Enrico
Guidoni
sostiene che la formazione artistica e culturale di Giorgione e di
Giulio Campagnola non sia stata circoscritta soltanto al Veneto e
all’Italia settentrionale, le loro più comuni aree di pertinenza,
ma ritiene piuttosto verosimile pensare che i due, legati da una
stretta amicizia professionale, abbiano viaggiato insieme per
conoscere e studiare i diversi linguaggi figurativi presenti nella
Penisola, recandosi in almeno due occasioni (nel 1492-1493 per
l’elezione di Alessandro VI e per il Giubileo del 1500) a Roma,
meta naturalmente ineludibile e perciò punto di passaggio obbligato
per la conoscenza diretta dei modelli antichi e dei coevi lessici
artistici.
L’ipotesi
di un loro soggiorno romano, sebbene al momento ancora non siano
stati rinvenuti eventuali documenti che ne attestino la certezza, è
plausibile, perché sin dai primissimi anni della loro carriera, il
viaggio di formazione sembra essere stato un fattore costante nella
vita di Zorzi da Castelfranco e specialmente di Giulio Campagnola,
poiché quest’ultimo, secondo le testimonianze di alcuni umanisti
contemporanei, come Matteo Bosso
e Panfilo Sassi, intimi amici del padre Girolamo, fin da adolescente
intraprendeva la visita, su decisiva spinta del genitore, di alcune
corti dell’Italia padana per plasmare la propria educazione secondo
un’impronta umanistica. Contestualmente, il giovane padovano
avrebbe compiuto, come poco sopra accennato, alcuni spostamenti di
maggior ampiezza geografica al fine di aggiornare il proprio
linguaggio artistico, nell’ambito di un programma di formazione dal
quale non sarebbe stata esclusa una visita a Roma, appunto.
Dunque,
proprio in merito a Giulio Campagnola, che è l’oggetto di questo
contributo, acquista particolare rilievo la scoperta, compiuta da
Paolo Sambin,
di un prezioso documento in cui si afferma che il giovane padovano
nel 1495 risultava essere già “familiare” del cardinal Raffaele
Riario, che si era stabilito a Roma dal dicembre 1477 .
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Figura 1: Filippino Lippi, Disputa di San Tommaso d'Aquino, 1492-1493 Affresco, Roma, Chiesa di S. Maria Sopra Minerva, Cappella Carafa
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Il
dato va necessariamente accolto come fondamentale punto di partenza
per poter ritenere valida la proposta di Enrico Guidoni, che ha
voluto individuare nella scena della Disputa di san Tommaso
d’Aquino (fig. 1) affrescata da Filippino Lippi nella Cappella
Carafa in S. Maria sopra Minerva negli anni 1492-1493, i ritratti di
Giorgione e del suo sodale padovano Giulio Campagnola (figg. 2-3),
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Fig. 2. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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Fig. 3. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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raffigurati davanti al gruppo di eretici sulla destra, sulla base di
un confronto fisionomico, assolutamente giustificato, con altri
ritratti, presenti in alcuni brani figurativi dei due artisti veneti
e anche di altri autori contemporanei, che Guidoni ha supposto essere
proprio le figure di Giorgione e di Giulio Campagnola, come ad esempio
quelli del celebre Omaggio a un poeta (cfr. figg. 4-5),
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Figg. 4-5. A sinistra, Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa. A destra, Giorgione, Omaggio a un poeta, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, olio su tavola, 59,7 x 48, 9 cm; Londra, The National Gallery
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attribuito al maestro di Castelfranco, della scena dello Sposalizio
della Vergine (fig. 6), affrescata da Giulio Campagnola nella
Scuola del Carmine a Padova,
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Fig. 6. Giulio Campagnola, Sposalizio della Vergine, particolare del presunto autoritratto di Giulio Campagnola, affresco; Padova, Scuola del Carmine
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del Commiato degli ambasciatori
inglesi di Vittore Carpaccio di cui si dirà più avanti,
dell’ Adorazione dei Magi dello stesso Filippino Lippi (fig.
7)
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Fig. 7. Filippino Lippi, Adorazione dei Magi, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1496; tempera su tavola, 258 x 243 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, partic.
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e soprattutto di una tavola dei Musei Civici di Padova
raffigurante la Madonna con il Bambino e san Giovannino, che
sarà analizzata tra poco.
L’idea
di Guidoni, che interpreta i due ritratti di giovani dipinti da
Filippino Lippi come la prova di una permanenza a Roma di Giulio
Campagnola e Giorgione proprio all’epoca della realizzazione della
scena della Disputa nella Cappella Carafa, è stata condivisa
anche da Ugo Soragni che attribuisce alle due figure il valore di
“testimonianza indiziaria ma sostenibile in base a riscontri
precisi della loro attività artistica itinerante”.
Ad
una immediata visione d’insieme di questo affresco, rimane
fortemente impressa la singolarità della posa dei due fanciulli
rispetto a quella degli altri personaggi: molto vicini con le teste
inclinate l’una verso l’altra (fig. 8),
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Fig. 8. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra), 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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a voler presumibilmente
esprimere un sottile dialogo tra i due, ermetico ed esclusivo. E’
il medesimo atteggiamento di distacco che Guidoni percepisce anche
nei due adolescenti raffigurati da Vittore Carpaccio nella scena del
Commiato degli ambasciatori inglesi (figg. 9-10), dal ciclo
delle Storie di Sant’Orsola, che lo studioso identifica
ancora in Giulio Campagnola e Giorgione, caldeggiando a proposito
l’ipotesi di un loro comune discepolato presso la bottega del
maestro veneziano proprio all’epoca dell’importante ciclo di
teleri eseguito per la Scuola di Sant’Orsola.
