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Amate l’Architettura di Gio Ponti. Un libro per gli incantati dall’architettura  

Bibiana Borzì
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 31 Luglio 2017, n. 847
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Area Architettura

L’Italia l’han fatta metà Iddio e metà gli architetti.

Gio Ponti

 

È il 1957, l’architetto Gio Ponti, all’apice della sua carriera, pubblica un volume che già dalla copertina racchiude il suo linguaggio, la sua ironia, il suo mondo intriso di architetture, grandi e piccole: Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo. Il titolo suona come un monito, un’avvertenza sussurrata con grazia ed eleganza, nello stile di Ponti. Il libro infatti non vuole essere un trattato di architettura e non è destinato, secondo le intenzioni dell’autore, ad un pubblico di addetti ai lavori. È piuttosto un prezioso ideario, una piccola architettura da tasca, con pagine colorate, foto, disegni, paragrafi, che seguono i voli pindarici del pensiero pontiano. Idee, ripetizioni, contradizioni: questo libro le racchiude tutte, «perché un uomo, un Architetto, dopo dieci anni è un altro uomo, un altro Architetto» [1] , così questo libro appare diverso dal precedente L’Architettura è un cristallo (1945). Scorrendo le pagine il lettore si troverà di fronte a profezie per gli architetti, maturazioni personali, fantasia di precisioni, incanto dell’architettura, donne e architettura, solo per citare alcuni dei capitoli, o meglio dei pensieri in libertà, contenuti nel volume. E nonostante la parola architettura ricorra spessissimo, e per ovvie ragioni, l’autore sottolinea che non si tratta di un libro architettato, ma piuttosto di una collezione di idee, fatto come un dipinto, «a riprese a ritocchi, a particolari» [2] ed «in parte scritto per aforismi: desiderio di isolare i pensieri ed esprimerli brevemente» [3] . Un libro così può nascere solo da un innamorato dell’architettura, quale fu Ponti, ed essere dedicato agli amanti dell’architettura, a chi sogna l’architettura. Un tributo all’arte - perché per l’autore l’architettura è arte - che nella fase zenitale del percorso pontiano si trasforma in un diario nel quale raccogliere esperienze e posizioni maturate nel tempo.

Architetto, artista, designer, art director, teorico, Ponti è stato tutto questo e molto altro ancora. Con lui, e grazie a lui, si inaugura la florida stagione nel made in Italy, promossa da riviste come «Domus» e «Stile» (che ha egregiamente diretto), cavalli di battaglia nella diffusione del design e del linguaggio architettonico moderno. In tempi non sospetti, la scommessa dell’architetto consiste nel rilanciare l’industria italiana investendo sulle risorse manifatturiere presenti nel territorio: non bastava puntare sulla qualità del prodotto, era piuttosto un problema di linguaggio. Siamo negli anni Venti, la produzione è fortemente ancorata a schemi del passato, a stili e modelli regionalistici, ma Ponti è lontano anni luce da questa visione. Nel 1923 diventa direttore artistico della Richard Ginori, inizia a sperimentare l’importanza del disegno, della funzione, della comunicazione, in una parola del design. L’architetto è chiamato a progettare tutto: spazi pubblici e domestici, arredi, oggetti quotidiani, fino ai biglietti d’auguri. La sua è una lezione onnicomprensiva che mette a nudo la complessità del ruolo dell’architetto nella società contemporanea, uno dei temi portanti del volume pontiano, sorprendentemente moderno nell’impostazione ed ancora attuale nei contenuti.  Dalle pagine del suo libro Ponti lancia una sfida: amate gli architetti ma siate esigenti con loro, richiamateli sempre alla loro responsabilità. Esigete da loro «case felici e perfette» [4] , «scuole e istituti bellissimi» [5] , «teatri e cinematografi stupendi» [6] , «biblioteche perfette» [7] , «musei pieni di vita» [8] , «auditori meravigliosi per la musica» [9] , «chiese protettrici della preghiera» [10] , «felici giardini» [11] , «aeroporti e stazioni perfetti» [12] . Ma soprattutto «esigete da loro, sempre, una architettura piena di simpatia umana, piena di immaginazione, nitida, essenziale, pura: pura come un cristallo». [13]

