Questo saggio nasce a seguito di una riflessione suscitata da un amico di Pavia, che recentemente è stato mio ospite a Napoli. Da attento studioso di economia, il mio amico era interessato a conoscere le manifatture e le produzioni della Napoli borbonica, per capire le reali condizioni del Mezzogiorno in epoca anteriore all'unità d'Italia. Purtroppo, non ho le conoscenze necessarie per offrire un quadro completo delle produzioni napoletane del tempo, ma ho provato a riassumere le produzioni artistiche, sia quelle promosse dalla corte, sia quelle nate dalla tradizione popolare.
MOBILI
Nella prima metà del Settecento il mobile napoletano è ancora legato ad uno stile seicentesco e barocco, con ornati fastosi e ridondanti. Con il persistere di un'antica tradizione di ebanisteria ed intaglio ligneo, il rococò fatica ad affermarsi. Fa eccezione il magnifico Cabinet degli specchi a Palazzo Corigliano, i cui intagli leggeri ed eleganti seguono un progetto di Filippo Buonocore. Lo stesso aveva realizzato, nel 1743, i coretti della basilica di S. Chiara, andati in fiamme nel 1943. Verso la metà del Settecento, grazie all'apertura internazionale di Carlo di Borbone, fiorisce a Napoli il gusto delle cineserie e delle turcherie. La nuova moda ebbe vasta risonanza per impulso della corte e delle manifatture reali, ma era già penetrata negli anni del viceregno austriaco (1707-1734). Molti fattori 1 vi possono avere contribuito: dall'intraprendenza degli artisti, pronti a recepire le tendenze europee, alle fiere popolari, che secondo la testimonianza di Raillard (1715) abbondavano di cineserie, all'attività del Collegio dei Cinesi 2, fondato da Matteo Ripa nel 1724.
Al principio, il gusto cinese si diffuse nella decorazione degli arredi, di cui abbiamo testimonianza in due consoles della Reggia di Capodimonte, con al centro figure cinesi, e nel celebre Salotto di Porcellana disegnato da Gian Battista Natali nel 1759, alla Reggia di Portici (oggi a Capodimonte). Nel 1756 l'esotismo fa il suo ingresso nell'edilizia, perché Luigi Vanvitelli esegue un modello ligneo 3 per una pagoda da erigersi nel parco reale di Portici. Una lettera 4del Vanvitelli a suo fratello Urbano, in cui dichiara di farsi "chinese architetto" solo per compiacere la regina Amalia, dimostra quanto fosse in voga il gusto cinese alla corte dei Borbone. Nel 1780-90 fu edificata, presso la fabbrica dei Granili alla Marinella, una leggiadra Casina Cinese, per la quale rimando al mio saggio su Napoli Nobilissima 5
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La presenza di Carlo di Borbone è essenziale anche per la diffusione del rococò francese e inglese. Gli ebanisti partenopei diventano più sensibili all'evoluzione dei modelli d'Oltralpe, ma non riescono a superare completamente la "pesantezza" barocca. Ciò è visibile in alcuni disegni dell'Archivio di Napoli e del Metropolitan Museum di New York, che presentano delle stanze arredate sotto Carlo di Borbone. Il più noto degli ebanisti napoletani del tempo è Gennaro Di Fiore. Egli eseguì le porte in legno intagliato del Gabinetto di Porcellana, a Portici, e gli arredi del Budoir della Reggia di Caserta.
Verso il 1780, con la diffusione dell'arredo neoclassico, Napoli dà finalmente un contributo originale allo sviluppo dello stile e del gusto europeo. La fonte di ispirazione dei nostri ebanisti non è più oltre le Alpi, ma sotto al Vesuvio, nelle rovine appena emerse di Ercolano. Sulla base delle figurazioni romane, stampate in un manuale dal titolo "Antichità di Ercolano", furono realizzati numerosi arredi. Esemplari sono le poltrone di Villa Favorita, oggi esposte a Capodimonte, che riproducono sulle spalliere le famose danzatrici di Ercolano.
