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American Beauty [1]  
Eleonora Rovida
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 1 Settembre 2010, n. 571
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Area Artisti

Un labirinto di “ephemeras”

La “nave carica di matti” [2] sbarcata in Usa ha portato con sé tanto del Vecchio Continente conservandone la storia, ma cercando di crearne una nuova. Il passato è sempre un punto di partenza, eco di memoria, impressione di identità indelebile.

La storia degli emigranti che inseguono il sogno americano insegna che l'oggetto è un portatore di cultura, reliquia e testimonianza. Nelle valigie, i viaggiatori hanno portato le chincaglierie del Vecchio Mondo, ephemeras della loro storia: sono oggetti banali, decorativi, di gusto discutibile, ma hanno, per i loro possessori, una valenza densa di significato. Le minutiae sono trattate come rarità preziose. Profumano di lontananza e nostalgia, note colorate che ne autenticano il valore. Il ricordo è il loro prezzo.

Il romanticismo dell'oggetto è stato abbandonato dai discendenti degli emigranti che, ormai americani, hanno lasciato alla mercé dei rigattieri la memoria del passato. Le vie secondarie delle metropoli sono costellate di botteghe di rivenditori che, con quella moltitudine di cianfrusaglie, hanno allestito un bazar per “cacciatori di immagini” [3] alla ricerca dell'estetica del rottame.

Tutto quello che la grande città ha voluto dimenticare ha formato una discarica di piacere per collezionisti che hanno fatto della pratica del riciclo un'opera d'arte: “là c’è tutto quello che gli emigranti hanno portato nelle loro valigie e nei fagotti fin su queste sponde, e che i loro discendenti hanno buttato via con la spazzatura” [4] .

La “poesia dell’oggetto trovato” [5] sta proprio in questo atteggiamento: prendere un oggetto che ha perso ogni sua funzione, abbandonato per mancanza di utilità, e inserirlo in un’opera d’arte come materiale di reimpiego o rivalutarlo come opera. Questo concetto di riuso riporta tanto al ready-made duchampiano quanto all’idea stessa di museo: gli oggetti, sepolti sotto le macerie di una civiltà perduta, vengono prelevati dal punto in cui sono stati trovati e dal loro contesto d'origine per diventare opere esposte all’interno di una teca.

L'idea dell'arte in vetrina ricorda inevitabilmente Joseph Cornell: l’analogia con le Shadow Boxes è immediata proprio per l’aspetto di riqualificazione dell’oggetto ormai inutile ad opera d’arte. L'artista va “alla ricerca del perduto e del bello” [6] assemblando i relitti trovati in una composizione che echeggia della poesia di Rimbaud: “Poesia: tre scarpe spaiate all’ingresso di un vicolo oscuro” [7] .

L'opera si presenta come piccolo monumento funerario alla memoria. Ė proprio dalla memoria, dal ricordo, dal passato, dall'esperienza e quindi dalla vita stessa che nasce il rapporto dell’artista con l’esistenza: “la necessità profonda che spinse Cornell a passare dalla seconda alla terza dimensione era una necessità poetica: la necessità di condurre le immagini, tramite la fantasia, in un campo più vicino alla realtà della vita” [8] .

Quelle minutiae assumono il ruolo di ponte tra due mondi: “cose rinvenute, creazioni casuali, confezioni (articoli prodotti in serie che vengono promossi a oggetti d’arte) aboliscono la separazione tra arte e vita. La banalità è un miracolo se vista nel modo giusto, se riconosciuta” [9] .

L’atteggiamento dell’artista è analogo a quello del collezionista: “affascinato dai rottami e dai relitti delle nostre vite – legni trovati sulla battigia, ramoscelli secchi, francobolli, lustrini e pipe di terracotta- egli conservava questi preziosi articoli con la stessa cura con cui un collezionista protegge la sua raccolta” [10] .  Questa idea porta direttamente alla camera delle meraviglie: “nel suo laboratorio seminterrato egli (Cornell) era come l’Elettore di Sassonia nella sua Wunderkammer o come un collezionista nel suo cabinet de curiosités [11] .