Per Ponti l’architettura moderna ha una vocazione sociale perché diversamente dal passato non è più espressione monumentale e celebrativa legata alla committenza o succube dell’autorità politica. L’architetto è finalmente libero di esprimere posizioni, inclinazioni, volontà personali, portando avanti il rapporto esclusivo architettura-destinazione, ben diverso da quello committente-architetto (legato al passato). Certo, sostiene Ponti, «è ben vero che un rapporto di destinazione è sempre esistito nell’architettura, ma esso era determinato dal committente; oggi invece è l’Architetto stesso che lo assume come determinatore della propria opera, e non vuole obbedire che ad esso» [14] . L’architettura, dunque, è essa stessa determinatrice di una civiltà ed in questa direzione «gli scritti di architettura di Le Corbusier sono programmi sociali veri e propri: quando egli dice, come condizione dell’architettura che a ciascun uomo va dato tanto di sole, d’aria, di spazio, d’acqua, egli fa politica, politica sociale, politica dell’architettura». [15]

L’architetto è il vero e solo protagonista della propria opera, ma il suo compito è tutt’altro che concluso. Infatti l’architettura secondo Ponti non si limita al semplice costruire. L’argomento è spinoso e riguarda una querelle per certi aspetti attuale, quella fra architettura ed ingegneria. Ponti la affronta senza mezzi termini, senza spirito di erudizione, grazie ad una sintassi chiara e semplice, leitmotiv del suo volume.

 

[…] Gli ingegneri costruiscono benissimo ma operano solo nello spazio, e interessatamente: però la vera costruzione in tutti i campi è quella architettata: opera nel tempo, con un principio e un fine astratti, disinteressati, e con una «perpetuità» di espressione; gli architetti costruiscono «nel tempo», nella cultura; è allora opera d’arte costruita per sempre: diverso il destino della tecnica: scompare perché è progressiva, e si consuma nell’uso: l’Architettura resta perché è arte e va oltre l’uso. [16]  

 

Dichiarare l’architettura eterna perché costruita per durare nei secoli vuol dire elevarla ad opera d’arte, quindi non soggetta al giudizio e all’incedere del tempo, destino riservato alla tecnologia. Già nel 1923, Le Corbusier nel suo Verso una architettura si era soffermato sul rapporto fra ingegneria e architettura, con queste considerazioni:

 

Estetica dell’Ingegnere, Architettura, due cose solidali, conseguenti, l’una in piena fioritura, l’altra in penoso regresso. L’ingegnere, ispirato dalla legge dell’Economia e guidato dal calcolo, ci mette in comunicazione con l’universo. Raggiunge l’armonia. L’architetto, organizzando le forme, realizza un ordine che è pura creazione della sua mente; attraverso le forme, colpisce con intensità i sensi, e, provocando emozioni plastiche attraverso i rapporti che egli crea, risveglia in noi risonanze profonde, ci dà misura di un ordine partecipe dell’ordinamento universale, determina movimenti diversi del nostro spirito e del nostro cuore; è qui che avvertiamo la bellezza. [17]

 

Un ennesimo tributo all’architettura quello reso dall’architetto svizzero, che Ponti cita nel suo volume come un maestro, al pari di Mies van der Rohe, Gropius, Nervi, invitando i lettori a conoscere le opere dei grandi architetti ed a leggere i loro libri. Se per l’architetto Jeanneret-Gris le opere degli ingegneri sono sul cammino della grande arte, Ponti è fermamente convinto che l’arte, dunque l’architettura, non è, e non potrà mai essere né progressiva né in mano agli ingegneri.

 

La macchina è progressiva, nel trasformarsi ogni macchina è migliore della precedente. E poi è figlia della meccanica, si muove per essere, per servire. L’architettura è figlia di un sogno: come i sogni non si muove: i sogni sono fermi e vaniscono: l’architettura sta; ha una sua vita statica, anzi estatica; ha una sua vita, una «esistenza architettonica». Non è progressiva, lo ripeterò mille volte, ogni architettura è solo diversa dalla precedente. [18]

 

A conferma della sua tesi Ponti aggiunge che una costruzione costituita dalla ripetizione orizzontale e verticale di elementi uguali non possiede una dimensione architettonica, cioè di composizione, di forma finita, ma è piuttosto puro ritmo, ripetuto, ripetibile, prolungabile per aggiunte successive. Una simile costruzione non può essere considerata architettura/opera d’arte, ma appartiene semmai all’ingegneria, per sua natura eclettica, «ardua e bellissima disciplina» [19] che crea opere basate sulla tecnica, dunque ripetibili e moltiplicabili, superandosi continuamente.

