Credo che l'unica cosa che un artista non si augurerebbe mai,
sia quella di passare inosservato, di essere dimenticato, di non
provocare sentimenti e discussioni. È l'amaro destino che,
oltre a chissà quanti altri, ha colpito anche Gustave Caillebotte
(1848-1894), uomo eclettico ed artista sensibile, il cui nome,
l'oblio ha celato al grande pubblico per quasi un secolo.
Ora una interessante mostra al Grand Palais di Parigi, terminata
il 9 gennaio, con l'esposizione di quasi 120 opere dell'artista,
ha tentato di spazzare via la polvere che ha ricoperto il suo nome
per tutti questi anni. In questo senso lo ripropone non solo come
pittore pienamente impressionista, ma anche come intellettuale e
raffinato mecenate, amico di più gloriosi contemporanei come
Monet e Manet o come Renoir che fu anche il suo esecutore
testamentario e come De Nittis la cui famiglia lo ospitò durante
il suo soggiorno a Napoli del 1872.
Ed effettivamente basta scorrere la biografia di Caillebotte per
accorgersi di quanto fu attento amico, in special modo nei momenti
economicamente difficili, di coloro che, oggi, conosciamo come i
grandi impressionisti: ad esempio, nel 1877, prese in affitto,
unico a poterselo permettere, un locale per la terza esposizione
impressionista e nella stessa occasione acquistò alcuni dipinti
di Renoir; due anni più tardi invece, fornì a Degas
i finanziamenti necessari per la realizzazione del giornale Le Jour
e la Nuit ed infine, nel 1884, recuperò per Monet il famoso
Dejeuner sur l'herbe dato in pegno precedentemente.
Ma la mostra di Parigi vuole soprattutto farci conoscere un
artista che non fu mai compreso ed amato dai suoi contemporanei,
proprio lui che, invece, ha dato prova di aver compreso i fermenti
positivi della propria società e le brutture che essa stessa
stava per produrre. Dicevo di come Caillebotte fosse pittore
impressionista, nel senso che ne acquisì il linguaggio intuendone
la novità, e penso di non allontanarmi troppo dal vero affermando
che egli fu tra i più moderni di questo gruppo poiché
riuscì a far nascere dai suoi quadri delle riflessioni, dei rapporti che
superano, senza dubbio, la pura descrittività.
Mi riferisco, in particolare, alla serie di vedute di Parigi,
spesso da una finestra, che Caillebotte realizzò a partire dal
1876: quadri in cui mi sembra evidente la sofferenza e la
solitudine dell'uomo nella vasta ed invadente Parigi. Un tema,
questo, che l'artista affronta senza enfasi e anzi, quasi con
delicatezza: come per non disturbare i propri personaggi che
osservano assorti la città incombente. In dipinti come Jeune
homme à sa fenêtre del 1876 o Homme au balcon del 1880
o ancora come le due rappresentazioni de Le Pont de l'Europe è
quasi tangibile la difficoltà dei protagonisti ad entrare a far
parte di una società volubile e schizofrenica; è come se
la grande città rendesse difficili anche i piccoli contatti umani,
robotizzando i gesti quotidiani e creando un muro di
incomunicabilità insuperabile.
Ed è proprio questo, forse, il vero fulcro delle opere
più significative di Caillebotte, il vero cruccio dei suoi personaggi
scuri e pensierosi che riflettono su un binomio, città e uomo,
che non si fa drammatico nei quadri dell'artista ma si traduce in
un alone claustrofobico, in una presenza impalpabile ma gravosa.
Mi sembra che Caillebotte avesse intuito il dramma dell'uomo-
individuo, "senza importanza collettiva" e lo ha finemente colto
pensieroso e triste per il suo destino di solitudine.
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