie alla duplice attività di
attrice e ballerina.
L’incontro
tra Cornell e Lee Miller alla Galleria di Julien Levy è l’inizio
di una profonda amicizia, collaborazione e reciproca influenza nella
sperimentazione di entrambi.
Nel
1933 la fotografa rende omaggio all’amico con una serie di sei
scatti che ritraggono l’artista come se fosse un fotomontaggio: le
fotografie, in realtà, sono un inganno ottico in prospettiva che
presentano la testa fluttuante di Cornell incastonata in un veliero.
Cornell,
come già detto, discende da una famiglia di navigatori olandesi. In
olandese il vascello si traduce come pot:
forse Monsieur
Phot
si può leggere come Monsieur
Pot.
La
serie di ritratti è accompagnata da un estratto di Art
and Artillery
scritto da Julien Levy che sancisce il rapporto di amicizia tra i
tre.
Il
titolo dell’opera è Joseph
Cornell or Twelve Needles dancing on the Point of an Angel: needles,
in inglese, si riferisce tanto alle lancette dell’orologio quanto
agli aghi. To
needle,
infatti, significa “cucire” e ricorda alcune opere di Cornell
dove la figura umana passa attraverso una macchina da cucire. Il
collage
e
il Found
Footage, inoltre,
sono simili ad un taglia e cuci.
Negli
ultimi anni della vita di Cornell, il mondo della fotografia scopre e
si appassiona all’arte del “cacciatore di immagini” realizzando
opere affascinanti ed enigmatiche.
I
fotografi, muniti della loro “scatola magica”, interpretano la
creatività dell’artista attraverso una serie di ritratti che, a
mio avviso, sono più che documenti visivi.
Si
pensi a Cornell
at Central Park
di Bearve dove Cornell sembra sollevare una roccia per scoprire una
fatina. Forse è una metafora della poetica della meraviglia che
incanta la sua arte: è il mondo delle piccole cose. Gli oggetti
trovati sono capolavori di magia: l’objet
trouvé appartiene
ad un mondo fatato.
L’oggetto
trovato è un ready-made
o étant
donné,
ma made,
in francese, si traduce con
fait
che suona come
fée
(fata). Il mondo fatato creato da Cornell nasce da una capacità
unica di rapportarsi agli oggetti: è uno stregone
che coglie e crea la magia.
Hans
Namuth, fotografo e cineasta tedesco, ritrae Cornell che “ascolta
un libro”: l’opera si intitola Joseph
Cornell listening to a book,
eco dell’approccio sinestetico dell’artista con gli oggetti.
Negli
stessi anni Cornell chiede a Duane Michals di fotografarlo. L’artista
noto come il “metafisico della fotografia” è grande amico di
Dore Ashton e René Magritte. Il suo lavoro è un gioco tra immagini
e parole proprio grazie al contatto con il surrealista: i suoi
scritti sono pieni di termini attinti ad altre lingue per esprimere i
suoi inganni. Ogni scatto si arricchisce di significati simbolici e
nascosti dovuti alla matrice cristiana dell’arte e della vita di
Michals. Il suo stesso nome è un deposito di significati che
traducono la sua vita: “Duane” rispecchia la duality
della sua arte, mentre “Michals” è il simbolo della sua
identificazione con l’arcangelo Michele.
I
ritratti realizzati per Cornell mostrano una grande attenzione alle
opere dell’artista e un’interpretazione ludica attraverso
significati difficili da leggere.
Il
ritratto più conosciuto di Cornell scattato da Michals risale agli
anni Settanta e raffigura l’artista davanti alla specchiera: la sua
forma lieve e leggera ricorda i rayogrammi di Man Ray, ma anche le
sovrapposizioni fotografiche nei ritratti scattati da Michals a
Magritte.
Dietro
la sagoma di Cornell ci sono delle tende finissime. “Tenda”, in
inglese, si traduce con diversi termini che sembrano ricordare molti
aspetti dell’arte di Cornell.