 

L’Architettura invece essendo un’Arte, non è progressiva e tende a creare solo delle unità perpetue, delle espressioni a s´ stanti, irripetibili. […] Fa subito ridere il pensare ad un «progresso dell’Architettura»; come fa ridere il pensare ad un progresso della musica, della pittura, della poesia: il Partenone è il Partenone, e il Battistero di Pisa è il Battistero di Pisa, e la Rotonda è la Rotonda. V’è una «storia» della pittura, della musica, della poesia, non v’è un progresso della pittura, della musica, della poesia. [20]

 

Le riflessioni pontiane convergono nel pensiero di Max Weber, convinto sostenitore dell’arte svincolata dal progresso. Il filosofo tedesco riconosce all’opera d’arte lo status di forma perfetta e compiuta, come tale dunque non è mai sorpassata, non invecchierà mai. Ben altro destino attende invece la ricerca scientifica (e per esteso la tecnologia) che giunge sempre a soluzioni momentanee, provvisorie, poiché «in campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci anni, venti o al massimo cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato». [21] A conferma della vicinanza con le tesi weberiane Ponti scrive:

 

L’Ingegneria crea prototipi, l’Architettura crea monotipi. È umoristico pensare ad una automobile non riproducibile, ad un ponte ad arcate che non si possa ripetere o allungare. È altrettanto umoristico pensare che la «casa sulla cascata» o la Rotonda siano «da riproduzione». Un ponte può essere vecchio e superato; ma nessuno pensa che il Partenone, o la Rotonda, siano vecchi, siano superati: essendo fatti d’arte rimangono fatti «permanenti», in essi entra un fattore di «perpetuità» (quel termine di Palladio) una unicità che esclude ogni progresso. [22]

 

Nelle parole di Ponti riecheggiano quelle di Le Corbusier:

 

Le Piramidi, le Torri di Babilonia, le Porte di Samarcanda, il Partenone, il Colosseo, il Pantheon, il Pont du Gard, Santa Sofia di Costantinopoli, le moschee di Istanbul, la Torre di Pisa, le cupole di Brunelleschi e di Michelangelo, il Pont-Royal, gli Invalides, sono architettura. [23]

 

Per l’architetto svizzero l’architettura è gioco sapiente, rigoroso, magnifico, dei volumi assemblati nella luce, ma soprattutto è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione e prescinde dai problemi di costruzione, perché «la Costruzione è per tenere su: l’Architettura è per commuovere» [24] . Questo assunto ribadisce l’affinità di pensiero fra i due maestri: Le Corbusier e Ponti. Se l’architettura produce opere finite e permanenti, il ruolo dell’architetto va ben oltre quello di semplice esecutore. Ponti attribuisce alla sua professione un impegno ed una responsabilità etica, o meglio estetica: l’architetto è un educatore del gusto e le sue opere, siano esse pubbliche o private, contribuiscono in maniera determinante all’estetica della città:

 

L’edilizia non è un atto privato e transitorio ma è un atto pubblico che corrisponde ad un decoro pubblico e durevole, e ad una estetica: le facciate sono le pareti della strada e della piazza, non debbono perciò essere lasciate all’arbitrio, al capriccio, alla ignoranza ed al cattivo gusto: l’edilizia privata va intesa come un contributo nell’ordine dell’estetica della città. [25]

 

Educare al bello, partecipare all’estetica quotidiana, rientrano a pieno titolo fra i compiti dell’architetto, sempre più gravato da doveri di natura intellettuale e sociale, perché, è bene ribadirlo, nella riflessione pontiana l’architettura ha una sostanza, una funzione, una destinazione meramente sociale. L’architetto, tuttavia, non deve violare il confine dell’intimità domestica, il suo compito, infatti, si esaurisce nell’indirizzare e nel guidare il fruitore.