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Figg. 9-10. A sinistra, Vittore Carpaccio, Commiato degli ambasciatori inglesi, episodio dal ciclo delle Storie di sant'Orsola, olio su tela, 280 x 258 cm, Venezia, Gallerie dell'Accademia. A destra, particolare dei presunti ritratti di Giulio Campagnola (a sinistra) e Giorgione (a destra)
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Guidoni
prosegue ritenendo poi assolutamente non casuale la collocazione dei
due amici veneti nel gruppo degli eretici in cui figura Mani
(Manicheo), rappresentato in atto di invitare al silenzio con
l’indice sulle labbra (fig. 11), perché in certe opere del maestro
di Castelfranco si manifesterebbe, sostiene lo studioso, uno
specifico interesse per la rappresentazione delle “mani” dei
protagonisti, veicolanti, attraverso il particolare posizionamento
delle dita, ermetici significati riconducibili al culto solare,
particolarmente diffuso sin da tempi remotissimi in terra indiana e
recepito, sebbene non in forme assolutamente ortodosse, ma comunque
con un significativo interesse, in certa cultura letteraria ed artistica
italiana del secondo Quattrocento.
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Fig. 11. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Manicheo, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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Egli
suppone dunque l’appartenenza di Giorgione e Giulio Campagnola ad
una setta religiosa veneta dedita all’antichissimo culto del Sole,
e pone in relazione questa eventuale circostanza con il probabile
sodalizio dei due giovani con la corte della regina Cornaro e con la
famiglia Costanzo
che li avrebbero perciò prescelti come interpreti di un rinnovamento
culturale e filosofico in posizione dialettica nei confronti
dell’ufficialità della Chiesa di Roma, da potersi diffondere,
anche se forse esclusivamente all’interno di raffinati cenacoli
umanistici, mediante gli ermetici messaggi trasmessi da particolari
elementi rappresentati nelle loro creazioni artistiche: in merito a
questo aspetto, acquisterebbe perciò un preciso significato
spirituale la presenza dei due nel gruppo degli eretici in cui figura
proprio Mani, perché il Manicheismo era permeato di un sincretismo
ove confluivano, seppur rielaborati in un sistema dottrinale
assolutamente originale, particolari elementi del Cristianesimo, del
Zoroastrismo e del Buddismo e soprattutto perché la dottrina
manichea non era affatto estranea a certi riti riconducibili più o
meno direttamente all’antico culto solare.
Tornando
ora a concentrarci sul solo Giulio Campagnola, va osservato che, per
quanto il rapporto col Riario, già in essere nel 1495 e
probabilmente non iniziato in termini ufficiali prima di quell’anno,
soprattutto considerato il fatto che l’appena adolescente Giulio
riceveva la prima tonsura da chierico proprio il 28 maggio 1495 ,
non implichi necessariamente la certezza che il Nostro potesse essere
in città anche circa due o tre anni prima, dunque all’epoca degli
affreschi del Lippi, la prossimità cronologica con la realizzazione
degli stessi, non esclude neppure l’eventualità di un suo
soggiorno romano in compagnia di Zorzi da Castelfranco
negli anni 1492-’93, forse proprio perché un primo contatto con
certi ambienti capitolini vicini a Riario o con lo stesso cardinale
era già occorso prima del 1495, e magari questa breve permanenza in
Urbe avvenne davvero in occasione, come pensa lo stesso Guidoni,
della contemporanea elezione al soglio pontificio di Alessandro VI
Borgia l’11 agosto 1492, che si presentava certamente come l’evento
più importante per la città di Roma, e non solo, in quel preciso
momento storico.
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Fig. 12. Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456
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In
merito a questa eventuale presenza romana dei due giovani artisti
veneti, un ulteriore significativo indizio è rappresentato da una
tavola conservata presso i Musei Civici di Padova, raffigurante la
Madonna con il Bambino e san Giovannino (fig. 12), oggi
assegnata a un anonimo pittore veneziano della fine del XV secolo.
Tra le varie proposte di attribuzione, ricordiamo quella di Francesco
Valcanover che rivendica l’opera alla mano di Francesco da Milano,
mentre Mauro Lucco la colloca all’interno del corpus
pittorico di un artista di formazione mantegnesco-belliniana
gravitante nell’area orientale a cavallo tra XV e XVI secolo e
ricostruito da Spiazzi (1979) e Zeri (1980) sotto l’appellativo di
“Maestro del Trittico di San Nicolò”, dall’opera eseguita per
l’omonima chiesa padovana.
Guidoni
dal canto suo, ritiene la tavola opera dell’intervento congiunto
proprio di Giorgione e Giulio Campagnola, e in particolare percepisce
nel volto del Bambino un modellato fortemente giorgionesco e nella
Vergine belliniana il “frutto dell’abilità di copista di Giulio”
e assegna allo stesso Campagnola “gli alberelli tondi, certe
secchezze di modellato e, in generale, il disegno delle vesti”.
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Fig. 13. Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456
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Figg. 14-15. A sinistra, Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Museo d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456. A destra, Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del presunto ritratto di Giulio Campagnola, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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L’elemento
però più sorprendente e, ai fini di questa indagine, il più
significativo, è la figura del san Giovannino (fig. 13), che palesa
una straordinaria somiglianza con il giovane dai lunghi capelli
biondi (cfr. figg. 14-15) nell’affresco del Lippi, come abbiamo
visto già identificato da Guidoni in Giulio Campagnola, per cui lo
stesso studioso indica nello stesso santo ancora un ritratto del
fanciullo padovano.
Inoltre, la quinta architettonica, riconosciuta dalla critica come
una veduta del Laterano prima dei rifacimenti rinascimentali, con al
centro la statua equestre di Marco Aurelio, che compare nitidamente
sullo sfondo della Disputa (fig. 16),
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Fig. 16. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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Figg. 17-18. A sinistra, Pittore veneziano (Giorgione e Giulio Campagnola ?), Madonna con il Bambino e san Giovannino, particolare, tavola, 52 x 42 cm, Padova, Musei Civici, Musei d'Arte Medioevale e Moderna, inv. 456. A destra: Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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la ritroviamo pressoché identica in questa tavola padovana (cfr. figg. 17-18). E’ perciò
davvero possibile che Giorgione e Campagnola, se davvero artefici
della tavola patavina e se presenti a Roma negli anni dell’impresa
lippesca, abbiano guardato con meticolosa attenzione tale particolare
della scena della Disputa, di cui sarebbero stati a loro
volta protagonisti in qualità di personaggi contemporanei ritratti,
e naturalmente spettatori interessati in quanto artisti in soggiorno
a Roma spinti dall’intenzione di arricchire il proprio linguaggio
figurativo.