PRESEPE
Il presepe inteso come articolata rappresentazione plastica della Natività compare a Napoli sotto Ferrante d'Aragona. Nel 1478-84, Pietro e Giovanni Alemanno realizzano un grandioso presepe nella sagrestia di S. Giovanni a Carbonara, con figure monumentali in legno dipinto. Delle 41 statue originali ne restano 19, conservate nel Museo di San Martino. Pure in legno è il presepe di S. Domenico Maggiore, compiuto da Pietro Belverte prima del 1513, e quello di S. Maria del Parto, compiuto da Giovanni da Nola prima del 1526.
Solo nel Seicento furono introdotti altri materiali, come la stoffa degli abiti. L'arte presepiale raggiunse l'apice nel Settecento, quando alla rappresentazione della Natività si affiancarono il corteo dei pastori, la taverna, il mercato, tutte scene animate e pittoresche che conferivano al presepe un aspetto completamente laico. Gli stessi Carlo e Ferdinando di Borbone sostennero la tradizione e fecero eseguire grandi presepi alla Reggia di Caserta e al Casino di San Leucio. L'apparato effimero richiese il progetto di un "direttore" (architetto o ingegnere) che realizzava anche elaborati sistemi di illuminazione e congegni idraulici. I maggiori scultori del tempo si cimentarono nella produzione di pastori: Francesco Celebrano, Giuseppe Sanmartino, Matteo Bottigliero, Domenico Antonio Vaccaro, Angelo Viva. Lo stile veristico e narrativo si prolungherà sino al pieno Ottocento, senza nulla cedere alle istanze del Neoclassicismo.
CEROPLASTICA
Nella ceroplastica napoletana del '700 possiamo riconoscere: un filone iper-realistico, uno vedutista, uno ironico ed uno sacro. Il filone iperrealistico ha i suoi capolavori nel busto di cavadere divorato dai vermi (fine Seicento) che si conserva alla Congrega dei Bianchi della Giustizia, e nella cruda immagine di Maria Carolina scoperta nei depositi di Palazzo Reale. Il filone vedutista è presente in quattro bassorilievi di un ceroplasta bavarese, Nikolas Engelbert Cetto, che morì nel 1746. I rilievi presentano, con eccezionale virtuosismo, vedute di Napoli sotto il regno di Carlo di Borbone. Il filone ironico è degnamente rappresentato da una tavoletta di Giovan Francesco Pieri, conservata al Museo di Capodimonte, che raffigura un maestro di scuola (1760). Infine, il filone religioso si diffonde a Napoli durante il viceregno austriaco grazie a Caterina de Julianis (Napoli, 1695-1743), modesta allieva di Gaetano Zummo. A lei si deve, nella sagrestia di S. Severo al Pendino, una tavoletta che raffigura un cimitero. Questo genere raggiunse livelli più alti quando giunse da Firenze Giovan Francesco Pieri, nel 1737. È suo il bassorilievo in cera con le nozze mistiche di S. Caterina (1749), conservato al Museo di Capodimonte.
MAIOLICHE
Nel Settecento, mentre la ceramica di Castelli era oppressa da oneri fiscali, mentre le ceramiche di Cerreto Sannita ed Ariano Irpino erano ferme su modelli provinciali e popolari, solo la ceramica napoletana ebbe un'eccellente fioritura. Favoriti da una serie di bandi, i "riggiolari" napoletani aprirono le loro botteghe verso il Borgo Loreto o in altre zone fuori le mura urbane, poiché la produzione delle vernici dava luogo ad esalazioni tossiche. Un atto notarile del 1774 6, in cui i Complateari del Borgo di Loreto si riuniscono per la questua delle elemosine da raccogliere nella corporazione dei faenzari e riggiolari, enumera 41 ceramisti. Fra questi, Nicola Giustiniani, Giuseppe Massa, Gennaro Del Vecchio, Vincenzo Corrado, Ignazio Di Mauro, Nicola Cinque, Sabato Vitale e Giosué Sarruba. Altre manifatture di ceramica furono aperte nel sec. XIX, come quella dei fratelli Mosca 7 (1865), che acquistarono dai Giustiniani la storica sede in via Marinella 14, e quella di Gaetano Campagna 8, ancor oggi riconoscibile dalla fronte maiolicata in strettola S. Anna alle Paludi.