La vecchia vocazione collezionistica che aveva riempito le raccolte europee di oggetti esotici e bizzarrie diventa, nell'arte contemporanea, una pratica di riciclo: è il fascino del frammento che rispecchia la realtà urbana, il vero serbatoio di immagini per l'artista. “La città è un’immensa macchina di immagini” [12] .

Il contesto urbano, per la sua frammentazione, accumulo e raccolta di oggetti disparati è il luogo d’incontro tra realtà diverse: “la città è il luogo dove gli opposti più improbabili si incontrano, il luogo dove le nostre separate intuizioni per un attimo convergono.. La città è un labirinto di analogie, una foresta simbolista di corrispondenze” [13] .

Il poeta diventa uno straccivendolo alla ricerca dell’arte: “Tutto ciò che la grande città ha gettato via, tutto ciò che ha perso, tutto ciò che ha disprezzato, tutto ciò che ha schiacciato sotto i suoi piedi, egli lo cataloga e lo raccoglie.. Egli classifica le cose e sceglie con accortezza; egli accumula, come un avaro che custodisce un tesoro, i rifiuti che assumeranno la forma degli oggetti utili o gratificanti tra le fauci della dea industria” [14] .

La metafora rimanda a una visione prettamente fotografica: Susan Sontag, commentando le considerazioni di Benjamin sulla fotografia (in particolare della fotografia di Atget), ricorda: “nella particolarità che questo fotografo ebbe nel prediligere il ciarpame, i rifiuti, il kitsch, si dimostra come la fotografia realizzi l’imperativo surrealista di adottare un atteggiamento egualitario di fronte a un qualsiasi oggetto”
[15] .

Il fotografo si comporta come un collezionista del refuse: “come un collezionista del ciarpame, come un avaro che custodisca un tesoro di rifiuti, il fotografo è uno straccivendolo surrealista, che trasforma la rovina urbana in opera d’arte” [16] .

Questa prerogativa non è solo fotografica, ma anche cinematografica: negli anni Trenta la città, deposito per eccellenza di immagini a cui attingono gli artisti, diventa funzionale al cinema. Il potere di questa straordinaria “scatola magica” permette, attraverso le inquadrature, di realizzare un cut-up dell'immagine della realtà e di trasporlo in una spazio totalmente diverso, quello della pellicola.

La cinematografia degli anni Trenta evidenzia la riqualificazione dell’immagine della città attraverso l’inquadratura: “il cinema permette di ritagliare lo spazio urbano mutandone l’aspetto semantico” [17] . La città diventa la vera rete concettuale su cui si fonda il cinema degli anni Trenta. Non è un caso, quindi, che gli artisti comincino a cimentarsi nelle sperimentazioni cinematografiche proprio in questo periodo. Queste testimonianze portano a pensare che tutto il clima artistico favorisca la nascita del Found Footage, una tecnica che consiste nell'assemblare, attaccare e cucire in un collage filmico le “pellicole trovate”. Il risultato finale è un accumulo di elementi preesistenti proprio come una Shadow Box. L'invenzione della tecnica è attribuita proprio a Joseph Cornell che, con la realizzazione di Rose Hobart nel 1936, ha dato inizio ad un genere che è alla base di molte sperimentazioni contemporanee che giocano sulla stratificazione semantica.

Il cinema sembra cimentarsi in una nuova spazialità: “il discorso cinematografico si sovrappone allo spazio architettonico generando nuovi campi semantici; si tratta, quindi, di un’azione di accumulo di significati” [18] . La scatola magica, quel capolavoro illusionistico che è la cinepresa, è sottoposta ad un’intensa rete di scambi concettuali con le nuove opere provenienti dal mondo dell’arte.

Il video diventerà lo strumento ideale per la realizzazione dell'accumulo di elementi disparati: le riprese prelevano le immagini che si associano e si rispondono in un unico tavolo da gioco. L'idea trova piena realizzazione tanto nel campo televisivo con Blob, quanto nella rete attraverso i video caricati su YouTube, ma anche nell'arte attraverso Compilation Film, Vj Performance e Mockumentary.

