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La cultura antiquariale di Athanasius Kircher ed i suoi interessi per il mondo egizio  

Alessia Ferraro
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 19 Settembre 2018, n. 854
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La nascita dell’interesse di Athanasius Kircher, illustre erudito e monaco gesuita, per il mondo egizio, e in particolare per la sua scrittura, è dovuta all’influenza di tre uomini che hanno giocato un ruolo fondamentale a tal scopo: Pietro della Valle, Nicolas Peiresc e il cardinale Francesco Barberini.

Il primo, di ritorno da un viaggio al Cairo, portò a Roma un vocabolario copto–arabo che Kircher tradusse. Nicolas Peiresc, invece, mise in contatto il gesuita con l’ambiente romano grazie alla sua amicizia con il cardinal Barberini, il quale gli affidò l’incarico di insegnante presso il Collegio Romano.

Partendo dalla traduzione di Kircher del geroglifico egizio, possiamo notare come questa si attenga esclusivamente al livello simbolico–formale e non a quello linguistico, per il quale dovremmo attendere Champollion circa due secoli più tardi.

La natura magica del simbolo egizio rispetto all’alfabeto normale, richiese dunque, per Kircher, un atteggiamento diverso da quello del traduttore che compila un vocabolario, quale è stato l’approccio moderno ai geroglifici, cercando un’attitudine più simile a quella dell’iniziato o del sapiente, che gli permettesse di penetrare i significati ermeticamente sigillati nei segni sacri.

Ciò che ottenne, però, rinviava continuamente ad altri sensi per cui il geroglifico, per Kircher, fu ogni segno che dava origine a uno slittamento continuo di senso. Questa linea interpretativa portò alla lettura dell’aspetto simbolico invece di quello semantico ma è oggi considerata di nessun rigore scientifico.

Ma nonostante l’aver adottato la via simbolica, lo studioso aprì una nuova era del geroglifico: diversamente dal periodo Rinascimentale in cui si teneva in scarsa considerazione l’aspetto documentario, egli studiò direttamente e fece ricopiare con cura i geroglifici reali, cercando, per quanto gli fu possibile, di riconoscere gli oggetti che essi rappresentavano.

Prima di lui Horapollo l’Egiziano si era occupato della decifrazione dell’ideogramma egizio, dando luogo a geroglifici veri ed altri inventati.

Il metodo che Kircher adottò prevedeva la scomposizione delle figure “geroglifiche” nelle loro parti costitutive.

Esemplificativo fu il procedimento con cui analizza lo scarabeo antropomorfo, che venne scandito in sei elementi “semplici” a ciascuno dei quali venne attribuito sia un senso anagogico, che uno mistico e magico.

Tale metodo non scomponeva la figura, bensì mostrava come un’immagine geroglifica sia una totalità complessa e polisemica il cui senso complessivo non coincideva con la somma delle parti perché il tutto era maggiore della somma delle sue parti[1].

Ma nonostante la decifrazione kircheriana non sia oggi riconosciuta come valida, non si può non riconoscere la precisione e la chiarezza delle sue trascrizioni che costituiscono un effettivo salto qualitativo rispetto alle riproduzioni del passato.

L’amore per l’Egitto di Athanasius Kircher coinvolse il mondo intellettuale e scientifico europeo a lui coevo, tant’è che venne riconosciuto come il padre fondatore dell’egittologia.

Nel 1635 gli venne affidato l’incarico di insegnare scienze matematiche presso il Collegio Romano dove nel 1651 fondò il Museo Kircheriano, una Wunderkammer pubblica di antichità e curiosità.

Qui lo studioso invitava i suoi studenti ad aprire gli orizzonti della loro immaginazione coinvolgendo tutti nei suoi esperimenti sulla luce ed il suono e allestiva spettacoli per spiegare il funzionamento delle sue macchine favolose.

Il Museo era espressione di un interesse universale ed enciclopedico.

Fig. 1: Collezione di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
Fig. 2: Collezione di strumenti astronomici provenienti dalla collezione di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.


I valori filosofici che il luogo voleva trasmettere erano espressi nei cinque ovali affrescati sul soffitto.

Nel primo è raffigurata una salamandra tra le fiamme, immagine di Kircher che induce i visitatori ad entrare senza paura tra le fiamme degli ardui studi.

Nel secondo ovale una rondine marina, un pesce volante imbalsamato, pendeva tra otto geni gonfi di vento.

La rondine è allo stesso tempo simbolo dell’unione di un elemento superiore e di uno inferiore (aria e acqua), una curiosità zoologica, un esperimento sul magnetismo e come se non bastasse serviva anche come anemometro per scoprire le infiltrazioni d’aria nel Museo.

Nel terzo ovale era raffigurato un portatore d’acqua intento a riversare il contenuto del suo vaso sulla terra, emblema della benefica diffusione delle scienze.

Il quarto mostrava un giovane che versava fiori da una cornucopia, figura dell’ingegno che svela i segreti della terra mentre nel quinto e ultimo ovale era raffigurato lo Zodiaco.

Passiamo ad osservare l’incisione raffigurante il Museo: come si vede ai cinque ovali corrispondono le cinque riproduzione degli obelischi che diventano uno schema di passaggio dall’Uno, cioè dal principio di conoscenza universale enunciato in ogni ovale, al molteplice, cioè alle varie scienze e arti allineate lungo le pareti di cui Kircher è l’uomo personificato[2].

Esemplari erano, quindi, i modelli lignei degli obelischi, che ancora oggi è possibile ammirare nel Collegio Romano divenuto sede del Liceo Luchino Visconti, e che il monaco gesuita utilizzava per il corso di egittologia da lui istituito.

Fig. 3: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher. Sullo sfondo, riproduzione del Collegio Romano, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.


Erano le copie di sei obelischi romani, tre dei quali rispettivamente dell’Obelisco Lateranense, dell’obelisco Flaminio e di quello Mediceo[3].

Proprio indagando la sede del Collegio Romano, mi sono addentrata in una ricostruzione archeologica dell’area occupata dall’Iseo Campense[4].

Qui, durante gli scavi, suscitò un grande interesse una tavola di bronzo ageminato raffigurante al centro la dea Iside con due leoni al fianco e tutto intorno differenti offerenti.

È la Mensa Isiaca, apparsa per la prima volta nel 1527 durante il sacco di Roma, chiamata anche Tabula Bembiana, perché appartenuta al cardinal Bembo, prima di passare ai Gonzaga e ai Savoia, per giungere presso il Museo Egizio di Torino che oggi la conserva.

Interessante è il parallelo tra quest’opera e la Divina Sapienza di Andrea Sacchi, sia per affinità iconografica che per la storia che lega il dipinto all’interesse egizio dei Barberini, in particolare di Urbano VIII.

Questi, temendo di morire per una funesta previsione, fece giungere a Roma il filosofo Tommaso Campanella e entrambi si chiusero per mesi, forse anni, nella sala di Palazzo Barberini affrescata con la Divina Sapienza a compiere riti magico–ermetici[5].

La mia ricerca prosegue con l’identificazione dell’iconografia egizia nella scultura e pittura del Seicento partendo dalla Piramide di Caio Cestio, interessata nel corso del XVII secolo da un importante intervento restaurativo da parte di Alessandro VII il quale fece abbassare il terreno, che in alcune parti copre la piramide fino all’altezza di ventidue palmi.

Scopo del Papa era di creare una chiesa al suo interno, di cui esiste anche un progetto del Borromini ma che non fu mai eseguito.