Molti si organizzarono in botteghe a conduzione familiare, come i Massa, i Chiaiese e i Giustiniani. A Napoli la maiolica ebbe un impiego molto vasto, dagli oggetti quotidiani fino al rivestimento di cupole, chiostri e spazi aperti. Per lavori ingenti, diverse botteghe potevano associarsi, come avvenne alla Reggia di Capodimonte o alla cupola del Sedile di Porto.
Accanto alle botteghe napoletane, operò con successo il ceramista Saverio Grue, della manifattura abbruzzese di Castelli. Il suo capolavoro sono le maioliche della spezieria nella Certosa di S. Martino.
Capolavoro della maiolica napoletana è il rivestimento del Chiostro di S. Chiara, eseguito da Giuseppe Massa su disegno di Domenico Antonio Vaccaro (1740). Un'altra grande bottega fu quella dei Giustiniani, il cui capostipite, Ignazio, realizzò il pavimento di S. Andrea delle Dame (1729).
ARGENTERIA ED OREFICERIA
L'argenteria partenopea raggiunse l'apice nel Settecento, quando i bandi vicereali fissarono la massima quantità di rame che poteva esservi contenuta e vietarono la produzione di argenti fuori della capitale. Rigorosi furono i controlli sulla qualità e le tecniche (numero e tipologia dei punzoni erano fissati per legge).
Gian Domenico Vinaccia anticipa soluzioni proprie del rococò in opere come il paliotto maggiore (su modello di Dionisio Lazzari, 1692) e una statua di S. Michele (su disegno di Lorenzo Vaccaro, 1691) nella Cappella di S. Gennaro. Su questa scia si muovono Andrea De Blasio, Gaetano Starace e i Del Giudice, che lavorano su modelli dei maggiori artisti napoletani (Vaccaro, De Matteis, Sammartino). Le chiese napoletane furono allora invase da arredi in argento, che saranno poi fusi su ordine di Ferdinando IV (1798) e Gioacchino Murat. Fra i capolavori superstiti, abbiamo i reliquiari di S. Chiara, eseguiti da Andrea De Blasio nel 1729-35.
La corte di Napoli ebbe anche rapporti con gli argentieri parigini, come prova un'elegante zuppiera inviata da Henri Auguste al Marchese di Circello, ambasciatore di Ferdinando IV a Londra. Un'altra testimonianza dei rapporti intercorsi fra la corte borbonica e gli argentieri parigini è il servizio da viaggio del Victoria and Albert Museum, realizzato dai Germain nel 1776 per Carlo di Borbone.
Nel campo dell'oreficeria, la Cappella di S. Gennaro conserva due capolavori: un calice con finissimi bassorilievi, opera di Michele Lofrano (1761) e la mitria di S. Gennaro, opera di Matteo Treglia (1713). Altro capolavoro è la cornice floreale di Palazzo Pitti, che racchiude un rame dipinto da Francesco Solimena.
MANIFATTURE REALI
Quando Carlo di Borbone, nel 1734, cambiò l'assetto politico del Regno, costituendo uno stato autonomo dopo secoli di viceregno, volle conferire adeguato prestigio alla capitale. Allora, seguendo l'esempio dei Medici (visitò nel 1732 l'Opificio delle Pietre Dure e forse anche l'Arazzeria di Firenze), decise di fondare a Napoli delle manifatture artistiche in linea con il gusto europeo. La più celebre è la Fabbrica di Porcellane di Capodimonte, fondata nel 1740 e chiusa nel 1759, quando il sovrano partì per la Spagna. Ben diversa fu la fabbrica di vetri e cristalli di Castellammare, attiva dal 1746 al 1748, che non produsse lavori artistici, ma oggetti d'uso comune. Lo scopo era puramente imprenditoriale, cioé mirava a produrre lastre e cristalli ad un prezzo inferiore rispetto alle manifatture veneziane. Per questa ragione, sin dal 1743 fu chiamata a Napoli, segretamente, una compagnia di vetrai muranesi. Fallita in breve tempo questa fabbrica, Carlo di Borbone continuò ad incentivare la presenza di artigiani capaci di lavorare il vetro.