Ancora
Guidoni coglie nell’indice della mano destra del Bambino puntato
verso il cielo, un segnale di riferimento al culto solare e ciò
costituirebbe un ulteriore indizio di quella ipotizzata appartenenza
di Giulio e Zorzi ad una particolare setta filosofico-religiosa, come
la loro presenza in compagnia del gruppo degli eretici dove figura
Manicheo nell’affresco capitolino, sembrerebbe di fatto confermare.
Secondo
la riflessione di Ugo Soragni – che condivide la posizione di
Guidoni sostenendo che la tavola di Padova sia frutto della
collaborazione di Giorgione e Giulio – la veduta del complesso
lateranense, dominata dalla statua equestre di Marco Aurelio, sarebbe
ancora un duplice riferimento alla fede solare: infatti il monumento
stesso dell’imperatore antonino, all’epoca dell’affresco
lippesco e della tavola padovana, era erroneamente identificato con
l’effigie di Costantino (Caballus Constantini), l’imperatore
che aveva trasfuso nella liturgia cristiana la festività pagana del
Dies natalis Solis invicti, introdotta da Aureliano nel 274
d.C. per celebrare il solstizio d’inverno. Inoltre lo studioso
ritiene che Giorgione, al quale dunque evidentemente assegna il brano
della veduta lateranense, abbia voluto alludere all’iniziativa di
Sisto IV (1471-1484), che aveva fatto trasportare gli antichi bronzi
del Laterano, tra cui la gigantesca testa tradizionalmente
identificata con quella della statua del dio Sole, sul Campidoglio.
In
merito al Campagnola, sarebbe ora opportuno chiarire il motivo per
cui Filippino Lippi avrebbe raffigurato, nel contesto di una scena
dal sofisticato contenuto filosofico-religioso, un fanciullo che
all’epoca poteva essere al massimo tredicenne, dal momento in cui è
diffusamente pacifico che la data di nascita del padovano possa
ragionevolmente collocarsi tra il 1480 e il 1482.
Infatti,
per quanto prodigiosa e precoce fosse la sua preparazione
intellettuale, sembra piuttosto singolare credere che un Giulio
appena adolescente potesse aver trovato “diritto di cittadinanza”
in un affresco così concettualmente raffinato e complesso. Inoltre,
a quell’epoca il padovano ancora non aveva espresso pienamente la
sua particolare cifra stilistica, essendosi segnalato a un’età
così acerba soprattutto per le sue straordinarie qualità di
imitatore piuttosto che per le sue creazioni originali, che invece
sarebbero state licenziate solo a partire dagli ultimissimi anni del
secolo,
come sembra ormai pienamente condiviso, e perciò nel biennio
1492-’93 egli ancora non poteva essere considerato un personaggio
di un certo rilievo e di immediata riconoscibilità nell’ambito del
panorama artistico italiano, tale dunque da poter essere ritratto
nell’affresco della Disputa in qualità di artista già
affermato sulla scena: a proposito è opportuno sottolineare la
particolarità, ricorrente soprattutto in alcune delle prime
incisioni di Giulio Campagnola, della firma espressa attraverso la
magniloquente formula “IVLIVS CAMPAGNOLA ANTENOREVS”, dove
l’Antenoreus stava ovviamente a significare la sua origine
padovana e il nome per esteso, sovente scritto in caratteri di grosse
dimensioni, che solo nella fase della sua maturità artistica sarà
ridotto al monogramma “ I C”, era un indicatore piuttosto
esplicito della decisa volontà del giovane di affermarsi rapidamente
sul mercato artistico.
Personalmente
ritengo – come ho ipotizzato nella mia recente tesi di laurea
– che se l’elegante fanciullo biondo nella scena di Filippino
Lippi dovesse essere davvero Giulio Campagnola, il suo ritratto in tale
contesto può essere interpretato come una sorta di vaticinio per una
sua immediatamente prossima investitura negli ambienti umanistici
contemporanei più raffinati: precisamente dunque, non l’omaggio a
una personalità dalla fisionomia intellettuale già ben delineata,
oggettivamente difficile da pensare considerata appunto la sua
giovanissima età, ma piuttosto l’annuncio “profetico”
dell’imminente consacrazione culturale di un fanciullo che, già in
possesso nella primissima adolescenza di un bagaglio culturale fuori
dalla norma, lasciava intravedere all’epoca della realizzazione
della Disputa potenzialità tali da poter perciò validare la
sua presenza in compagnia del di poco più grande Giorgione in un
brano pittorico dove la figura dell’Aquinate in cattedra disputante
tra le arti liberali, testimoniava con forza il valore profondamente
intellettuale e senza dubbio esclusivo, dell’episodio; ed a
proposito, il grande libro che il presunto Giulio Campagnola tiene
tra le mani è la testimonianza di quella sua preparazione culturale
così straordinariamente precoce che giustificherebbe quindi la sua
presenza in tale contesto così dotto.
Sulla
scelta di far raffigurare nella scena della Disputa il giovane
enfant prodige padovano, la figura del cardinal Oliviero
Carafa, ideatore e committente del ciclo pittorico, deve aver giocato
un ruolo decisivo, naturalmente. Il colto ecclesiastico napoletano,
trasferitosi a Roma intorno al 1467 ,
conosceva personalmente Giulio Campagnola e suo padre Girolamo,
raffinato umanista? Difficile affermarlo con certezza stante il
silenzio di eventuali notizie in merito, ma la vicinanza del giovane
padovano con Raffaele Riario, personaggio colto ed estremamente
sensibile alle arti,
è certamente indicativa di una precoce prossimità di Giulio con
certi ambienti ecclesiastici e intellettuali romani, che ovviamente
avrebbero potuto aprirgli le porte verso molteplici conoscenze: a
proposito credo opportuno ricordare che nell’estate del 1509 , dopo
la tragica sconfitta veneziana di Agnadello, che peraltro sarebbe,
secondo una delle linee interpretative più convincenti, l’autentico
soggetto della misteriosa quanto celebre incisione campagnolesca nota
come l’Astrologo,
lo stesso Carafa e il cardinal Riario furono incaricati dalla Curia
romana di intavolare le trattative di pace con gli ambasciatori della
Repubblica veneta e proprio l’evidenza che i due cardinali abbiano
ricevuto questo compito così delicato, presuppone a mio avviso la
possibilità che la loro conoscenza reciproca fosse all’epoca già
molto consolidata, poiché l’assegnazione di questa incombenza
doveva implicare anche una certa intesa tra i due, verosimilmente
definitasi solo dopo un cospicuo numero di anni di vicendevole
frequentazione.