Nel 1663 iscrizioni del ponte sottolineavano il degrado della tomba indicato come segno della passata gloria pagana, mentre il restauro veniva esaltato come atto di intercessione della Chiesa per la protezione e la salvezza delle anime delle vittime della peste, volendo in questo modo chiaramente rovesciare il significato simbolico del rudere, da pagano a cristiano.

La proposta di restauro più eclatante fu quella di Fioravante Martinelli che propose la religiosa trasmutatione, ossia propose l’adattamento della piramide a cappella in onore dei santi Pietro e Paolo.

Evidentemente il papa sentiva il bisogno di giustificare le spese profuse per restaurare un rudere pagano con valide motivazioni, e quindi era necessaria la purificazione del monumento da significati pagani.

Il progetto di Martinelli però non venne mai realizzato e, dopo il restauro e lo scavo del terreno circostante fino al livello originario, fu praticata un’apertura, una piccola porta che metteva in comunicazione l’esterno con la stanza interna.

Così la piramide entrava nell’iconografia cristiana diventando simbolo di morte e al tempo stesso di eternità[6]. Un particolare approfondimento va fatto sul rapporto culturale tra Kircher e l’architetto del barocco Gian Lorenzo Bernini. Entrambi, infatti, hanno legato il loro nome all’Obelisco Alessandrino e a quello Pamphili. Il primo fu scoperto nel corso del Seicento nel giardino maggiore dei padri Domenicani nella chiesa di Santa Maria Sopra Minerva e per introdurlo non si può omettere una storia assai bizzarra.

Quando fu riesumato, infatti, Kircher, soprintendente alle Antichità, si trovava fuori Roma e dovette inviare il suo assistente Petrucci per ricevere la trascrizione dei geroglifici sopra iscritti.

Purtroppo l’obelisco aveva il quarto lato interrato, per cui Petrucci fu costretto a mandare al gesuita solo i tre lati esposti, in attesa di vedere il quarto.

Con somma sorpresa di tutti, però, fu Kircher a spedirgli la parte celata e ancora più stupore fu sollevato quando, riesumato l’intero monumento, si poté constatare come la sua trascrizione fosse perfettamente coincidente con il quarto lato, ora visibile.

Probabilmente Kircher aveva notato come le facce dell’obelisco fossero speculari a due a due e quindi, per un criterio analogico si poteva dedurre il lato nascosto dallo studio dei simboli di quello, invece, visibile.

Ma anche per un erudito come Kircher questo metodo risulterebbe piuttosto lungimirante per l’epoca.

Bisognerebbe, invece, tener presente che anche il criterio di traduzione Kircheriano può generare interessanti riscontri sul piano della decifrazione linguistica del geroglifico[7].

Fig. 4: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher, Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.
Fig. 5: Obelisco ligneo di Athanasius Kircher. Museum Kircherianum presso il Liceo Visconti di Roma. Foto cortesia di Stefano Colonna.


Passiamo ora a descrivere l’intervento del Bernini, il quale fu incaricato di scolpire una base per l’obelisco.

L’artista, inizialmente, aveva pensato a una soluzione compositiva più audace che prevedeva un Ercole che sosteneva in bilico, con le proprie braccia, l’oscillante monolito[8].

Scartata questa idea, egli ripiegò su un suo precedente progetto realizzato per erigere una guglia nel giardino segreto di palazzo Barberini.

Proprio per la committenza barberiniana, il progetto dell’opera pare fosse ispirato da una xilografia tratta dall’Hypnerotomachia Poliphili, testo scritto da Francesco Colonna ed edito da Aldo Manuzio nel 1499.

Infatti, come ipotizza Calvesi, il cardinale Francesco Barberini, conoscitore di archeologia e appassionato di antichità prenestine, divenendo il feudo di Palestrina proprietà Barberini dal 1630, probabilmente era a conoscenza dell’autentico significato allegorico che si celava nell’elefante obeliscoforo dell’Hypnerotomachia[9].

L’artista ideò, forse ispirato dal cardinale, un elefante che reggeva l’obelisco, simile a quello del Polifilo ma senza il cubo sotto la pancia e con alcune varianti come testimoniano un disegno di Windsor e un bozzetto di terracotta, al tempo a Palazzo Barberini e ora a Firenze in collezione Corsini.

Nel primo l’animale presenta la testa e la proboscide volte a sinistra mentre in cima all’obelisco svettano le api, stemma dei Barberini, nel secondo, invece, la proboscide è volta a destra e la coda a sinistra.

Ma il progetto non fu mai portato a termine nonostante il cardinale non avesse ancora abbandonato l’idea nel 1658, come testimonia una lettera di Leonardo Agostini, antiquario di casa Barberini, a Carlo Strozzi[10].

Si può ipotizzare, infine, come sostiene Partini essere stato Papa Alessandro VII a suggerire l’iconografia dell’elefante al Bernini in quanto nel Fondo Chigi, tra gli stampati, c’è una copia dell’Hypnerotomachia scrupolosamente postillata dal Papa ad ogni pagina, cosa che dimostra il suo interesse per l’argomento, testo che ancora oggi possiamo consultare alla Biblioteca Apostolica Vaticana tra gli incunaboli chigiani[11].

È comunque certo che sia stato il Pontefice stesso a dettare la scritta, che racchiude il significato dell’opera berniniana, sulla base dell’elefante, nella quale di afferma come una solida Sapienza, simboleggiata dall’obelisco con i geroglifici, dev’essere sostenuta da una mente valida e robusta, impersonata dall’elefante, animale da sempre ritenuto simbolo di forza, equità e grande intelletto[12].

Bernini, su suggerimento dei Domenicani, proprietari di Piazza della Minerva, collocò tra le zampe dell’animale un cubo, per dare, secondo questi ultimi, stabilità alla scultura conferendo, invece, solo minor grazia ad un animale che ne è già privo per antonomasia. A nulla valsero le argomentazioni dello scultore, che sedici anni prima, a piazza Navona, aveva ideato la fontana dei Quattro Fiumi, dove un altissimo obelisco si reggeva su uno scoglio traforato.

Decise, però, di coprire il cubo con una gualdrappa che giungeva fino al basamento e architettò una beffa, disegnando l’elefantino in modo che voltasse la terga al convento dei frati, mentre la proboscide ne sottolineava la posizione irriverente e la coda, spostata a sinistra, ne accentuava l’intenzione offensiva.

Anche nella xilografia dell’Hypnerotomachia l’incisore colloca questo impedimento in pietra.
L’elefante, poi, con la testa rivolta indietro verso l’obelisco solare poggiato sulla schiena, riprende la postura dell’elefante adoratore del sole, rappresentato dalle fonti antiche, postura che esprime la dedica al Sole di tutto il monumento.

Kircher rivolge particolare attenzione ad esaminare i simboli del monumento egizio, in particolare lo scarabeo stercorario inciso sul pyramidion.

Questo, infatti, rappresenta il dio Khepri che, tutte le mattine, spinge su il sole cosi come lo scarabeo la palla di sterco nella quale nidifica e si genera[13].

Questo atto prevede tre fasi: la nigredo, ovvero il momento in cui la materia si disgrega per poter mutare di forma, il momento della putrefazione e della decomposizione. La palla di sterco in cui lo scarabeo depone le sue uova, nutrimento delle larve che vi nasceranno, è la chiara rappresentazione di questa fase.

La successiva, chiamata, albedo (opera al bianco) rappresenta il sorgere della vita e della luce dalla materia.

È il momento della nascita della larva, del bianco verme, che si nutre della materia con cui è composta la palla di sterco e la trasforma, assimilandola per prepararsi all’ultima trasformazione.