Credo che la migliore espressione cinematografica di questa pratica di riciclo, tanto nella tecnica quanto nei contenuti, sia American Beauty, un film che scopre nell'incanto del rifiuto la vera bellezza.

 

Look closer

American Beauty è un film del 1999 di Sam Mendes, scritto da Alan Ball e vincitore di cinque premi Oscar.

E' uno scorcio di vita americana sui Burnham, una famiglia media con le sue problematiche. Lester è un uomo di mezza età con un lavoro d'ufficio che rende la sua vita una routine senza crescita; Carolyn è una donna in carriera che tenta invano di competere con un colosso immobiliare; Jane è una teenager come tante, studentessa e cheerleader. La quotidianità viene sconvolta da due personaggi: Angela, un'amica di Jane (una moderna Lolita) e Ricky, il vicino di casa appena arrivato in città che indaga la vita attraverso la sua videocamera.

Ricky è il motore della scoperta: è il fulcro della ricerca che porta i personaggi a incontrare e a (ri) conoscere la vera bellezza.

Il trailer americano di presentazione del film è celebre per il motto look closer, un tag-line che delinea da subito il potere della ripresa come indagine. You see a street like any street, look closer. You see a man who's hardly there. Look closer. Look closer. Look closer. Work, Family, Neighbors. Change. This Fall.. Beauty. Beauty. American Beauty”.

L'invito porta lo spettatore a “guardare da vicino”, a superare la superficialità della visione.

Le riprese filmiche costituiscono l'apparenza mentre i video girati da Ricky sono il disvelamento del reale, un'illuminazione sulla banalità che rivela la vera bellezza secondo una visione che echeggia della poetica della meraviglia.

Nel film vengono inseriti, come in un Found Footage, i video girati dal ragazzo che si alternano alle riprese del regista. Il doppio piano crea un contrasto tra le due visioni: la differenza tra la qualità del video rispetto alla macchina da presa è evidente. La cesura viene sottolineata anche dall'audio che lascia sentire l'avviso dello spegnimento della videocamera.

I video di Ricky sono amatoriali, home made. Il carattere imperfetto delle riprese segue i contenuti filmati, ma anche la pratica stessa del Found Footage, nato probabilmente dalla necessità di riparare le vecchie pellicole. Cornell aveva una grande collezione di vecchi film: quando crea il primo Found Footage, Rose Hobart, lascia intravedere gli attacchi che svelano il salto da una pellicola all'altra. Il carattere home made attraversa tutta l'esperienza artistica di Joseph Cornell e rende la sua arte non solo una scelta estetica, ma eco di un filtro personale di chi la crea.

I video di Ricky sono catalogati: la stanza del ragazzo è un archivio perfettamente etichettato. Sono documentari d'indagine sulla bellezza trattati come preziosità di un collezionista. La precisione rende il materiale una classificazione che rimanda tanto alla cantina di Utopia Parkway, covo di Joseph Cornell, quanto alla parete di Jonathan in Ogni Cosa è illuminata [19] . Ricky, come Jonathan, guarda il mondo dai suoi occhi azzurri attraverso un vetro che gli permette di creare una “magnificazione” [20] del reale con una lente tanto ingannevole quanto rivelatoria: se Ricky vede dalla sua videocamera, Jonathan scopre attraverso i suoi occhiali spessi, protesi del miope-mistico alla Magrelli [21] . Jonathan analizza una vecchia fotografia ingiallita lasciatagli dal nonno attraverso una lente di ingrandimento rendendo la sua curiosità una pratica investigativa. Allo stesso modo Ricky si “avvicina” alle immagini attraverso lo zoom: look closer.

L'invito a “guardare da vicino” appartiene alle Shadow Boxes di Joseph Cornell che inducono lo spettatore ad avvicinarsi e ad osservare attraverso il vetro il contenuto delle scatole come se fossero case di bambola.