 

La casa deve avere una personalità sul piano della civiltà di chi la abita: l’architetto deve istituire i servizi e i mobili infissi (cucina, armadi, ecc…) il resto è di pertinenza dell’abitatore, e gli architetti devono influire solo sul gusto, sulla civiltà e sulla educazione nell’abitare: essi debbono invece influire sulla «produzione» d’arredamento, non realizzare essi stessi tutto l’arredamento: sul piano dell’esattezza dell’opera dell’architetto la casa deve essere una «machine à habiter», su quello invece dell’abitare essa deve essere la sua casa. [26]

 

La citazione lecorbuseriana di machine à habiter suona come ulteriore omaggio nei confronti del collega svizzero e conferma l’affinità intellettuale fra i due architetti. E se Le Corbusier nel suo Verso un’architettura fornisce un vero e proprio Manuale dell’abitazione, per «distribuirlo alle madri di famiglia ed esigere le dimissioni dei professori dell’Ecole des Beaux-Arts» [27] , Ponti non è da meno. Nelle pagine del suo colorato volume offre al lettore tesi e consigli sull’abitare, sotto forma di pensieri sparsi. L’architetto propone una casa semplice, poco costosa, areata, luminosa, costruita con materiali durevoli. Quanto all’arredo «deve partecipare al massimo all’architettura ed alla economia della casa, come ne partecipano ora i servizi: ciò che appartiene veramente all’inquilino e che egli si porterà con sé saranno i libri e le opere d’arte e l’arredamento propriamente mobile e personale di consumo: egli non deve traslocare con gli armadi e i servizi» [28] .  Perfettamente in linea con il pensiero di Le Corbusier: «esigete muri nudi in camera da letto, nel soggiorno, nella sala da pranzo. Degli scomparti nei muri sostituiranno i mobili che costano cari, divorano spazio e hanno bisogno di essere spolverati». [29]

Fig. 1 - Superleggera di Gio Ponti (1952), installazione realizzata in occasione del Salone Internazionale del Mobile 2013, Milano, 9-14 Aprile 2013, presso Show-room Cassina, Via Durini, Milano (foto di Bibiana Borzì, cortesia della stessa)


Del resto, i due maestri si sono distinti, anche nel design, per un criterio progettuale all’insegna della purezza e del rigore formale. La sedia Superleggera, firmata da Ponti nel 1952 per Cassina, è un’icona senza tempo, caratterizzata da una estrema leggerezza, materiale e visiva. Nasce per arredare gli interni pontiani, per essere spostata e sollevata con un dito (come nella celebre réclame con il bambino che solleva la sedia) nei diversi ambienti della casa. È la “sedia-sedia”, così la definisce l’architetto, che riprende volutamente l’archetipo della seduta impagliata, la “chiavarina”, tipica dell’artigianato ligure. Un oggetto ispirato alla tradizione ma rivisitato in chiave contemporanea, pensato per i nuovi spazi domestici, sempre più ridotti e multifunzionali. La Superleggera, oggi esposta nei più celebri musei di design, ha accompagnato la rinascita economica e culturale dell’Italia del dopoguerra, divenendo emblema di quel “vivere alla Ponti” simpaticamente raccontato dalle figlie Lisa e Letizia. Così, l’abitazione milanese in via Dezza (ultima residenza di Ponti) è una sorta di casa-manifesto: accoglie spesso artisti, poeti, scrittori, è piena di colore e di luce, lontana dagli austeri e cupi interni borghesi. È una casa progettata per rendere felici i suoi abitatori, perché è compito dell’architetto interpretare e comprendere ogni committente, cucire su misura per lui non una casa-vetrina ma una casa da abitare che, come nel pensiero heideggeriano, è il fine di ogni costruire.

Amate l’Architettura, architetti di oggi e di domani, senza trascurare risvolti etici ed “emozionali” della professione, perché:

 

La massima lode alla quale un architetto deve aspirare è che gli abitatori gli dicano: Architetto, in questa casa che lei ha fatto per noi, noi viviamo (o abbiamo vissuto) felici: essa ci è cara. Essa è un episodio felice della nostra vita. Ma perché ciò avvenga occorre che l’Architetto badi più agli abitatori che all’estetica, e raggiungerà solo così un’estetica di valori sicuri, espressi da forme giuste, un’estetica di forme indiscutibili, vere: umane. [30]





NOTE

[1] Gio Ponti, Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, Milano, Rizzoli, 2010, Terza ristampa integrale, p. XI. (Prima ed., Genova, 1957, Società Editrice Vitali e Ghianda)

[2] Ivi, p. VIII.