Il re voleva non solo costruire il proprio prestigio, ma anche sviluppare l'artigianato locale ed imprimere una svolta sociale ed economica nel Mezzogiorno attraverso la fondazione di nuove manifatture. Per questa ragione, le porcellane di Capodimonte erano fabbricate solo con materie reperite nelle province del Regno ed erano vendute al pubblico tramite una fiera estiva in Largo di Palazzo. Grazie a Carlo, l'artigianato meridionale superò il modello di organizzazione in botteghe e si adeguò al nuovo sistema delle manifatture.
REALE OPIFICIO DELLE PIETRE DURE
Alla morte di Gastone de' Medici, nel 1737, Carlo di Borbone colse l'occasione per invitare a Napoli i maestri dell'Opificio delle Pietre Dure. Ne giunsero dieci, fra cui Francesco Ghinghi (allievo del Foggini) al quale fu affidata la direzione della nuova manifattura napoletana. La fabbrica era divisa in due sezioni: lavori di commesso e bassorilievi. Gli operai erano obbligati a lavorare solo per il sovrano e a non mostrare le proprie opere ad estranei. Rientrano fra le prime opere della fabbrica due eccezionali tavoli marmorei, ad intarsi floreali di palese derivazione fiorentina, oggi conservati al Museo del Prado. I piedi, a sezione triangolare, sono ornati da festoni di frutta in bronzo. La fabbrica, ubicata in uno stabile a San Carlo alle Mortelle, lavorava con estrema lentezza, anche per la difficoltà di reperimento dei materiali. Alla morte del Ghinghi, nel 1762, fu nominato direttore Gaspero Donnini, pure fiorentino. Egli non aveva molta competenza nella lavorazione delle pietre, ma era molto più abile a dirigere gli operai e amministrare le spese. Sotto la sua direzione, si portò avanti il gusto barocco fiorentino. Una svolta si ebbe solo a fine secolo, sotto la direzione di Giovanni Mugnai, che promosse decorazioni ispirate ai vasi etruschi e alle grottesche romane.
REAL FABBRICA DEGLI ARAZZI
Alla morte di Gastone de' Medici, nel 1737, Carlo di Borbone colse l'occasione per invitare a Napoli i maestri dell'Arazzeria medicea. Ne giunsero 12, fra cui Domenico Del Rosso e Giovan Francesco Pieri che avrebbero diretto la nuova manifattura napoletana. Ubicata in uno stabile a S. Carlo alle Mortelle, questa officina operava con estrema lentezza per il ridotto numero di persone e di telai. Il suo primo lavoro sarebbe il ritratto di Carlo di Borbone esposto al Museo di Capodimonte, firmato da Del Rosso nel 1741. Una svolta si ebbe nel 1757, quando il re stipulò un contratto con Pietro Duranti, abile arazziere romano. Duranti aprì nello stesso stabile di S. Carlo alle Mortelle un laboratorio ad alto liccio (orditura verticale e cartone alle spalle dell'arazziere), mentre Del Rosso usava il metodo a basso liccio (orditura orizzontale e cartone sotto l'ordito). Duranti impresse una svolta stilistica e organizzativa, affidando i cartoni a Giuseppe Bonito. Il risultato è già nella Serie di Don Chisciotte, eseguita in Francia dalla manifattura Gobelins e completata a Napoli con nuovi episodi. Gli arazzi eseguiti a Napoli si differenziano dal resto della serie in tre fattori: anzitutto, il pubblico che assiste alle gesta di Don Chisciotte è costituito da gente comune e non da cortigiani; poi, i colori sono molto più vivi perché la stoffa è di qualità inferiore; infine, l'invenzione delle scene rivela minore fantasia.
Sia l'officina di Del Rosso, sia quella di Duranti furono chiuse duranti i moti del 1799.