Curtain,
la traduzione più ovvia, è un termine utilizzato anche per
“sipario”: le scatole sono teatrini e non si deve dimenticare la
presenza dei tendaggi rossi nelle opere dechirichiane.
Lo
stesso vale per canavas
traducibile anche come “scenario”.
Awning
indica la “tenda” e il “riparo”: Utopia Parkway è il riparo
di Cornell che sembra vivere in una bolla. Nelle sue opere Cornell si
identifica con gli uccellini: il volo (flight,
traducibile
anche come “evasione”) è sempre definito pericoloso nei suoi
scritti. La casa è la sua vera protezione.
Un’altra
espressione per tradurre “tenda” è booth
che si riferisce anche alla bancarella: si pensi ai luoghi più
frequentati da Cornell nel suo girovagare per Manhattan. Booth,
però, indica anche la “cabina di registrazione” o di
“proiezione”. Il booth
man
è colui che si occupa delle proiezioni cinematografiche e Cornell è
un grande creatore di cortometraggi: i suoi capolavori, come Rose
Hobart,
sono frutto di un taglia e cuci di audiovisivi con effetti stranianti
(dal colore alle scene rallentate) applicati proprio in fase di
proiezione.
In
una serie di ritratti del 1972 sempre ad opera di Michals, Cornell
tiene tra le dita un vasetto contenente un insetto. “Vaso”, in
francese, si dice pôt:
forse Michals interpreta Monsieur
Phot
come Monsieur
Pôt.
“Insetto”,
in inglese, si può tradurre come bug
o insect,
ma anche come ephemera:
gli ephemeras/ae
sono le “cose effimere”, vere protagoniste dell’arte di
Cornell.
In
natura gli insetti (ephemeras/ae)
restano imprigionati nelle tele dei ragni: l’idea della scatola
come ragnatela di corrispondenze riporta al ritratto di Cornell
realizzato in collaborazione con Robert Delford Brown nel 1968 dove
il soggetto sembra intrappolato in una sostanza solida, quasi
vischiosa. “Come l’Uomo Ragno dei fumetti, il voyeur solitario si
muove lungo una rete di forze occulte”.
In
tutta la serie dei ritratti realizzati da Michals il vasetto viene
posizionato in svariati punti di Utopia Parkway. C’è una foto in
cui Cornell viene ritratto con la mano sul viso, proprio come nel
ritratto di Warhol: è una posizione con cui il fotografo immortala
gli artisti che percepiscono la realtà attraverso l’ “occhio
della mente”. In questo scatto il vasetto è appoggiato sulla
scatola di Bébé
Marie
utilizzata come tavolo: in inglese il pot
è il banco da poker. Monsieur
Phot
potrebbe essere un giocatore che bara, idea sensata se si pensa che
la proiezione con lo stereoscopio inganna l’occhio.
Anche
la fotografia più recente ha reso omaggio a Joseph Cornell: Jerry
Uelsmann, postvisualizzatore molto amato da Michals, ha
reinterpretato l’arte dei Surrealisti e di Duchamp attraverso una
serie di scatti illusionistici realizzati alla fine degli anni
Novanta.
Il
metodo di Uelsmann è molto simile a quello di Cornell: le fotografie
sono un serbatoio di immagini a cui attingere per creare fotomontaggi
surreali grazie alla sua sorprendente abilità in camera oscura.
Uelsmann omaggia Cornell con un’opera suggestiva dove l’occhio al
centro di una scatola è inglobato in una specchiera fluttuante tra
sfere sospese nel nulla. Il titolo Meditating
on the I and Eye of Joseph Cornell
è un gioco basato sull’assonanza fonetica tra I
(io) e Eye
(occhio).
Eye,
in inglese, indica anche l’obiettivo fotografico, ennesimo
riferimento a Monsieur
Phot.
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