La fase finale, la rubedo (opera al rosso), è quella in cui la forma incompleta nata durante la fase di albedo subisce la trasformazione finale e si fissa nella forma perfetta. È l’emersione dello scarabeo, perfettamente formato, dal bianco bozzolo in cui ha compiuto la sua trasformazione da larva ad essere alato, che trasporta il rosso disco solare.

Sono le tre fasi della filosofia alchemica in cui abbiamo una prima fase, che coincide con il contatto con la parte peggiore di se stessi, una successiva, in cui veniamo in comunicazione con la parte luminosa, possibile solo in seguito all’aver sperimentato e riconosciuto la materia nera e aver deciso di trasmutarla, ed infine, dopo aver concluso quest’opera di consapevolezza e trasmutazione delle emozioni negative, si innesca l’ultima trasformazione che ha come fine ultimo il raggiungimento dello stato di beatitudine, l’illuminazione, la salvezza[14].

La seconda opera che vede lavorare insieme lo studioso gesuita e l’architetto del Barocco è l’obelisco Pamphili, in piazza Navona, antico stadio domizianeo.

Il primo studio completo che Kircher intraprese sul geroglifico fu l’Obeliscus Pamphilius (1650) ed una particolare attenzione è stata da me rivolta al suo frontespizio in cui Saturno, divinità del tempo, con la sua opera distruttrice ha gettato a terra l’obelisco e incatenato la Fama, che giace sul pavimento accanto ai suoi resti.

L’atmosfera di desolazione è interrotta dalla Polimathia (Kircher) rappresentata in procinto di scrivere mentre siede appoggiata con un piede ad un cubo, simbolo di stabilità, ed un gomito sui tomi della sapienza egizia, della matematica pitagorica, della filosofia greca, dell’astronomia caldaica.

Al suo cospetto sta Hermes, l’inventore della scrittura sacra, che le porge un rotolo con i geroglifici dell’Obeliscus Pamphilius.

Seduto ai piedi della Polimathia, con un piede sul dorso del coccodrillo, rappresentante di oscurità e silenzio, troviamo Arpocrate, dio del silenzio mistico, nell’atto di mettersi l’indice sulla bocca per ammonire i profani[15].

L’obelisco egizio viene presentato come emblema del governo monarchico e simbolo capace di collegare i grandi imperi del passato con il Papa che riunifica nella sua persona potere regio e religioso insieme.

Nell’ideazione dell’enorme scenografia Barocca, Bernini fu influenzato dall’interesse di Kircher per l’Egitto. La ricchezza e complessità iconologica dell’opera non sempre viene colta da un semplice visitatore, attento a farsi stupire dalla grandiosità di questa pomposa orchestrazione piuttosto che da particolari ritenuti, ad un primo esame, erroneamente minori.

Le personificazioni dei quattro fiumi, che danno il nome alla fontana, sono solo un dettaglio a livello di una lettura simbolica dell’opera che ha il suo perno nel rapporto dicotomico tra bene e male.

La caverna, simbolo di oscurità, fa da contraltare alla colomba, posta sul pyramidion, emblema della luce. Il leone, simbolo di forza e saggezza è speculare all’ippopotamo, figura di empietà[16].

Una piccola trattazione va rivolta anche all’Obelisco di Antinoo, per il quale Kircher giunse a Roma nel 1634. Dopo la morte di Adriano il culto di Antinoo è stata proseguito fino al trionfo del Cristianesimo, quando il suo nome cadde nella damnatio memoriae ma, dato che l’obelisco presenta un incisione con geroglifici, il testo ha avuto la possibilità di sopravvivere alla distruzione che colpì gli altri santuari.

L’obelisco contiene una particolare titolatura in caratteri geroglifici egizi che riporta a riscontrarvi un testo scritto da un sacerdote della città di Akhmim, un certo Pétarbescheni, essendo stata rinvenuta sulla sua stele funeraria una titolatura molto simile. Questi sono gli unici due casi in cui troviamo un simile posizionamento dei geroglifici[17].

Le scritture che lo adornano in tutti e quattro i lati raccontano la vicenda riguardante la morte di Antinoo, la sua apoteosi, deificazione ed installazione accanto agli altri Déi, oltre a darci le notizie sulla creazione della città di Antinopoli, nata in suo onore, e alla conseguente istituzione di un culto specifico dedicato ad Antinoo[18]. La direzione dei geroglifici delle iscrizione da l’orientamento preciso delle facce di un obelisco, tenendo presente che i singoli segni sono di norma rivolti verso l’inizio dell’iscrizione stessa.

In questo caso il lato frontale è il IV, con l’esaltazione di Adriano e Sabina e la scena del sovrano che reca offerte ad Horakhty.

I simboli del lato posteriore sono rivolti verso l’asse d’accesso del tempio mentre quelli dei lati di fianco in direzione della facciata.

Come rileva Romeo di Colloredo, da questo si può comprendere che l’obelisco era posto sul lato orientale del tempio, come indica la presenza del dio Ra Horakhty sopra l’iscrizione dedicatoria, il gemello, qualora esistito, doveva presentare una scena analoga ma con l’adorazione di Atum[19]. Il tempio dinnanzi al quale l’obelisco era posto doveva avere un orientamento secondo l’asse Est–Ovest.

Non è stata rinvenuta, invece, la vera base dell’obelisco oggi al Pincio, che nel mondo romano, in cui la conoscenza della scrittura geroglifica non era ancora diffusa, aveva una funzione sia architettonica sia soprattutto propagandistica, con l’iscrizione commemorativa e, nel caso di un luogo di culto, di dedica del monumento.

Sempre attenendoci allo studio di Romeo di Colloredo, nella traduzione del testo di cui Kircher si occupò, l’errore fondamentale è stato costituito dal non procedere ad un esame diretto del testo ed ad una successiva traduzione letterale, ed a considerare solamente il passo iniziale del lato I messo in relazione con la presenza di un edificio dedicato ad Antinoe a Roma, e non l’insieme dei testi incisi, dedicati al culto del favorito dell’imperatore ad Antinoe ai suoi riti[20].

L’obelisco non menziona assolutamente né la tomba di Antinoo né Tivoli e va precisato che la teoria più recente è che l’Obelisco Aureliano non fosse neppure stato eretto a Roma, ma ad Antinoe stessa, e trasportato a Roma solo nel III secolo[21].

È da sottolineare, inoltre, l’assenza, nelle scene e testi dell’obelisco, dell’elemento isiaco e del culto di Anubi. Un ultimo rapido sguardo, prima di passare alle opere pittoriche influenze dall’Antico Egitto, invece, va rivolto alla medaglistica del Seicento che vede raffigurati numerosi obelischi egizi[22].

Tra i pittori, invece, che Kircher influenzò maggiormente ci fu Nicolas Poussin quando si trasferì a Roma nel 1642. A lui dobbiamo un ciclo di opere che ha come fulcro la rappresentazione di temi biblici che hanno come sfondo l’Egitto. Primo fra questi La Fuga dall’Egitto, tela ritrovata negli anni ’80 in ben due copie, una autenticata immediatamente dagli esperti fu acquistata dal Museo di Lione, l’altra, divenne proprietà dello storico e critico d’arte Anthony Blath che ancora la sta indagando.

La composizione del quadro si articola intorno ad una diagonale che delimita, a sinistra, lo spazio sacro e, a destra, lo spazio profano e terreste.

Al centro, la Sacra Famiglia attraversa, guidata da un angelo, un paesaggio che evoca la campagna romana. Ogni sguardo indica una direzione o un dialogo particolare: Giuseppe interroga l’angelo, Maria si volta indietro, simboleggiando, con il suo atteggiamento, la nostalgia del passato, mentre l’asino, nell’ombra, avanza verso un futuro ignoto e Gesù, al centro della composizione, guarda lo spettatore.