REAL FABBRICA DI PORCELLANE DI CAPODIMONTE
L'interesse di Carlo di Borbone per la porcellana è attestato dal 1737, quando giunsero a Napoli il miniatore parmigiano Giovanni Caselli, il chimico fiorentino Livio Schepers (che avrebbe ricevuto la formula della porcellana dal Principe di Sansevero, padre di Raimondo de' Sangro) e lo scultore fiorentino Giuseppe Gricci (formatosi nella bottega del Foggini, ebbe rapporti con la fabbrica del Marchese Ginori a Doccia). Livio Schepers, sebbene non disponesse di kaolino, riuscì a creare una pasta tenera dai caratteri simili alle porcellane di Sèvres. Tale pasta fu in seguito perfezionata dal figlio Gaetano.
Il re Carlo amava le porcellane di Meissen, di cui aveva ricevuto un'ampia collezione sposando Maria Amalia di Sassonia, e le porcellane giapponesi, di cui aveva acquistato vari esemplari. La scelta di fondare la manifattura di Capodimonte fu quindi una scelta di gusto e non di opportunità, come invece era avvenuto per gli arazzi e le pietre dure. La fabbrica fu ubicata dapprima nel Palazzo Reale e poi nel bosco di Capodimonte, nell'edificio appositamente restaurato dal Sanfelice (1743). Giuseppe Gricci, che dirigeva il reparto dei modellatori (la produzione era divisa in vari reparti, corrispondenti alle fasi di lavorazione), seppe sfruttare al meglio le potenzialità della pasta tenera. Non potendo realizzare i nastri e i riccioli che caratterizzano la produzione sassone, in pasta dura, Gricci puntò al dinamismo e all'equilibrio delle composizioni. I suoi modelli di ispirazione sono: il classicismo dei Carracci, il gusto nordico della quotidianità, il mondo dei sogni di Watteau e Piazzetta.
Fra i capolavori della Real Fabbrica ricordiamo il San Giovanni del Metropolitan Museum, la Pietà del Museo Duca di Martina e il celebre Salotto Cinese della regina Amalia, realizzato nel 1759 su progetto di Giovan Battista Natali. L'esecuzione è attribuita a Giuseppe Gricci, mentre Gennaro Di Fiore eseguì le porte in legno intagliato e Mattia Gasparini gli stucchi della volta.
Nei primi anni di attività, la fabbrica produsse in prevalenza servizi di piatti o di tazze, poi, per venire incontro alle richieste del mercato, diede maggiore impulso alle statuine. Le figure più diffuse erano i venditori ambulanti, i popolani, i saltimbanchi, scene galanti e scene di genere.
REAL FABBRICA DI PORCELLANE DI SAN CARLO
Un'altra manifattura carolina di porcellana fu attiva dal 1753 al 1756 a Caserta, nel quartiere di San Carlo, adoperando gli stessi forni in cui si cuocevano i mattoni per la Reggia. Nella fabbrica, diretta da Lorenzo Neroni, operavano artigiani di Faenza (Gennaro Chiaiese), di Cerreto (Lorenzo Festa, Gennaro Del Vecchio) e di Castelli (Saverio Grue). La produzione consisteva principalmente in vasellame da tavola come zuccheriere e zuppiere, sia pregiato che di uso comune. Le uniche opere rimaste che sicuramente vengono da questa manifattura sono due zuppiere, l'una al Museo Duca di Martina e l'altra in collezione privata. Lo stile è molto vario e riflette la diversa provenienza degli autori.
REAL FABBRICA D'ARMI DI TORRE ANNUNZIATA
La costruzione ebbe inizio nel 1757 su ordine di Carlo di Borbone, che già nel 1753, non soddisfatto della fabbrica di fucili di Stilo, ne aveva annunciata la fondazione. La fabbrica, che si avvalse di artigiani francesi, spagnoli e italiani, si caratterizzava per i diversi ambiti di produzione: da un lato, le semplici armi destinate all'esercito, dall'altro, le preziose armi da parata o da caccia destinate alla corte. Un'ispezione nel 1772 riscontrò gravi errori gestionali dovuti al marchese Ricci, che peraltro aveva dirottato verso la Fabbrica di Porcellana di Napoli molti fondi destinati alle armi. Fra gli armieri napoletani attivi a Torre Annunziata, l'unico nome che conosciamo è quello di Michele Battista.