In questa ottica, credo che vada interpretata anche
la successione del Riario al Carafa nella carica di cardinale vescovo
di Ostia e Velletri, il 20 gennaio 1511, in seguito alla morte di
quest’ultimo, il quale certamente doveva aver manifestato in vita
la propria idea in merito alla sua successione, fondamentale per
orientare la scelta dei suoi posteri sulla persona di Raffaele
Riario, appunto. Per cui sarebbe forte la tentazione di affermare che
proprio il cardinal Riario possa essere stato l’anello di
congiunzione tra Giulio Campagnola e il cardinal Carafa, che,
personaggio assai erudito, avrebbe così scelto di omaggiare
il sorprendente, ma certo all’epoca ancora in nuce, talento
intellettuale del padovano, commissionandone a Filippino Lippi il
ritratto vicino a quello di Giorgione nella scena di S. Maria sopra
Minerva.
Ma a questo punto, se i due all’epoca fossero davvero
appartenuti ad un segreto cenacolo religioso pseudoeretico, dedito in
particolare al culto del Sole, come ha pensato Guidoni, sarebbe
davvero corretto valutare la loro presenza nell’episodio della
Disputa come un “omaggio” alla loro personalità da parte
di un uomo, il cardinal Oliviero Carafa, che era una delle
personalità più influenti della Chiesa Romana e che dunque doveva
mostrarsi ovviamente incline a ribadirne la centralità dottrinale
contro il pericolo di certe devianze spirituali? In tal senso, una
superficiale interpretazione dell’affresco indirizzerebbe piuttosto
verso l’idea di una condanna delle eterodosse posizioni filosofiche
del Campagnola e di Giorgione, coerentemente con la loro collocazione
nel gruppo dei grandi eresiarchi, ma tuttavia credo che la questione
sia più complicata: gli eventuali ritratti dei due giovani artisti
veneti in compagnia degli eretici non possono infatti essere
valutati come il sintomo di un giudizio negativo nei loro confronti,
e ciò per alcuni particolari assolutamente non trascurabili e a mio
avviso decisivi.
Innanzitutto la singolare posa che contraddistingue
i due amici, già ricordata sopra, con le due teste molto vicine,
inclinate l’una verso l’altra, esprime l’idea di un colloquio
non solo molto confidenziale, ma assolutamente ermetico, il cui
esclusivismo va inteso anche e soprattutto nei confronti degli
eretici presenti nell’episodio, una conversazione intima e
privilegiata che vale ad isolare Giulio e Zorzi dal resto del gruppo
e dunque a segnare le distanze dei due rispetto alle dottrine
propugnate dai protagonisti che campeggiano alle loro spalle. Questo
spirito incline ad una erudizione riservata ed esclusiva, connaturato
alla personalità di Giulio Campagnola, trapela anche dai soggetti
di certe sue incisioni, come quella del Saturno, dove
l’isolamento del dio, raffigurato ai margini di un bosco lontano
dal borgo abitato, esprime una condizione spirituale ed intellettuale
privilegiata, interpretabile in senso neoplatonico.
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Fig. 19. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Gioacchino Torriani, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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Fig. 20. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare del ritratto di Niccolò III Orsini, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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E d’altronde,
in riferimento all’affresco del Lippi, la presenza tra gli astanti
ai piedi della cattedra dell’Aquinate, di due importanti esponenti
contemporanei della Chiesa, quali Gioacchino Torriani (fig. 19),
Maestro Generale dell’Ordine Domenicano dal 1487 al 1500, nel
gruppo di destra, e Niccolò III Orsini, conte di Pitigliano e capo dell'esercito papale (fig. 20), sul lato opposto della scena, dimostra che la disposizione
dei personaggi secondo uno schema compositivo simbolico, in virtù
del quale la Sapienza (san Tommaso e le arti liberali) è raffigurata
in alto, seduta in cattedra, e l’ignoranza, destinata a soccombere
(gli eretici), a un livello più basso, non debba essere accolta in
senso troppo semplicistico, monolitico e categorico, poiché sullo
stesso piano sono collocati sia alcune delle più celebri
personalità, nell’ottica del significato teologico della Disputa,
“negative”, perché avverse all’ortodossia cristiana, sia
due dei maggiori difensori, rispettivamente sul piano dottrinale (il
Torriani), e politico-militare (l’Orsini), della Chiesa cattolica,
da intendersi dunque come personaggi encomiabili, e perciò non va
affatto esclusa la possibilità che Giorgione e Campagnola, se anche
eventualmente vicini a una setta dedita al culto solare, possano
essere stati valutati dal Carafa, ideatore del ciclo, in senso
positivo e perciò come personaggi intellettualmente lodevoli. Ma in
riferimento a Giulio Campagnola, il particolare più significativo
che ci fa propendere verso l’idea che il suo presunto ritratto
debba essere correttamente inquadrato come un autentico omaggio alla
sua personalità, è indubbiamente il voluminoso libro che il giovane
fanciullo biondo stringe tra le mani (fig. 21).
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Fig. 21. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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Si è già detto
sopra che questo oggetto è già di per sé l’elemento simbolico
dell’eccezionale erudizione del padovano, ma il suo significato è
certamente più profondo di quello di un semplice segno distintivo.