Le diagonali del quadro convergono verso il gesto protettivo della Vergine, ricordando, in tal modo, che la fuga in Egitto fa parte dei sette dolori di Maria e preannuncia la Passione di Cristo.

L’uomo che osserva in secondo piano, è probabilmente un testimone o il simbolo di un mondo antico e misero, visti gli indumenti che indossa, che si confà al paesaggio bucolico circostante[23].

In un’incisione della tela di Pietro Del Po’, notiamo la riproduzione fedele della composizione eccetto per un particolare, la cavezza dell’asino, non presente in Poussin. Tale strumento, per il Del Po’, sarebbe stato dimenticato dall’artista francese dando un senso al gesto della mano di San Giuseppe.

Blath, invece, ne conferma l’assenza, asserendo che l’atto del santo è un arguto espediente di Poussin per far spiegare all’angelo che l’asino non ha bisogno di cavezza per essere guidato, conoscendo la strada grazie allo Spirito Santo.

Alcuni critici notano, inoltre, come l’animale sia ormai sfinito, e questo trova il suo riscontro nel fatto che la Madonna cammini a piedi per sollevarlo dalla fatica.

L’angelo, quindi, starebbe a dire a Giuseppe di affrettarsi perché le guardie di Erode sono sulle loro tracce e il santo risponderebbe che non può perché l’asino è stanco e glielo indicherebbe con il gesto della mano[24].

Poussin, trasferitosi definitivamente a Roma nel 1642, attinge la propria ispirazione alle vestigie dell’antichità, alle opere del Rinascimento, ma anche ai modelli classici contemporanei di Annibale Carracci[25].

Ad esempio, la figura della Vergine che si volta indietro deriva, molto probabilmente, da un bassorilievo romano, mentre l’atteggiamento dell’angelo e la posa del viaggiatore sdraiato evocano affreschi e incisioni di Raffaello, il primo, inoltre, riprende la rappresentazione della vittoria alata greca[26].

L’architrave con vaso e l’albero ricurvo, in secondo piano, sono tratti da un mosaico romano, l’aquila che uccide il serpente, invece, è una raffigurazione presente su una moneta greca del IV secolo a.C.

Uno studio a parte è stata fatto sui vari pentimenti di Poussin, il secondo vaso, ad esempio, è stato successivamente aggiunto dipingendolo su una porzione di cielo, così come il drappo della Vergine che risulta più bianco nella parte superiore, la linea del suo velo e dei monti.

La punta della lancia, invece, sarebbe più chiara per risaltare meglio al nostro sguardo e guidarci verso l’immagine dell’aquila e del serpente, probabile prefigurazione del martirio di Cristo[27].

La linea tremante dell’architrave fu mal giudicata dal Bernini, che molto ammirava l’artista francese, affermando come ad una certa età bisognerebbe smettere di dipingere.

L’opera fu ordinata all’artista, nel 1657, da un fabbricante di seta lionese, Jacques Sérisier, che si era trasferito a Parigi.

A 63 anni, Poussin era uno dei grandi protagonisti della pittura europea, caposcuola del classicismo francese.

La Fuga in Egitto è una delle opere più enigmatiche di questo artista–filosofo, il quale esprime, in questa tela, la propria riflessione universale sull’esilio.

Nel Riposo durante la Fuga in Egitto notiamo, invece, da subito una differenza sostanziale con l’ambientazione dell’opera appena descritta.

Qui, infatti, la scena viene rappresentata sullo sfondo di un paesaggio bucolico, privo degli elementi identificativi della cultura dell’antico Egitto, quali obelischi ed architetture orientaleggianti, che invece troviamo nella prima.

Il dipinto, eseguito dall’artista nel 1657, mostra quanto la cultura rinascimentale romana abbia influito su Poussin una volta trasferitosi, nel 1642, in una delle città europee più pregne di classicismo.

Siamo davanti ad un capolavoro di pura erudizione in cui Poussin mostra di indagare e comprendere le religioni creando un sincretismo, in questo caso, tra quella cristiana ed egizia.

L’occhio dell’osservatore tende a concentrarsi sull’imponente reliquiario di Serapide posto al centro della composizione, attorniato da una serie di obelischi e di architetture orientaleggianti.

Su questo sfondo, un po’ più in basso, si staglia la sacra famiglia, il nucleo cristiano dell’opera.

Si fonde così Nuovo ed Antico Testamento in un’iconografia del tutto nuova, con un San Giuseppe che porge una ciotola ad un’egiziana per essere servito, esattamente come poco più sotto un egiziano offre cibarie alla Madonna ed al Bambino proteso in avanti.

Il Bellori[28] ha letto quest’atto come un omaggio che la religione orientale fa a quella cristiana creando una comunione tra due popoli.

Tale ipotesi interpretativa troverebbe il suo contrappunto nell’immagine del reliquiario di Serapide, che alluderebbe, per la sua forma, ad un baldacchino eucaristico.

La mia indagine sul pittore francese si conclude con l’esame delle opere Mosè salvato dalle acque e Mosè affidato alle acque.

Il Mosè salvato dalle acque fu dipinto per il banchiere Pointel, uno dei principali collezionisti di quadri di Poussin, nel 1647, quando l’artista stava completando per Freart de Chantelou l’Ordine della seconda serie dei Sacramenti.

Pare che Chantelou preferisse il quadro di Pointel ma conosciamo la rivalità gelosa fra i due amici di Poussin che insistettero ambedue per possedere un autoritratto del pittore.

Quest’opera è la seconda dei tre Mosè salvato che si conoscevano.

Nella prima versione del Louvre del 1638, dallo stile molto simile a quello dei Pastori di Arcadia, sempre presso il museo parigino, Poussin mette in primo piano il gruppo scultoreo delle figlie del Faraone, creando, grazie ai colori chiari e al perfetto equilibrio delle forme, un’atmosfera di serenità propria delle opere di quel periodo.

La tela Schreiber, dipinta nel 1651, non ha la monumentalità statica della prima versione, l’artista tenta di variare espressioni e atteggiamenti per animare la composizione.

Il quadro del Louvre, dipinto quattro anni prima, colpisce soprattutto per il suo tono notturno che conferisce uno strano fascino all’opera.

Poussin ci tiene a creare qui un’atmosfera di raccoglimento che non si trova in nessuna delle altre versioni[29]. La scena non illustra un episodio tratto dalla Bibbia, ma un episodio narrato da Giuseppe Flavio nel suo Antiquitates ludaicae.

Qui l’artista sceglie il momento esatto in cui la figlia del faraone, Termuti, aveva posto «il fanciullo nelle braccia di suo padre; ricevutolo lo strinse al petto per amore della figlia e gli pose sul capo il proprio diadema. Mosè, però, lo gettò a terra facendolo rotolare al suolo come un giocattolo di ragazzi e con i piedi lo calpestò: questo parve un cattivo presagio per il regno.

Lo scriba sacro, quello che aveva preconizzato che la nascita di questo fanciullo avrebbe recato umiliazione all’impero degli Egiziani, alla vista di ciò, si fece avanti per ucciderlo, e lanciando grida spaventose, disse: questo, o re, è il fanciullo che Dio ci disse di uccidere per prevenire ogni nostro timore; predizione confermata dall’ingiuria verso il tuo regno e dal diadema calpestato.

Uccidendo costui, sollevi gli Egiziani dalla paura che hanno di lui ed elimini agli Ebrei le ardite speranze che suscita»[30].