REAL ALBERGO DEI POVERI
Diverse manifatture 9 erano insediate nel Real Albergo dei Poveri, l'immensa fabbrica fondata da Carlo di Borbone, nel 1748, al fine di accogliere tutti i poveri del Regno e di avviarli ad un mestiere. L'addestramento si svolgeva, in prevalenza, negli opifici industriali ricavati nei sotterranei dell'Albergo. Le donne del reclusorio producevano sete, stoffe e ricami destinati alla Casa Reale e alle dame di corte. Nel 1853, presentarono le nuove collezioni all'Esposizione delle Arti e Manifatture: tessuti pregiati e alla moda, dai nomi esotici come "pakyn royal", "velluto ottomano", damasco siriano" e "taffettas glasé". Famosi furono i ricami per il corredo nuziale della principessa di Berry, figlia dell'erede al trono Francesco di Borbone. E non fu da meno il parato in velluto con gigli e arabeschi ricamati in oro, tessuto nel 1818 per la sala del trono.
Altra notevole manifattura del Real Albergo fu quella del corallo, insediata dal marsigliese Paolo Bartolomeo Martin, che aveva una schiera di trecento dipendenti. Fu proprio Martin ad esportare l'arte del corallo nel Regno di Napoli, prima che la produzione si stabilisse a Torre del Greco.
Verso la fine dell'Ottocento, nel reclusorio operavano laboratori e scuole di tessitura, legatoria, doratura, stampa tipografica, una stamperia, un lanificio, fabbriche di spilli e d'incisione di punzoni d'acciaio. Poi si aggiunsero scuole-laboratori per falegnameria e carte da parati mentre, in officine private, si formavano artigiani in ebanisteria, bronzi artistici, lavori in marmo e calzoleria. Queste attività furono bruscamente interrotte dal terremoto del 1980, che ha lasciato il Real Albergo in condizioni precarie e in completo abbandono.
REAL FABBRICA DI PORCELLANA DI NAPOLI
Quando partì per la Spagna, nel 1759, Carlo di Borbone ordinò la distruzione di tutte le fornaci di Capodimonte e il trasporto al Buen Retiro di tutti gli strumenti e gli uomini della fabbrica, perché restasse sempre legata alla memoria del suo regno. Tuttavia, Ferdinando IV aprì nel 1771 una nuova manifattura a Portici, dopo un lungo lavoro per la ricerca delle materie e degli artigiani qualificati. Nel 1773, sotto la direzione amministrativa di Tommaso Perez, la fabbrica fu trasferita a ridosso del Palazzo Reale di Napoli. La produzione iniziale, con la direzione artistica di Francesco Celebrano, oscillava tra l'imitazione dei modelli carolini e di quelli di Sèvres. Una svolta stilistica si ebbe sotto la direzione amministrativa di Domenico Venuti, dal 1779. Egli affidò a Filippo Tagliolini (già attivo a Vienna e a Venezia) la direzione del modellato ed a Giacomo Milani la direzione delle pitture. Questi rinnovarono lo stile delle porcellane inserendovi motivi classici, ispirati dalle scoperte di Pompei ed Ercolano, paesaggi presi dal vero (contro i paesaggi d'invenzione dell'età carolina) e costumi tradizionali delle province del Regno. Altro merito del Venuti è nell'avere promosso la fondazione dell'Accademia del Nudo, per educare gli artisti al disegno e al modellato in relazione all'anatomia. Dunque la manifattura passò da un'organizzazione tradizionale, basata sul modello delle botteghe ovvero sull'apprendimento diretto del lavoro, ad un'organizzazione moderna, in cui fu introdotta la dimensione teorica dell'apprendimento.
Fra le opere maggiori di questo periodo citiamo il servizio ercolanese, inviato a Carlo III in Spagna, e il servizio etrusco, inviato a Giorgio III in Inghilterra. Lo stesso Venuti fu l'artefice del successo commerciale della fabbrica, che fu saccheggiata nei moti del 1799 e chiusa definitivamente nel 1806 dai Francesi.
REAL FABBRICA DEGLI ACCIAI
Il Cavalier Venuti fondò pure una manifattura di acciai (1782-1806), per la quale chiamò tre maestri acciaisti dalla Germania. Il re mostrò scarso interesse a questa produzione, tuttavia incentivò la formazione di apprendisti napoletani. Alcune armi di pregiata esecuzione testimoniano l'attività della fabbrica.