Infatti, il nostro presunto Giulio Campagnola è l’unico tra i
presenti, insieme a san Tommaso che esibisce un libro aperto a
mostrare un noto passo di san Paolo, “SAPIENTIAM SAPIENTVM PERDAM”
e alla personificazione della Filosofia, esplicita allusione alla
Scolastica dell’Aquinate, che detenga il diritto di esibire tra le
mani il proprio prezioso volume, emblematica espressione di una
cultura, per quanto singolare ed eterodossa e sicuramente distante
dalla teologia del grande domenicano, evidentemente degna di essere
considerata di grande valore intellettuale, quasi sul piano della
complessa speculazione del Doctor Angelicus, laddove
contestualmente, gli altri libri presenti nella scena, che veicolano
le erronee dottrine degli eretici là raffigurati, giacciono
miseramente a terra, disprezzati e malridotti (fig. 22), e sono
perciò inevitabilmente destinati al fallimento al cospetto della
vera Sapienza.
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Fig. 22. Filippino Lippi, Disputa di san Tommaso d'Aquino, particolare, 1492-93; affresco; Roma, S. Maria sopra Minerva, Cappella Carafa
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In base a queste osservazioni, va dunque assolutamente
esclusa l’ipotesi che i presunti ritratti di Giorgione e
soprattutto di Giulio Campagnola vicini al gruppo degli eretici
possano essere valutati come un giudizio negativo delle loro
inclinazioni culturali ed anzi è assolutamente verosimile che il
cardinal Carafa, personaggio erudito e brillante mecenate delle
arti,
ammirasse la loro particolare e raffinata formazione intellettuale e
di lì a pochi anni, certamente anche lo spirito ermetico che avrebbe
informato le loro più celebri creazioni artistiche, se solo si
consideri il particolare gusto dell’ecclesiastico partenopeo per il
cripticismo, ben esemplificato dai geroglifici raffigurati sui fregi
della Cappella Carafa, che Maurizio Calvesi ha avuto il merito di
decrittare.
E d’altronde, il presunto ritratto di due personaggi come Giulio e
Giorgione, forse appartenenti ad una setta dedita al culto del Sole,
ben si conciliava col clima intellettuale romano di fine
Quattrocento, che, in particolare nella personalità di Alessandro
VI, si mostrava aperto agli influssi di culture e filosofie anche
molto distanti dalla tradizione cristiana e talvolta in posizione
dialettica nei suoi confronti. In questo senso, basti solamente
pensare al ciclo di affreschi realizzato da Pinturicchio per lo
stesso pontefice nell’Appartamento Borgia in Vaticano, dove, sulle
pareti della Sala dei Santi, veniva clamorosamente celebrato il
trionfo del dio egizio Osiride, simbolicamente identificato con lo
stesso Alessandro VI.
La
certezza di poter affermare l’esistenza di un legame del Carafa con
Giulio Campagnola, e dunque di conseguenza anche l’eventualità di
una sua presenza a Roma negli anni 1492-’93, che sarebbe stata
appunto immortalata nell’affresco di Filippino Lippi, si affida
naturalmente alla speranza di reperire qualche preziosa fonte
documentaria circoscritta a questo ristretto arco temporale, che
avvalorerebbe così le argomentazioni appena proposte, ma a
prescindere da questa circostanza, possiamo comunque rafforzare la
nostra convinzione della inequivocabile esistenza di un contatto di
Giulio Campagnola con Roma e con i suoi ambienti ecclesiastici e
intellettuali, grazie in particolare a una testimonianza recentemente
venuta alla luce.
Precisamente mi riferisco all’amicizia di
Girolamo e Giulio Campagnola col cardinale agostiniano ed insigne
letterato Egidio da Viterbo, che, in una lettera scoperta da Stefano
Colonna, scritta da Roma e
datata 29 agosto 1517, indirizzata al confratello Gabriele Della
Volta, cita “El mio Chariss[im]o misser Hierony[m]o Campagnola” e
“misser Julio suo & mio”: l’uso da parte del cardinale
Egidio, strettamente legato a certi ambienti ecclesiastici ed
intellettuali romani, di termini come “mio” e “Chariss[im]o”
nei confronti dei Campagnola, presuppone naturalmente un rapporto di
profonda e longeva amicizia, senza dimenticare che alcuni scritti
eruditi del cardinale viterbese palesano una sorprendente prossimità
concettuale con certe incisioni di Giulio, nell’ambito di un comune
neoplatonismo di fondo.
Nel biennio in cui furono realizzati gli affreschi della Cappella
Carafa tuttavia, difficilmente poteva concretizzarsi l’occasione di
un incontro romano tra lo stesso Giulio Campagnola e il cardinale viterbese,
che si sarebbe stabilito a Roma con una certa continuità solo a
partire dal 1496-‘97, perché all’epoca quest’ultimo risiedeva
proprio a Padova, patria del Nostro, dove vi si era insediato
dal 1490 e la circostanza è forse ancor più significativa. Infatti,
la città Antenorea, dove il viterbese si era recato per studiare
teologia, era all’epoca una delle più celebrate sedi universitarie
europee, caratterizzata da una forte tradizione aristotelica, verso
cui Egidio maturò ben presto una decisa avversione, perché valutata
in insanabile contrasto con la religione cristiana. Il cardinale si
avvicinò dunque con sempre maggiore interesse ed abnegazione alla
filosofia platonica, il cui studio giunse a maturazione nel biennio
1494-1495, quando Egidio si recò a Capodistria per insegnare e nel
1496, quando a Firenze incontrò Marsilio Ficino, il quale, nella sua
celebre Theologia platonica, permeata dall’idea di una
conciliazione della filosofia pagana e dei principi cristiani, aveva
posto le basi del neoplatonismo rinascimentale.