Subito dopo, continua Giuseppe Flavio, Termuti gli impedì di ucciderlo strappandoglielo di mano. Poussin interpreta lo stesso momento in un altro quadro, portato a termine qualche anno più tardi in cui però si allontana dal bassorilievo di Icario trasferendo la scena dall’esterno in un interno, e usando come modello per il poggiapiedi l’oggetto su cui Ercole poggia la propria mazza nell’affresco di Raffaello Le nozze di Cupido, conservato nella Villa Farnesina a Roma.

Tornando alle due interpretazioni di Mosè bambino calpesta la corona del faraone, nel 1647 l’artista aveva dipinto un’altra versione del Mosè salvato dalle acque, di dimensioni maggio­ri (Parigi, Louvre, 1647), la prima versione dava risalto al gruppo di donne egizie presenti sulla sinistra della tela, che indicano il bambino salvato, sulla destra, nel secondo caso l’artista pone Mosè al centro del gruppo di donne che lo circondano e su cui domina la figura della principessa.

 La scena è ora situata in un ampio paesaggio ricco di dettagli, con colline, valli, costruzioni e corsi d’acqua, che allo stesso tempo mette in rilievo la composizione e l’architettura del gruppo in primo piano.

Per la parte sinistra, Poussin trae l’ormai nota ispirazione da Raffaello, il suo Mosè, infatti, adotta la posa del Platone di Raffaello e gli Israeliti sono distribuiti nello spazio pittorico, al modo in cui l’arco di roccia sullo sfon­do rappresenta una sorta di corrispondente naturale dell’arco architettonico che incornicia Platone e Aristotele nell’affresco Vaticano.

In Mosè affidato alle acque il quadro descrive le diverse emozioni dei personaggi presenti: tristezza e rassegnazione sulla faccia, rivolta altrove, del padre Amram, una per­plessa esitazione nell’espressione di Aronne, terrore e disperazione sul volto della madre di Mosè, Iochebed, che, accorata, volge uno sguardo quasi implorante verso l’altrettanto angosciato marito.

Persino il dio del fiume Nilo ­violando le abitudini di queste entità mitiche che usualmente non interferiscono né reagiscono alle azioni umane ­dimostra compassione nei confronti del dolore di Iochebed.

La Sfinge, che appare imperturbata e impassi­bile, l’infante Mosè, che gesticola allegro e sua sorella Miriam, che porta un dito alle labbra indicando il gruppo riunito e invitando al silenzio, dimostrano emozioni rispettivamente neutre e positive.

La scena quindi appare perfettamente calma e bilanciata: a sinistra le figure di Amram e Aronne e, in direzione opposta, sulla destra, quella di Mosè; nel mezzo la madre Iochebed, che mostra apertamente il proprio dolore, fissando con occhi spalancati il marito che si allontana ad occhi chiusi, e la cui emozione viene riflessa dalla triste espressione del dio del fiume Nilo.

 La madre è tuttavia incorniciata dal profilo della Sfinge sulla destra, e dal mezzo profilo di sua figlia Miriam sulla sinistra, che indica una via d’uscita da questa tristezza mostrando il possibile, e imminente, salvataggio di suo fratello.

La presenza di Mosè nell’opera di Poussin ricopre un arco di quasi trentanni ed è la celebrazione del potere di Dio e la dimostrazione che la saggezza umana a confronto non può nulla.

Anche Salvator Rosa si interessò d’Egitto immediatamente dopo il suo rientro a Roma, nel 1649, quando incontrò Kircher.

Il Democrito in meditazione è un grande quadro cupo e sinistro, dai contenuti oscuri. L’opera, infatti, richiama non solo i geroglifici e l’egittofilia, ma anche la struttura labirintica del metodo e del pensiero mostrati dal monaco gesuita nei suoi libri, il suo mondo sovrabbondante di significative immagini, giungendo a rispecchiare perfino gli oggetti contenuti nel suo Museo del Collegio Romano.

L’impianto scenografico si incentra sui resti dell’antico, sui geroglifici dell’obelisco che recitano, come spiegava Kircher, le fragilità della vita umana, sull’erma del dio Termine e sui resti delle anatomie che Democrito, atomista e medico, oltre che filosofo, contempla a terra malinconicamente.

Su tutto poi predomina quasi minacciosa la natura, il cielo plumbeo che sovrasta il capo del pensatore, le fronde che lo nascondono e la terra, pronta a risucchiare ogni cosa.

Un obelisco e geroglifici analoghi, compaiono qualche anno più tardi in un dipinto, la Humana Fragilitas del 1656, che reitera nel significato il su citato quadro.

La candela tenuta dal putto sulla sinistra, le bolle soffiate dal suo compagno, il coltello, le farfalle e le foglie di cipresso rinforzano la litania mortuaria mentre un sinistro scheletro alato porge all’infante, in braccio alla propria madre, un cartiglio dal funesto presagio.

È possibile creare un parallelo con il frontespizio dell’Obeliscus Pamphilius, dove una donna alata alza la penna e guarda in direzione di Mercurio che le porge un cartiglio su cui è illustrato l’obelisco.

Analogamente all’erudito tedesco, il pittore napoletano è catturato dall’esotico per giungere alla lettura di una verità ultima[31].

Concluderei questa serie di opere ed artisti che attinsero all’Egitto, con Lamaire ed il Sacrificio a Minerva, la cui scoperta è dovuta a Maurizio Fagiolo dell’Arco, è tanto più interessante quanto l’iscrizione che porta sul verso dimostra con sicurezza la sua appartenenza alla celebre collezione di Cassiano dal Pozzo.

L’identificazione di Ursula Verena Fischer Pace di un disegno preparatorio conservato alla Galleria degli Uffizi ne aumenta l’importanza.

Gilles Chomer e Sylvain Laveissière hanno giustamente notato i rapporti di stile tra questo dipinto e le stampe della Storia di Paride incise da Pierre Lemaire dal ciclo di dipinti di Vignon.

Un’attribuzione a Pierre Lemaire del Sacrificio a Minerva appare verosimile.

Essa deve essere avanzata con prudenza poiché non conosciamo né la data né le circostanze relative all’ingresso del dipinto nella collezione dal Pozzo, e l’iscrizione posta sul verso della tela non indica il nome di battesimo del pittore. Un confronto stilistico con delle stampe la cui datazione è essa stessa incerta è di per sé insufficiente per portare a qualsiasi affermazione certa.

Sullo sfondo della tela svetta un’evanescente piramide, quasi eterea, come se fosse stata inserita successivamente dal pittore, richiamo della cultura egizia[32].

Prima di chiudere lo studio sull’iconografia egizia nella pittura del Seicento, un ultimo sguardo è rivolto alla rappresentazione di Cleopatra nella stessa ed in particolare all’opera dell’artista caravaggesca Artemisia Gentileschi, il Suicidio di Cleopatra.

Inizialmente attribuita a Guido Cagnacci, una figura che non è né bella né graziosa, bensì una pesante, sgraziata, di un realismo assoluto con tutti i suoi difetti.

La Gentileschi sembra voler affermare la propria libertà di donna e di pittrice che non sottostà ai limiti imposti dall’Accademia, ma lascia la propria mano libera di seguire la fisicità del corpo, la bellezza di un volto che cede a una smorfia di dolore, paura e angoscia.

L’artista sembra anticipare il momento in cui si assiste alla desacralizzazione della donna con l’inizio dell’età contemporanea, decadendo la pittura storica e religiosa, ciò che è stato soggetto privilegiato come immagine della bontà e della bellezza, assume una connotazione estetica assoluta, al di là dei temi e dei generi.

Essa viene rappresentata nel momento più tragico della sua storia, il suicidio.