La vena collezionistica rispecchia tanto l'arte di Cornell quanto la ricerca dei due ragazzi: Ricky è un cercatore di frammenti che rivelino la bellezza, Jonathan è un catalogatore di oggetti di famiglia. Il trait d'union è la poetica della meraviglia che filtra il banale rendendolo un piccolo miracolo del quotidiano attraverso una scelta tutta personale dell'artista, proprio come nelle opere di Joseph Cornell.

Lo sguardo di Ricky si mischia alla ripresa della videocamera che indaga la realtà quasi violandola. Jane, costantemente filmata da Ricky, si sente spogliata e visibile nel profondo scambiando il vicino per un pazzo ossessivo. Ricky manifesta con la sua passione l'anima della sua ricerca: “Non sono ossessionato. Sono solo curioso”. Il fraintendimento è ben noto nell'esperienza di Cornell quando fissa a lungo una ragazza e viene scambiato per una specie di maniaco.

L'obiettivo, come protesi dello sguardo, costituisce uno strumento di indagine voyeuristica tanto per la macchina cinematografica quanto per quella fotografica. Cornell si identifica con un fotografo in Monsieur Phot, un soggetto cinematografico del 1933: la sua percezione è vicinissima a quella di un apparecchio fotografico per catturare la realtà e interpretarla. La visione è quella di un ladro di immagini che gioca al furto di segreti proprio come insegna Bressaï: “noi fotografi siamo una genia di bricconi, di guardoni e di ladri. Ci troviamo ovunque non siamo desiderati; tradiamo segreti che nessuno ci confida; spiamo senza vergogna ciò che non ci riguarda e ci appropriamo di cose che non ci appartengono. E, a lungo andare, ci ritroviamo possessori delle ricchezze di un mondo che abbiamo depredato” [22] .

I video di Ricky rivelano l'American Beauty che non appartiene ad un'immagine (ripresa-oggetto) qualitativamente alta, ma al più impensabile degli ephemeras che può essere la carcassa di un piccione o un sacchetto di plastica abbandonato sul ciglio della strada. La vita, la morte, il ricordo, l'effimero si intrecciano nei video di Ricky, viaggiatore solitario proprio come Cornell.

La videocamera è lo strumento di indagine e di collezione mnemonica. La strada è il luogo principe della rivelazione: il cacciatore ruba un ritaglio visivo della realtà e la trasforma in arte.

Il sacchetto di plastica è oggetto da discarica, ma per Ricky è la cosa più bella che abbia mai filmato e che mostra a Jane per rivelare se stesso. “Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... Mi segui ? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita dietro ogni cosa. E una..incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta... bellezza... nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare”.

Il quotidiano filmato da Ricky è praticamente spazzatura: il rifiuto, nella lingua francese, si traduce come rebut. Come concetto di rifiuto, il termine è esprimibile con refus che riporta alla mente refusé e inevitabilmente il Salon des refusés. Refusé indica “rifiutato” come “negato”. Una delle frasi più conosciute del film pronunciata da Ricky è “mai sottovalutare il potere della negazione”.

In inglese refuse funziona in modo analogo: to refuse indica “rifiutare”; refuse come sostantivo traduce il rifiuto/i rifiuti nel senso di accumulo. La “raccolta di rifiuti” si traduce come refuse collection: la terminologia echeggia di “collezione”.  Non a caso Jonathan, in Ogni cosa è illuminata, classifica la collezione di oggetti di famiglia imbustando i “reperti” in piccoli sacchetti del freezer congelandone la memoria.

La videocamera di Ricky diventa un gioco di scoperta, strumento irrinunciabile per guardare da vicino la realtà delle cose e vederne la meraviglia traducendo l'effimero in magia. L'obiettivo-lente è lo specchio attraverso cui scoprire e dare valore al banale. L'apparecchiatura di Ricky è collegata ad un televisore che mostra le riprese creando un secondo piano della visione per lo spettatore: è una finestra sul mondo con un filtro che è una questione tutta personale del moviemaker.