[3] Ibidem.

[4] Gio Ponti, Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 6

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 8.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p.18.

[15] Ivi, p. 23.

[16] Ivi, p. 13.

[17] Le Corbusier, Verso una architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Milano, Longanesi, 2012, p. XXXVI.

[18] Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 44.

[19] Ivi, p. 59.

[20] Ivi, p. 60.

[21] Max Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; trad. it. La scienza come professione, a cura di Paolo Volontè, Rusconi, Milano, 1997, p. 85.

[22]   Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 61.

[23] Verso una architettura, cit., p. 19.

[24] Ivi, p. 9.

[25] Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 26.

[26] Ibidem.

[27] Verso una architettura, cit., p. 95.

[28] Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 26.

[29] Verso una architettura, cit., p. 96.

[30] Amate l’architettura. L’architettura è un cristallo, cit., p. 113.




SCRITTI DI GIO PONTI

 

La casa all’italiana, Rozzano (Milano), Editoriale Domus, 1933.

 

L’Architettura è un cristallo, Milano, Editrice italiana, 1945.

 

Amate l’Architettura. L’architettura è un cristallo, Genova, 1957, Società Editrice Vitali e Ghianda (Terza ristampa integrale, Milano, Rizzoli, 2010).

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

Bojani, Piersanti, Rava 1987

Gio Ponti. Ceramica e architettura, a cura di Giancarlo Bojani, Claudio Piersanti, Rita Rava, catalogo della mostra tenuta a Faenza e Bologna, 1987, Firenze, Centro Di, 1987.

 

Chiesa 2012

Rosa Chiesa, Gio Ponti, Milano, Hachette, 2012.

 

Falconi 2004

Laura Falconi, Gio Ponti. Interni. Oggetti. Disegni 1920-1976, Milano, Electa, 2004.

 

Irace 1997

Fulvio Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Milano, Electa, 1997.

 

Irace 2011

Fulvio Irace, Gio Ponti, Milano, Il Sole 24 ore, 2011.

 

Irace, Leoni 2013

Gio Ponti, saggio e schede a cura di Fulvio Irace, Manuela Leoni, Milano, Fondazione dell’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori della Provincia di Milano, 2013.

 

Irace, Romanelli 1997

Gio Ponti, a cura di Fulvio Irace, Marco Romanelli, catalogo della mostra in occasione del Salone Internazionale del Mobile, 1997, Milano, Cosmit, 1997.

 

La Pietra 1988 a

Gio Ponti, a cura di Ugo La Pietra, Milano, Rizzoli, 1995.

 

La Pietra 1988 b

Ugo La Pietra, Gio Ponti. L’arte si innamora dell’industria, Milano, Coliseum, 1988.

 

Le Corbusier 1923

Le Corbusier, Vers une architecture, Parigi, Cres, 1923 (Ed. it., Verso una Architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolin, Milano, Longanesi, 2012).

 

Licitra Ponti 1990

Lisa Licitra Ponti, Gio Ponti. L’opera, prefazione di Germano Celant, Milano, Leonardo, 1990.

 

Matteoni 2011

Gio Ponti, il fascino della ceramica, a cura di Dario Matteoni, catalogo della mostra tenuta a Milano, 2011, Cinisello Balsamo, Silvana, 2011.

 

Mendini, 1980

Alessandro Mendini, Gio Ponti, in Il design italiano degli anni 50, a cura di Centro Kappa, Milano, Domus, 1980.

 

Portoghesi, Pansera 1982

Gio Ponti alla manifattura di Doccia, testi di Paolo Portoghesi e Anty Pansera, Milano, Sugarco Edizioni, 1982.

 

Roccella 2009

Graziella Roccella, Gio Ponti, 1891-1979: maestro della leggerezza, Hong Kong, Taschen, 2009.

 

Romanelli 2003

Gio Ponti: a world, a cura di Marco Romanelli, catalogo della mostra itinerante tenuta a Milano, Rotterdam, Londra, 2002-2003, Milano, Abitare Segesta, 2003.

 

Weber 1917

Max Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917 (Ed. it., La scienza come professione, a cura di Paolo Volontè, Rusconi, Milano, 1997).

 







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