Raramente un nudo rinuncia alla sua gradevolezza per privilegiare la sua essenza carnale, fatta di odori e sudori[33].

La parte finale della mia ricerca verte sul riconoscimento di elementi afferenti alla cultura egizia nei dintorni di Roma ovvero a Palestrina e a Tivoli.

Nelle sale del Museo Archeologico di Palestrina, mi sono soffermata sul Mosaico Nilotico oggetto di studio nel XVII secolo.

La Fortuna Primigenia della città si confrontò, dunque, con altre divinità dalle analoghe caratteristiche, e su tutte Iside, nelle quali viaggiatori prenestini riconobbero la propria divinità tutelare.

Il mosaico, realizzato a Praeneste da artisti alessandrini alla fine del II sec. a.C., potrebbe derivare da un originale pittorico dell’epoca di Tolemeo Filadelfo, ed andrebbe interpretato come un’allegoria dell’Egitto sotto il dominio dei Tolemei.

L’opera fu identificata con il lithostroton collocato da Silla nel delubrum della Fortuna Primigenia al tempo di Plinio.

Data l’eccezionalità del disegno si è ipotizzata una committenza illustre.

Negli ultimi anni il mosaico è stato collegato alla figura di Cleopatra che era a Roma al tempo di Cesare, e poi ad Alessandria, fu sposa di Marco Antonio che godeva a Preneste di un forte potere politico, altri lo hanno correlato ad Augusto ed alla conquista dell’Egitto, altri ancora lo datano al tempo di Adriano e dei Severi.

Per Zevi una datazione al tempo di Cleopatra pare improbabile perché, proprio in quegli anni, Cicerone, affermava la decadenza del santuario.

Sembrerebbe, invece, risalire al II secolo a.C., periodo in cui il culto prenestino era maggiormente diffuso[34].

La fortuna del mosaico presenta vicende rocambolesche.

Scoperto probabilmente durante i restauri del palazzo baronale di Palestrina fatti da Francesco Colonna romano e datati agli inizi del Seicento, il mosaico fu studiato nel 1614 da Federico Cesi, il fondatore dell’Accademia dei Lincei, giunto a Palestrina per il suo matrimonio. Nello stesso anno Cassiano dal Pozzo lo riprodusse in tavole a colori.

Sempre in quegli anni fu acquistato dal cardinale Andrea Peretti, vescovo di Palestrina, che lo fece portare in pezzi a Roma.

Il nuovo cardinale di Palestrina, Francesco Barberini, riuscì a ottenere di nuovo in dono il mosaico ma, durante il trasporto, l’opera, sistemata al contrario sui carri, subì danni tali da dover essere restaurata sulla scorta delle tavole di Cassiano dal Pozzo.

Riportata a Palestrina, fu collocata in una stanza del palazzo baronale dove, nell’Ottocento, fu sottoposta a un nuovo restauro, ma una ricomposizione inesatta ne modificò la disposizione delle parti.

L’ultimo distacco fu realizzato durante la seconda guerra mondiale, per ragioni di sicurezza. In questa occasione il mosaico fu sottoposto a un nuovo restauro che consentì di mettere in evidenza le parti originali.

Nei primi anni Cinquanta del Novecento fu riportato a Palestrina e collocato nella sala in cui è attualmente esposto.

In occasione dei restauri, diretti da Salvatore Aurigemma e da Giorgio Gullini, è stato possibile riconoscere le parti rifatte, come il frammento con la barca di papiro e i banchettanti sotto un’incannucciata, il cui originale si trova oggi nel Pergamon Museum di Berlino, dopo essere stato donato al granduca Ferdinando II dei Medici.

In età moderna, grazie al rinvenimento nel Castello di Windsor delle tavole di Cassiano dal Pozzo, si è potuto ricomporre l’originale, almeno graficamente.

Non possiamo non menzionare che l’opera fu descritta nella Hypnerotomachia di Francesco Colonna nel 1499.

L’autore dell’Hypnerotomachia, inoltre, cita il «lithostrato in Praeneste» a confronto di un mosaico figurativo con animali e fiori: ben sapeva quindi che il litostrato ricordato da Plinio era un mosaico con figurazioni, essendo, generalmente, meramente un commesso di marmi, o piccole pietre, senza figure.

Ciò conferma che conosceva l’opera.

Lo stesso Colonna illustra una scena che richiama singolarmente il mosaico prenestino, nella descrizione degli «acquatici monstriculi nell’acqua simulata», dei «semihomini», degli «hippopotami» ed altri animali.

Per tre volte, infine, si ricorre nel testo all’immagine della piena del Nilo, il tema del mosaico.

Passiamo ora ad esaminare la raffigurazione, ovvero una veduta obliqua dall’alto dell’Egitto da nord a sud durante una piena del Nilo.

La rappresentazione è a volo d’uccello, così da creare artificiosamente delle anse, in modo da far seguire l’andamento del fiume da sinistra verso destra e viceversa e non in senso verticale, e al fine di far rientrare quest’immenso paesaggio in soli 4,5 metri di altezza. Nella parte alta del mosaico sono raffigurate la Nubia e l’Etiopia.

Qui predominante è il paesaggio, dove il Nilo scorre tra rocce scoscese animate da belve e cacciatori di colore.

Ogni animale è contrassegnato da un nome in greco, spesso poco leggibile, in parte per le lacune già presenti in antico, in parte per i molti e non rigorosi restauri subiti.

Perfino l’aspetto e la denominazione degli animali è spesso alterata.

Alcuni animali sono infatti del tutto fantasiosi, come nel caso di quello con il corpo di elefante (o rinoceronte) e la testa di coccodrillo, oppure degli uccelli con lunghe code e delle scimmie con criniere.

Alcuni animali vengono poi indicati con nomi del tutto inventati, come il camelopardoo il coccodrillopardus, ovvero un coccodrillo–pantera.

Il nucleo centrale della rappresentazione è nella parte inferiore destra, dove è raffigurata una delle metropoli dell’antichità, Alessandria.

La città, come rivela il suo nome, fu fondata da Alessandro Magno nel 332 a.C. e si diceva che vi fosse sepolto il sovrano.

Vi appare un grande edificio colonnato, coperto da una tenda, sotto la quale alcuni soldati celebrano un rito.

Si distinguono tra gli altri, per la maggiore statura, forse un araldo e una figura femminile. A destra si trova il porto con le isole e la torre di Faro, dalla parte opposta si trovano degli scogli e il promontorio di Lochias su cui è situata una reggia e dietro appaiono dei giardini recintati.

La presenza all’interno del bacino di una nave militare e di una nave commerciale fa supporre che si tratti del grande porto che Strabone descrisse.

L’isola nell’angolo inferiore destro va quindi identificata con Faro, come testimonia la presenza di una grande palma, una delle sue principali caratteristiche.

 Poco più in alto è visibile un’edicola dalla quale fuoriesce una processione con quattro figure maschili che sorreggono una tavola (ferculum) sulla quale si erge un candelabro.

A destra si riconosce per la testa canina una statua del dio Anubi.

L’assenza del famoso Faro, una delle sette meraviglie dell’antichità, potrebbe essere spiegata supponendo che il modello al quale si è rifatto il mosaico sia anteriore alla sua costruzione.

Al centro, in basso, va ricollocata la scena di banchetto che si trova oggi a Berlino, con le feste celebrate in onore di Serapide a Canopo.

Qui appaiono alcune coppie distese su letti triclinari sotto un pergolato e intrattenute da suonatori.

Più in alto si osserva una nave con un gruppo di armati intenti nella caccia agli ippopotami e una capanna di canne innanzi alla quale si trovano un contadino e un pescatore.