REAL COLONIA DI SAN LEUCIO
Carlo di Borbone era un grande estimatore delle stoffe francesi e sin dal 1742, si avvalse di un sarto parigino. Fu allora che il re promosse l'apertura di una fabbrica di sete in linea con la moda francese. La fabbrica, ubicata a San Carlo alle Mortelle, fu diretta dal francese Monsieur Trouillieur e dal piemontese Giovanni Gallan. La fabbrica ebbe vita breve, tuttavia non si spense l'interesse per la seta se nel 1757 Maria Amalia introdusse a Caserta l'allevamento dei bachi da seta. Da qui, nonché dalle ideologie libertarie diffuse da Antonio Genovesi ed accolte dal Tanucci nel 1769, discendono le premesse della colonia di San Leucio.
Nel 1776 Ferdinando IV fece ampliare il Belvedere di San Leucio ed aprì nella vaccheria una manifattura di veli di seta, affidata al torinese Francesco Bruetti. Nel 1786 ordinò la costruzione dei quartieri San Carlo e San Ferdinando ed installò i filatoi nel cortile del Belvedere. Alla fabbrica era annessa la scuola di formazione per i figli degli operai. Infine, nel 1789 fondò la Real Colonia di San Leucio, la cui legislazione attuava il principio secondo cui l'istruzione del popolo è indispensabile al progresso economico e civile di una nazione. La società fu sciolta nel 1862 dopo una lunga crisi.
Poco rimane della produzione iniziale di San Leucio, fra cui una pianeta col monogramma di Ferdinando, al Palazzo Reale di Napoli, ed alcuni tessuti della Fondazione Pagliara. Costante è l'ispirazione ai modelli francesi, dovuta anche all'impiego di maestri francesi. I prodotti erano venduti al pubblico attraverso due botteghe, l'una accanto alla fabbrica, l'altra a Napoli in Via Sedile di Porto (poi trasferita in Via Toledo).
NOTE
1
E. Catello, Cineserie e Turcherie nel '700 napoletano, Napoli 1992, pp. 19-27.
2
M. Ripa, Giornale (1705-1724), vol. I (1705-1711) a cura di M. Fatica, Napoli 1991;
Idem, Giornale (1705-1724), vol. II (1711-1716) a cura di M. Fatica, Napoli 1996;
Idem, Storia della fondazione della Congregazione e del Collegio dei Cinesi, rist. anast. 1983.
3
G. Fiengo, Modelli architettonici della raccolta vanvitelliana di Caserta, in "Luigi Vanvitelli 1773-1973", catalogo della mostra, Napoli 1973.
4
Biblioteca Palatina di Caserta, Epistolario vanvitelliano, lettera 370, 21 aprile 1756.
5
M. di Mauro, La fabbrica dei Granili e la Casina Cinese, in "Napoli Nobilissima", 2002, fascicolo V, pp. 215-222.
6
Cfr. Guido Donatone, Maiolica delle Due Sicilie, Napoli 1998, pp. 41-42.
7
A. Caròla-Perrotti, Capodimonte ieri e oggi, Napoli 1998, pp. 80-82.
8
Ibidem, pp. 86-90.
9
A. Mango, La macchina di pietra, Napoli 2001.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
A. Caròla Perrotti, Le reali manifatture borboniche, in "Storia del Mezzogiorno", Napoli 1991, vol. XI, pp. 649-695.
A. Gonzales Palacios, Le arti decorative e l'arredamento alla corte di Napoli, in "Civiltà del '700 a Napoli, catalogo della mostra", Firenze 1980, vol. II, pp. 76-95.
P. Giusti, Le arti decorative, in "Storia e civiltà della Campania, il Settecento", Napoli 1994, pp. 275-308.
A. Putaturo Murano, Il mobile napoletano del Settecento, Napoli 1977.
G. Donatone, La maiolica napoletana del '700, catalogo della mostra, Napoli 1981.
E. Catello, L'arte argentaria napoletana del XVIII secolo, in "Settecento napoletano", Napoli 1983.
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