Ma il dato
probabilmente più interessante ai fini della nostra ricerca è che
all’epoca del soggiorno padovano di Egidio, teneva lezioni presso
l’università quel Niccolò Leonico Tomeo, fautore di un’originale
sincretismo tra le dottrine aristoteliche e quelle di Platone, e
destinatario di una lettera in latino, oggi perduta, scritta da
Girolamo Campagnola, padre di Giulio e amico stretto del professore
epirota,
sulla tradizione artistica della città di Padova: è perciò
ponderato supporre che il Tomeo, la cui visione filosofica era
appunto molto vicina al platonismo, circostanza che doveva apparire
alquanto eccezionale in un contesto egemonizzato dall’aristotelismo
come quello patavino, abbia potuto lasciare una traccia sulla
formazione del cardinale di Viterbo e non va esclusa affatto la
possibilità che questi abbia potuto seguire personalmente le lezioni
universitarie di Niccolò e magari stringere con lui un’amicizia
che si sarebbe poi rivelata il fattore determinante per l’incontro
con Girolamo Campagnola.
Ricordando
ancora la notizia secondo cui nel 1495 il giovane Giulio risultava
“familiare” del cardinal Raffaele Riario, va sottolineato che
quest’ultimo fu protettore dell’Ordine degli Agostiniani, a cui
apparteneva lo stesso Egidio e che i due erano legati da una profonda
amicizia
e, integrando questo dato con quello inerente la conoscenza reciproca
del Riario con Carafa, cui abbiamo accennato sopra, mi sembra
ammissibile congetturare la seguente successione di eventi: Egidio
conosce Girolamo Campagnola a Padova intorno al 1490-’91 e, pur
essendo oggettivamente poco credibile che nei primissimi anni novanta
si sia potuta già sviluppare una precoce intesa intellettuale di
stampo neoplatonico tra il dotto viterbese e l’appena adolescente
Giulio, è parimenti possibile che il cardinal Egidio potesse aver
già comunque intuito a quell’epoca le straordinarie potenzialità
del fanciullo padovano e, che dunque, apprezzandone in modo
particolare la sua formazione culturale che andava delineandosi, lo
abbia poi segnalato, molto probabilmente su sollecitazione dello
stesso Girolamo, all’amico Riario;
il cardinal Riario entra in rapporti con Giulio Campagnola e,
ammirandone a sua volta le doti, lo introduce, prima di nominarlo suo
“familiare” nel 1495, nell’orbita dell’erudito cardinal
Oliviero Carafa,
il che giustificherebbe l’eventuale commissione a Filippino Lippi
di un suo ritratto all’interno della scena della Disputa di san
Tommaso d’Aquino.
In
virtù dei dati che abbiamo interpretato, e sempre auspicando la
futura scoperta di possibili documenti che sarebbero di aiuto
fondamentale per meglio inquadrare questo periodo della vita del
prodigioso fanciullo padovano, mi pare perciò assolutamente
condivisibile la proposta di Enrico Guidoni da cui abbiamo preso le
mosse, ed è pertanto ragionevole ritenere verosimile l’idea di un
soggiorno a Roma di Giulio Campagnola forse in compagnia di Giorgione
in un periodo compreso nel biennio 1492-’93 e tuttavia, pur
ribadendo la centralità del fatto che l’assoluta identità del
ritratto della Cappella Carafa costituirebbe la prova di una reale
presenza a Roma del padovano in questi anni, non va del tutto
esclusa nemmeno l’ipotesi secondo cui, se anche a quell’epoca
il giovane non si fosse affatto recato in Urbe, ma che vi fosse
giunto per la prima volta circa due anni più tardi, appunto nel
1495, sarebbe allo stesso modo del tutto plausibile che il misterioso
fanciullo biondo dell’affresco del Lippi possa essere proprio il
nostro Giulio Campagnola, poiché l’episodio della Disputa,
a prescindere dalla presenza di due personalità contemporanee, come
Gioacchino Torriani e Niccolò III Orsini, non rappresenta una vicenda di
cronaca, che perciò doveva documentare un preciso avvenimento romano coevo
alla sua realizzazione, con la raffigurazione dei personaggi ivi
presenti, ma va piuttosto interpretato, come è noto, da un punto di
vista teologico e filosofico universale ed è perciò ammissibile
che, proprio grazie alle sue doti ed ai suoi rapporti con Egidio e
Raffaele Riario e conseguentemente con Oliviero Carafa, sia stato
tributato al nostro Giulio l’onore di essere ritratto in un
affresco romano, senza che necessariamente il giovane padovano fosse
stato presente in città contemporaneamente alla realizzazione dello
stesso.
E
in chiusura, a ulteriore testimonianza dei contatti di Giulio
Campagnola con Roma, è opportuno ricordare altri due interessanti
documenti: una notizia riportata da Morelli (1800) che afferma di
aver visto nei Diarii di Marino Sanuto un “sonetto in morte
di Papa Giulio II”, cugino proprio di Raffaele Riario, composto da
Giulio Campagnola e datato 1514, e un affresco di autore ancora
ignoto, nel castello Savelli di Palombara Sabina, raffigurante un
astrologo (fig. 23), assolutamente identico al protagonista della
celebre incisione del Nostro, del 1509 (fig. 24) e che apre dunque all'eventualità che egli possa essersi recato a Roma anche in più di un'occasione a distanza di anni.
|
Fig. 23. Anonimo, Astronomia, 1514; affresco; Palombara Sabina, Castello Savelli, Palazzo di Giacomo, Studiolo
|
|
Fig. 24. Giulio Campagnola, Astrologo, 1509; bulino, 99 x 152 mm; Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett, inv. 960-17
|
NOTE
Guidoni 1999, p. 86.
