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Velazquez a Capodimonte: riflessioni a margine di una mostra  
Marco di Mauro
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 2 Giugno 2005, n. 402
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Area Mostre

Non è facile giudicare una mostra di trenta capolavori, come quella di Velazquez al Museo di Capodimonte. Si tende a celebrare le opere esposte ed i record di affluenza, senza porre l'accento sulla qualità delle scelte operate dai curatori. Scelte che si rivelano molto acute nell'esposizione di opere eccellenti e poco note come la Rissa all'ambasciata di Spagna o il Ritratto di San Simone de Rojas. Non sempre calzanti, invece, sono gli accostamenti proposti dai curatori.

Il paragone tra il Geografo di Velazquez e quello di Ribera non aiuta, nonostante l'analogia del soggetto, a comprendere le relazioni intercorse tra i due maestri. Sarebbe stato più utile affiancare alla tela di Velazquez un'altra opera di Ribera: lo Storpio del Louvre, che presenta il medesimo sorriso beffardo, con le labbra socchiuse e gli occhi ammiccanti. Tale confronto avrebbe il supporto delle date: il Geografo di Velazquez fu ridipinto verso il 1640, lo Storpio di Ribera è appena posteriore. Molto più antico è il Geografo di Ribera, che José Milicua data al 1613-16 per la densità cromatica ed il tenebrismo caravaggesco.

Non è nostra intenzione negare l'influenza di Ribera sul giovane Velazquez, ma riteniamo che il Geografo di Ribera avrebbe trovato una più giusta collocazione tra l'Acquaiolo e la Vecchia che frigge le uova, i capolavori sivigliani di Velazquez. Allora il giovane pittore guardava al Ribera come modello. Il rapporto tra i due maestri, secondo Pérez Sanchez, si sarebbe ribaltato nel 1630, data del supposto incontro a Napoli. Dopo quella data, infatti, Ribera avvia un processo di rischiaramento delle tinte in senso neoveneto, come quello intrapreso a Roma da Velazquez.

Ancora meno convincente è l'accostamento tra la Rissa all'ambasciata di Spagna di Velazquez e l'Elemosina di Santa Lucia di Aniello Falcone. L'opera del maestro napoletano, seppure pregevole, non regge il confronto con il capolavoro di Velazquez: non ha la forza espressiva e quel profondo senso di verità che ispira lo spagnolo. Il buon Aniello Falcone, che in altro contesto appare un artista colto e brillante, esce molto ridimensionato dal parallelo con Velazquez. Tuttavia, ciò che emerge dal confronto è la comune ispirazione alla corrente dei "Bamboccianti", che svilupparono un realismo dimesso e antiretorico, con minute descrizioni di vita popolare. L'interesse di Velazquez per questa declinazione plebea del naturalismo caravaggesco è testimoniato da un inventario romano del 1686, in cui si citano due «bambocciate di Velasco nel casino del Signor Contestabile».

L'esposizione della Rissa all'ambasciata di Spagna, conservata in collezione Pallavicini e resa nota dai saggi di Longhi e Zeri, rappresenta uno dei meriti maggiori della mostra di Capodimonte. L'attribuzione della Rissa a Velazquez risale a Roberto Longhi, che dimostrò i rapporti formali con altre due opere del maestro, dipinte a Roma nel 1630: la Fucina di Vulcano e la Tunica di Giuseppe. Fondamentale, per la conferma dell'attribuzione, fu il contributo di Federico Zeri, che rilevò la stringente affinità tra il personaggio che si tocca il cappello, nella Rissa all'ambasciata di Spagna, ed il ciclope di profilo nella Fucina di Vulcano.

Come la Rissa, anche il Ritratto morente di San Simone de Rojas proviene da una collezione privata ed è noto solo agli specialisti. Eppure è un'opera di qualità eccelsa, con il busto del Santo che fende le tenebre, illuminato da una luce radente che modella i volumi e definisce i contorni. L'espressione del volto, serena e composta, esprime la coscienza di aver raggiunto la comunione con Dio. Alla distensione del Santo si oppone la pietosa contorsione del crocifisso, posato sul suo petto in segno di fede. La tela può datarsi intorno al 1625, al tempo del secondo soggiorno a Madrid.

Altra opera eccellente che per la prima volta sbarca a Napoli è l'intenso Ritratto del buffone Calabacillas, offerto in prestito dal Museo del Prado. Il maestro spagnolo riesce a rendere la profonda umanità del buffone di corte, con un velo di malinconia che traspare dal tenero sorriso, dagli occhi strabici, dal gesto della mano destra che forse impugna una moneta. È una figura palpitante di vita, definita da pennellate lievi che fanno scomparire i contorni, sullo sfondo di una stanza buia e disadorna. Fanno da compagnia al buffone una borraccia dorata, un bicchiere di vino ed una zucca, che nasconde una bottiglia dipinta in precedenza. Sull'interpretazione del ritratto si è soffermata di recente Manuela Mena Marqués, che nel sorriso ambiguo e nell'oscuro gesto delle mani propone di leggere un'allegoria.





 
 

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