Seguendo il percorso del Nilo, risalendo quindi verso destra, appare un grande tempio con una cinta muraria munita di torri e di una porta monumentale, probabilmente quello della città di Memphis o quello di Karnak presso Tebe.

Più a sinistra appare la città di Hermopolis Magna, il cui santuario era celebre per il culto degli ibis, che poggiano numerosi sulle sue mura.

All’estrema sinistra si scorge una scena con gruppi di persone, due obelischi e un pozzo, probabilmente il nilometro di Elefantine; il tempio potrebbe essere quello di Iside sull’isola di File, posta di fronte a Siene, oggi Assuan.

 Le figure sembrano intente a dare notizia della piena del Nilo e la scena rappresenterebbe, quindi, un compendio delle operazioni di controllo e del conseguente sfruttamento delle inondazioni.

La visione d’insieme non è quella dell’Egitto faraonico, bensì del paese ellenizzato, con templi costruiti secondo i canoni greci, che ospita truppe di opliti e dove indigeni e animali costituiscono un mero paesaggio di sfondo.

Il mosaico costituisce contemporaneamente una carta geografica e una tavola di storia naturale ovvero un’allegoria dell’Egitto sotto i Tolomei dalle coste del Mediterraneo fino alla terra selvaggia degli Etiopi.

Vi è stata riconosciuta anche la processione trionfale del faraone greco Tolomeo II Filadelfo, ovvero l’annuncio della sua vittoria ad Alessandria che determinò il consolidamento dell’impero.

Esso porrebbe derivare da un originale pittorico dell’età di Tolomeo collocato forse nel Tempio di Tyche che si ergeva nell’agorà di Alessandria.

Si è pensato anche a una libera composizione tratta dagli album naturalistici approntati dagli scienziati al seguito di Tolomeo II Filadelfo nella spedizione del 280 a.C. lungo il corso del Nilo fino all’Etiopia, che dovette esser un resoconto simile a quello voluto da Napoleone durante la sua campagna, con la Description de l’Egypte in diciotto volumi (1809–1816)[35].

Altro importante reperto della zona fu l’Obelisco di Palestrina il cui ritrovamento avvenne in più fasi.

La frammentarietà del manufatto e forse pure l’esistenza di un altro obelisco piuttosto simile ritrovato a Roma e acquisito poi nella collezione Albani successivamente portato a Parigi e, infine, a Monaco di Baviera, dove si trova tuttora davanti all’ingresso della collezione egizia della città, hanno fatto sì che si parlasse spesso di due obelischi prenestini.

Quello di Monaco interessa maggiormente la mia ricerca in quanto Kircher, nel 1660, descrisse e illustrò la parte antica (quella di mezzo) che serviva da pietra angolare del Palazzo Cavalieri in Piazza di Branca, oggi Cairoli.

Ambedue gli obelischi sono in granito rosso e di proporzioni non troppo elevate, presentano una simile impaginazione delle quattro facce, iscritte con geroglifici grandi e ben spaziati che corrono all’interno di una cornice costituita da una doppia incisione verticale ai lati.

L’epigrafia e lo stesso contenuto dei due monoliti sono simili.

L’obelisco proveniente da Roma si presenta meglio conservato e mancano solo la parte bassa e la sommità, abilmente reintegrate da P. Cavaceppi nel XVIII secolo.

I due obelischi forniscono un dato chiaro: il nome del dedicante che, trascritto in geroglifici, non sembra comunque dare adito a dubbi e sarebbe Titus Sextius Africanus. Ambedue, invece, risultano chiari per quanto riguarda il nome regale: l’uno, quello di Monaco, mostra un solo cartiglio frammentario agevolmente ricostruibile, tuttavia, come contenente il generico appellativo di Cesare; l’altro, il prenestino, riporta due frammenti di cartiglio che pongono svariati problemi interpretativi.

Gli studiosi hanno riconosciuto il nome di Cesare nel primo cartiglio, mentre per il secondo alcuni ipotizzano Claudio ma ci sono dubbi in merito[36].

Ultimo punto di interesse della mia ricerca è il Canopo di Villa Adriana, indagato per gli scavi condotti nel corso del Seicento. Si deve a Pirro Ligorio, famoso architetto napoletano al servizio del cardinale Ippolito d’Este, il riconoscimento del Canopo a Villa Adriana, di fronte all’articolato padiglione, che egli definì tempio del dio Canopo o Nettuno.

L’identificazione di questa zona della villa con il canale egizio che congiungeva l’omonima città di Canopo - sede di un celebre tempio dedicato a Serapide - con Alessandria, sul delta del Nilo, venne accettata senza riserve, come documenta ampiamente la letteratura archeologica.

Non solo Ligorio vi aveva trovato una statua di Iside ma tale dato sembrò ulteriormente confermato dall’attribuzione a questa zona di Villa Adriana anche del ciclo di sculture egittizzanti in basalto e pietra nera, oggi conservate presso i Musei Vaticani, frutto di ritrovamenti settecenteschi da parte dei Gesuiti.

Una recente rilettura critica delle fonti antiquarie ha tuttavia consentito di recuperare il vero luogo di ritrovamento di tali sculture, da riconoscere nella zona di fronte alle Cento Camerelle, compresa anch’essa nel Settecento nella proprietà dei Gesuiti e dove recentemente sono venuti in luce materiali del tutto analoghi, frutto delle campagne di scavo condotte negli ultimi anni.

La presenza di uno stibadium, o letto tricliniare, all’interno dell’ampio padiglione a esedra del Canopo prova che il complesso sia da interpretare come un grande spazio per banchetto all’aperto, arricchito da giochi d’acqua: le cascatelle, i canali, e il mosaico di pasta vitrea sulla grande volta a ombrello dell’esedra conferiscono al padiglione quasi l’aspetto di una fontana monumentale.

 Lo stibadium, costituito da un basamento in muratura di forma semicircolare e dalla superficie inclinata, era coperto in antico da tappeti e cuscini: gli ospiti vi si sdraiavano in occasione del convito, rinfrescati dallo scorrere dell’acqua in rivoli, cascatelle e fontane, che circondava i commensali garantendo frescura e una piacevole atmosfera, completata dalla vista sul lungo specchio d’acqua.

Quest’ultimo, inquadrato da un pergolato e da siepi di fiori, era completato da numerose sculture, in parte emergenti dall’acqua: su un dado in muratura nella zona meridionale era posizionato il gruppo di Scilla, mentre sul lato opposto era verosimilmente collocato il coccodrillo-fontana di marmo cipollino.

Fra i ritrovamenti venuti in luce negli anni cinquanta, quando tutta l’area venne liberata dall’interro, si rinvennero, oltre al coccodrillo, anche una statua di personaggio semisdraiato raffigurante il Nilo e due Sileni canefori (portatori di canestri) con funzione di telamoni, derivanti da modelli di ambiente alessandrino. In aggiunta alla statua di Iside scoperta da P. Ligorio, sono comunque poche le sculture di soggetto egizio provenienti con certezza dal Canopo, tutte peraltro realizzate non in stile egittizzante, ma secondo i canoni dell’arte ellenistica.

Non appare dunque giustificata l’ipotesi di caricare di un significato religioso questa zona della villa, la cui sistemazione in senso egizio, alluderebbe al rilancio del culto di Serapide promosso da Adriano e alla celebrazione del nuovo dio Antinoo. Tale teoria, che ha avuto largo seguito, implica anche un altro presupposto, ugualmente da rigettare: che l’imperatore avesse voluto rappresentare qui l’“Egitto del viaggio”, alludendo al viaggio in Egitto nel quale era morto il giovane favorito.