Si ricordi a proposito un passo di una lettera scritta nel 1494
dall’umanista Matteo Bosso a Girolamo Campagnola per informarlo
dei progressi intellettuali che il giovanissimo Giulio faceva a
Verona grazie al suo insegnamento: “Vix tertium ingressus lustrum
ingenio e natura non est Lippo (Aurelio Brandolino) absimilis: quin
praeter litteras tum Latinas tum Graecas, impuberi iste & lyram
tractare, & in ea canere, versus edere, &, quod caecus non
potest, scribere, pingere, statuas atque signa fingere sic per se
magis, ut puto, duce natura, quam arte, perdidicit; ut temporibus
nostris omnibus illi tantis in rebus simul possit meo iudicio
conferri nemo”. Dall’epistola
LXXV di Matteo Bosso nella seconda collezione stampata in Mantova
nel 1498 e riportata in Michiel 1800, pp. 130-131.É
opportuno segnalare anche la testimonianza di Michele da Placiola,
cognato di Giulio, che scrivendo il 10 settembre 1497,
verosimilmente dietro il suggerimento di Girolamo Campagnola, a
Ermolao Bardelino, fidato consigliere del duca di Mantova Francesco
Gonzaga, affinché questi accogliesse nella sua corte il fanciullo
per un apprendistato sotto la guida del grande Andrea Mantegna,
sottolineava le straordinarie qualità artistiche del giovane,
affermando che: “prima è venuto a tanta perfectione in pictura
che ‘l Belino non po’ far cossa sì bella che Julio non facci
uno simele exemplo a l’exemplare” e ancora “minia
excellentemente, le cui miniature non sono inferiore a quelle del q.
Jacometo che fo el primo homo del mondo" e "taia de
bolino, et anche in calcidonio che li mostrasse” e sottolineando
in particolare anche le conoscenze letterarie dell’adolescente
Giulio che “dasse a lettere grece, latine et hebraice”. Da Luzio
1888, pp. 184-185.
Sambin 1974, pp. 381-388.
Raffaele Riario (Savona 1460 – Napoli 1521), fu creato cardinale
di S. Giorgio al Velabro il 10 dicembre 1477 da papa Sisto IV. Dal 5
maggio 1480 fu titolare anche della Basilica di S. Lorenzo in Damaso
e nel 1483 fu nominato camerlengo.
Soragni 2010, p. 22.
Guidoni (1998-2000, vol. I, p. 112) assegna a Giulio Campagnola e a Giorgione la realizzazione
di due tondi, databili al 1494 circa, affrescati nell’abside
occidentale del transetto di sinistra della Certosa di Pavia,
individuandovi una derivazione stilistica da alcuni disegni
carpacceschi. Per quanto riguarda il Campagnola d’altronde, la
conoscenza di certi motivi del celebre maestro veneziano è
testimoniata in modo piuttosto evidente da alcuni particolari delle
scene della Vita della
Vergine
dipinte nella Scuola del Carmine a Padova, molto vicini a certi
brani delle Storie di
Sant’Orsola;
inoltre, nell’episodio dello Sposalizio
della Vergine è
possibile individuare tra i presenti, un presunto ritratto dello
stesso Vittore Carpaccio, che mostra una straordinaria somiglianza
con i suoi autoritratti nel telero raffigurante l’Incontro
con il papa a Roma,
sempre dal ciclo di Sant’Orsola e nella Disputa
di Santo Stefano e la
circostanza deve essere interpretata, come sovente accade nella
storia dell’arte rinascimentale, come un omaggio del giovane
Campagnola all’anziano maestro lagunare.
Si ricordi la celebre Pala
di Castelfranco (1503
circa, Castelfranco Veneto, Duomo) eseguita da Giorgione per il
condottiero Tuzio Costanzo.
Il documento che testimonia la tonsura di Giulio Campagnola,
ricevuta dal vescovo di Padova Pietro Barozzi il 28 maggio 1495, è
conservato presso l’Archivio di Stato di Padova ed è riportato
interamente in Gasparotto 1955, p. 419, Doc. XLII.
Guidoni (1997) riconduce a questa possibile presenza romana la
partecipazione di Giorgione all’esecuzione del Martirio
di san Sebastiano
degli appartamenti Borgia in Vaticano (Sala dei Santi).
Meneghetti 2010, p. 193, n. III.1.
Guidoni 1999, pp. 88, 201.
Guidoni 1998-2000, I, pp. 77-90.
L’incisione raffigurante Tobiolo
e l’angelo,
ritenuta una delle prove d’esordio del Campagnola, e con buona
probabilità la sua prima creazione originale in assoluto, è
databile con certezza pressoché totale a dopo il 1496, vista la
palese derivazione di certi particolari dall’incisione del Piccolo
corriere di Dürer,
realizzata in quell’anno.
Ritengo ragionevole distinguere due periodi fondamentali nella
carriera artistica di Giulio Campagnola. Il primo, quello della
giovinezza, in cui l’esigenza di una rapida affermazione sul
mercato si manifestava non solo naturalmente attraverso l’evidente
ispirazione al linguaggio del Mantegna e a quello del Dürer, che
erano due degli artisti maggiormente apprezzati nel campo
dell’incisione in ambiente veneto e soprattutto veneziano, in
particolare per quanto riguarda il tedesco, ma anche attraverso la
“monumentalità” e inequivocabilità della firma “Iuluis
Campagnola Antenoreus”. Durante la seconda fase, quella della
maturità, in cui Giulio probabilmente non doveva più avvertire
l’urgenza di acquisire una propria riconoscibilità, in quanto
incisore già affermato per cui all’epoca riteneva sufficiente
firmare le proprie opere col solo monogramma “I C”, l’incisore
padovano licenziava opere principalmente destinate ad un ristretto
pubblico di umanisti imbevuti di quella raffinata cultura letteraria
e filosofica che ben si conciliava con la formazione che egli stesso
aveva plasmato sin da fanciullo, come dimostra lo spirito ermetico
che sovente caratterizza le sue incisioni ascrivibili appunto a
questo secondo e ultimo periodo della sua carriera. Inoltre, sul
significato che potremmo definire “sociologico” della firma di
Giulio Campagnola, segnalo l’utilità dello studio di Francesco
Sorce (2003).
Giulio Campagnola
incisore e pittore,
Relatore Prof. Stefano Colonna, 2014.
Il 18 settembre 1467 Oliviero
Carafa veniva nominato cardinale da papa Paolo II, col titolo dei
SS. Pietro e Marcellino.
Ricordiamo a proposito i rapporti del Riario con Raffaello e
soprattutto con Michelangelo.