La nuova concezione del quotidiano permette ai personaggi della storia non solo di scoprire l'American Beauty, ma di realizzare una riflessione sul significato stesso dell'esistenza.

Il monologo finale di Lester è una sfida al tempo che e rende l'ultimo istante della sua vita un lungo sospiro di eternità, una collezione di ricordi, immagini, flash illuminanti che ripercorrono la vita stessa: “Ho sempre saputo che ti passa davanti agli occhi tutta la vita nell'istante prima di morire. Prima di tutto, quell'istante non è affatto un istante: si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu lo starmene sdraiato al campeggio dei boy scout a guardare le stelle cadenti; le foglie gialle, degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada; le mani di mia nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che da mio cugino Tony vidi la sua nuovissima Firebird. E Janie, e Janie... e Carolyn (....) è difficile restare arrabbiati quando c'è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l'avrete”.  

 

 

Bibliografia

 

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a cura di K. McShine, Museum of Modern Art 1980, New York, 1996², p. 69-79.

BRESSAÏ, Lewis Carroll Photographe ou L’autre côté du miroir , (trad ita. a cura di R. Rizzo, Lewis Carroll fotografo o l'altra faccia dello specchio), in R. Rizzo, “Lewis Carroll fotografo”, Milano 2009.

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A. SBRILLI, P. CASTELLI, Esplorazioni, estensioni, costellazioni. Aspetti della memoria in Joseph Cornell, “La Rivista di Engramma on line”, n. 70, marzo 2009, < www.engramma.it>.

C. SIMIC, J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005².

D. SOLOMON, Utopia Parkway: the life and work of Joseph Cornell, Boston 2004.

D. TASHJIAN, A Boatload of Madman, New York 1995.

D. WALDMAN, Joseph Cornell: Master of dreams, New York 2002.




NOTE

[1]      Ringrazio la prof. ssa Antonella Sbrilli per il tempo e l'interesse dedicati alle mie ricerche.

[2]      D. TASHJIAN, A Boatload of Madman, New York 1995.

[3]      C. SIMIC,  J CORNELL, Dime-Store Alchemy: The Art of Joseph Cornell, (tr. it. a cura di A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell) Milano 2005²

[4]      Ivi, p. 42.

[5]      Joseph Cornell, catalogo della mostra a cura di K. McShine, (Firenze 1981), Firenze 1981, p.11

[6]      SIMIC 2005², p.50

[7]      A. RIMBAUD, cit. in SIMIC 2005² , p. 49.

[8]      Joseph Cornell 1981, p.12

[9]       SIMIC 2005², pp. 44-45

[10]     Joseph Cornell 1981,  p.13

[11]     Ibidem

[12]     SIMIC 2005² , p. 59

[13]     Ivi, p. 33

[14]     S. SONTAG cit.  B. FÄSSLER, La fotografia come ready-made –il ready-made come fotografia, Seminario Spinacci, fotografia, < www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/leparole/duemilasei/Faessler06.pdf >

[15]     S. SONTAG cit P. CALEFATO, Camera lucida. Note sulla fotografia <http://tinyurl.com/33ztkmn >

[16]     Ibidem

[17]     A. LICATA, E. MARIANI TRAVI, La città e il cinema, Bari 1985 p. 10

[18]     Ibidem

[19]     J. S. FOER, Everything is illuminated, (tr. It a cura di M. Bocchiola, Ogni cosa è illuminata) Milano 2004²

[20]     In inglese “lente d'ingrandimento” di traduce come “magnifying glass

[21]     V. MAGRELLI, Ora serrata retinae, Milano 1980, Pea 37, “La miopia si fa quindi poesia, / dovendosi avvicinare al mondo per separarlo dalla luce.. l'unica cosa che si profila nitida / è la prodigiosa difficoltà della visione”.

[22]     BRESSAÏ, Lewis Carroll Photographe ou L’autre côté du miroir , (trad ita. a cura di R. Rizzo, Lewis Carroll fotografo o l'altra faccia dello specchio), in R. Rizzo,Lewis Carroll fotografo”, Milano 2009, p. 20








 

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