Sull’interpretazione
dell’Astrologo
in relazione alla disfatta veneziana di Agnadello, si sono espressi
Augusto Gentili e Claudia Cieri Via,
1994.
Si pensi ad esempio al chiostro di S. Maria della Pace,
commissionato a Bramante (1500–1504).
Calvesi 2004, pp. 481-498.
Colonna 2012, p. 312. La lettera di Egidio da Viterbo, datata 29
agosto 1517 ripropone inoltre anche il discusso problema della data
di morte di Giulio Campagnola e potrebbe essere individuata come
termine post quem.
Si pensi alla vicinanza semantica, improntata a un chiaro
neoplatonismo, di alcuni passi letterari della Scechina,
il trattato cabalistico scritto dal cardinale viterbese tra il 1528
e il 1531, col significato dell’incisione del Campagnola
raffigurante il Ratto
di Ganimede, databile
al 1500-1502. Prescindendo dal fatto che non può stabilirsi una
relazione diretta tra queste due testimonianze, a causa
dell’evidente divario cronologico, è comunque ragionevole pensare
che l’affinità intellettuale di ispirazione neoplatonica tra i
due personaggi si sia manifestata già molto tempo prima, forse non
necessariamente negli anni del soggiorno padovano di Egidio, poiché
all’epoca Giulio era poco più che un bambino, ma probabilmente
qualche anno più tardi.
Niccolò Leonico Tomeo era originario di Durazzo.
Ritengo a proposito che la suddetta lettera di Egidio del 1517,
indirizzata al confratello agostiniano Gabriele Della Volta, possa
essere inquadrata, seppure con la dovuta cautela, stante l’assenza
di qualsiasi riferimento diretto, nell’ambito delle conseguenze
della congiura di quello stesso anno, ordita dal cardinale Alfonso
Petrucci ai danni di Leone X e poi sventata. Tra gli accusati
figurava infatti anche lo stesso Riario, che ai fini della congiura
sarebbe dovuto divenire pontefice proprio al posto di Leone X. Ma,
se il Petrucci fu giustiziato mediante strangolamento il 16 luglio
1517, il cardinal Riario venne graziato e dunque liberato, dietro il
pagamento di un’ingente somma di denaro: ora, tenuto conto del
fatto che l’epistola di Egidio manifesta un tono di scoperta
riconoscenza nei confronti dei nobili veneziani M. Antonio Tron, per
il tramite di Gabriele Della Volta e Michele Priuli, mi pare
plausibile che la gratitudine espressa si possa interpretare
nell’ottica di un impegno andato a buon fine da parte del
viterbese, mirato al conseguimento della grazia per il suo amico
Riario, per cui avrebbe chiesto e ottenuto un sostegno economico al
Tron e al Priuli, appartenenti a due nobili famiglie veneziane
certamente molto facoltose, che si sarebbero perciò rivelate di
grande aiuto per pagare l’assoluzione e la scarcerazione del
Riario, specialmente considerando il fatto che una eventuale
condanna di quest’ultimo, protettore degli Agostiniani, avrebbe
inevitabilmente determinato esiti alquanto nefasti su quell’ordine
religioso, cui apparteneva lo stesso Egidio; tenendo poi presente
che l’epistola è datata 29 agosto 1517, dunque in strettissima
contiguità cronologica con la condanna a morte di Alfonso Petrucci
(16 luglio) e perciò con il coinvolgimento del Riario, che appena
cinque giorni prima, il 24 agosto, veniva reintegrato nella sua
carica di cardinale, è lecito credere dunque che Egidio abbia
voluto comunicare tempestivamente la propria riconoscenza a coloro
che si erano impegnati ad aiutarlo. Va ricordato inoltre che nel
luglio del 1521, alla morte di Raffaele Riario, Egidio gli subentrò
nel ruolo di protettore a vita dell’Ordine agostiniano.
Nella mia recente tesi di laurea, di cui sopra, ho ipotizzato che fu
invece il Riario, sulla base della certezza del suo rapporto con
Giulio Campagnola già in essere nel 1495, ad aver introdotto il
giovane incisore padovano alla conoscenza di Egidio da Viterbo.
Credo tuttavia che entrambe le ipotesi abbiano al momento pari
valore, perché se è assolutamente possibile che il Riario abbia
potuto fungere da tramite per la conoscenza dell’insigne
agostiniano viterbese, è allo stesso modo logico pensare, sulla
scorta della notizia del soggiorno di questi a Padova tra il 1490 e
il 1494, che accadde l’opposto, ossia che fu Egidio, che
probabilmente nella città veneta aveva stretto amicizia con
Girolamo Campagnola, conosciuto forse attraverso Niccolò Leonico
Tomeo, ad esser stato il primo nesso tra Giulio e Raffaele Riario.
Anche sulla possibile segnalazione delle doti del giovane Giulio da
parte di Raffaele Riario a favore di Oliviero Carafa, non credo che
vada escluso l’intervento di Girolamo Campagnola.
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CREDITI FOTOGRAFICI
Figg. 1, 2, 3, 4, 8, 11, 15, 16, 18, 19, 20, 21 e 22 foto cortesia di Nando Lelii su autorizzazione della Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per il Polo Museale della città di Roma
Figg. 5, 7, 9, 10 foto cortesia di Wikimedia Commons
Fig. 6 Foto cortesia della Parrocchia di Santa Maria del Carmine, Padova
Figg. 12, 13, 14 e 17 foto cortesia di Giuliano Ghiraldini, Gabinetto fotografico - Musei Civici di Padova su gentile concessione dell' Assessorato Cultura, Turismo e Innovazione tecnologica del Comune di Padova
Fig. 23 foto cortesia di Renzo Tommasi
Fig. 24 foto cortesia di Francesco De Santis
Si precisa che le opere riprodotte nelle figg. 1, 2, 3, 4, 8, 11, 15, 16, 18, 19, 20, 21 e 22 rientrano nel patrimonio del Fondo Edifici di Culto, amministrato dalla Direzione Centrale per l'Amministrazione del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell'Interno e sono state riprodotte su concessione dello stesso.
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