In realtà, come provano i marchi di fabbrica presenti sui laterizi, la costruzione del Canopo va collocata in una data decisamente antecedente al 130 d.C. e l’edificio noto come Canopo va piuttosto interpretato come una rappresentazione evocativa di un ambiente egizio in senso esotico, un giardino nilotico destinato ai banchetti, analogamente al canale sul delta del Nilo, famoso per le feste che vi si svolgevano.

Nel Seicento la villa si estendeva su una superficie di circa 120 ettari, di cui oggi solo 40 sono visitabili. Dieci ettari sono, invece, occupati dall’Accademia di proprietà della famiglia Bulgarini che possiede il terreno dal ’600 ed è responsabile degli scavi nella zona che conducono alla scoperta di numerosi reperti, tra i quali i candelabri Barberini, ora ai Musei Vaticani.

Concludo l’elaborato con l’esame di uno dei testi preganti per la traduzione del geroglifico egizio in età Kircheriana: I geroglifici di Horapollo, l’unica opera sistematica pervenutaci integra dall’antichità sull’interpretazione dei geroglifici egiziani, giacché degli altri pochi trattati sul medesimo argomento attestati dalle fonti (il più famoso dei quali fu composto da Cheremone, sacerdote e filosofo stoico, vissuto nel I sec. d.C.) ci restano soltanto sporadiche citazioni in alcuni scritti di autori greci e latini.

Fino al ’400 l’opera di Horapollo fu totalmente sconosciuta in Occidente e sembra che essa fosse pressoché ignota anche in Oriente: gli scrittori bizantini preferiscono infatti attingere le informazioni da Cheremone quando trattano problemi inerenti alla scrittura egiziana.

Soltanto dal XV sec., quando furono divulgate alcune traduzioni latine anteriori alla prima edizione a stampa del testo greco pubblicato a Venezia nel 1505 da Aldo Manuzio, quest’opera ha cominciato ad attirare l’attenzione degli studiosi, che fino al XVII sec. la ritennero molto antica, al pari degli scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto, e quindi in grado di far conoscere parte di quell’arcano e remotissimo sapere egiziano, verso il quale già Pitagora Erodoto e Platone avevano mostrato rispetto e ammirazione.

In realtà dal Settecento i filologi si sono resi conto che il trattato di Horapollo (o piuttosto il rifacimento che Filippo ne fece) fu composto in epoca tarda: è scritto in un greco poco accurato, senza concedere nulla o pochissimo alle finezze della elaborazione letteraria, al punto che in taluni passi l’esposizione risulta contorta e oscura.

Questa constatazione smorzò gli entusiasmi che l’opera aveva suscitato al punto tale che si sospettò che essa fosse addirittura una falsificazione umanistica, quindi non meritevole di essere presa in seria considerazione.

Bisogna attendere gli inizi del XIX sec. per una parziale rivalutazione di questo trattato, quando lo Champollion, fondatore della moderna egittologia, intuì le prime corrispondenze tra alcuni geroglifici descritti da Horapollo e i segni ideografici usati nei testi e sui monumenti egiziani.

I Geroglifici sono un trattato catalogico costituito da 2 libri e comprendente rispettivamente 70 e 119 capitoli, in cui sono descritti e spiegati circa 200 ideogrammi.

Nel I libro sono raccolti in sezioni abbastanza omogenee concetti attinenti alla cosmologia, alla teologia, all’astronomia, alla liturgia, etc., che talvolta risultano affini con quelli esposti nel Corpus Hermeticum.

Horapollo prende lo spunto da elenchi di geroglifici, suddivisi per categorie, arricchendone la spiegazione con ampie digressioni, desunte da fonti più o meno attendibili, che gli fornivano informazioni utili per la conoscenza del pensiero scientifico-religioso e, in generale, della civiltà egiziana.

Nella trattazione del I libro l’autore si avvale di due criteri espositivi: col primo privilegia i concetti a cui corrispondono i diversi segni grafici che li esprimono, col secondo dà rilievo ai diversi significati espressi da un ideogramma, raccogliendoli in uno o più capitoli successivi.

L’esposizione non segue né un ordine alfabetico, né un evidente schema logico consequenziale, anzi in alcuni casi non risulta affatto perspicua la relazione di un paragrafo con quello successivo o con quello che precede, forse a causa di un maldestro rimaneggiamento effettuato in tempi successivi alla composizione.

Tuttavia si nota come Horapollo abbia cercato di organizzare i capitoli seguendo un criterio associativo, grazie al quale i concetti si legano l’uno all’altro per analogia o per opposizione, oppure per affinità formale dei segni.

Nei capitoli conclusivi, Horapollo riprende i concetti astronomici con i quali ha iniziato il trattato: torna a parlare del segno che raffigura il mese, prima di soffermarsi sugli ideogrammi che indicano il sorgere del sole, il tramonto e infine l’oscurità.

L’opera di Horapollo rientra nel gruppo degli scritti antiquari composti da un ristretto gruppo di eruditi e filosofi egiziani, fieri oppositori del Cristianesimo, che frequentavano nel V sec. l’Accademia ad Alessandria.

La riduzione dei geroglifici a ideogrammi, privi di qualsiasi valore fonetico, permette tuttavia di inserire nell’opera, senza alcuna stridente contraddizione, segni estranei alla scrittura, che erano comunemente impiegati nelle arti figurative per il loro valore emblematico o per il loro valore allegorico nel linguaggio letterario di testi provenienti da culture diverse da quella egiziana, trasformando spesso l’opera in un manuale di simbologia e tradendo i motivi che avevano portato alla composizione dell’opera, ossia offrire un valido strumento esegetico che permettesse di rendere nuovamente intelligibili gli antichi testi teologici e liturgici, scritti in geroglifico, cosí da recuperare idealmente anche quella identità nazionale, che rischiava di andare perduta con l’introduzione di divinità e culture straniere in Egitto.

D’altra parte, che questo sistema di scrittura fosse decifrabile dando ai segni solo un valore iconico, i segni vengono ad avere la forma di animali, ignorandone quello fonetico, non è una convinzione peculiare di Horapollo poiché essa è diffusa presso gli scrittori del I secolo a.C.[37].

Il problema posto dall’individuazione delle fonti è particolarmente importante, perché in sostanza coincide con quello della cultura dell’ambiente di Horapollo.

 A priori possiamo ammettere che egli si sia servito sia di fonti scritte che di informatori orali, ed inoltre che egli abbia riferito cose che erano più o meno ben conosciute nel suo ambiente per tradizione o per esperienza diretta.

Orbene, se prendiamo in considerazione il mero dato quantitativo, rileviamo che su un totale di 162 geroglifici l’interpretazione è (più o meno) vera in circa 90 casi, ossia nel 57% del totale: ciò mostra inequivocabilmente che il sapere al quale faceva riferimento Horapollo era complessivamente di qualità mediocre.

La percentuale è inoltre troppo bassa per ammettere che Horapollo avesse una reale conoscenza del sistema geroglifico egiziano, come del resto tutti gli studiosi hanno sino ad oggi riconosciuto.

Ci sono, tuttavia, attribuzioni di significato corrette argomentate scorrettamente, il che è quasi la norma, ed attribuzioni scorrette che hanno però alla base un sapere genuino[38].

Il problema delle fonti è complesso soprattutto per la compresenza di fonti scritte ed orali, di buona e di mediocre qualità, di lingua greca e di lingua egiziana. Inoltre, c’è disparità tra la qualità dell’informazione grafica e quella culturale.

L’uso e la conoscenza dei geroglifici venne declinando durante i primi secoli dell’era volgare, quando i programmi di edilizia sacra degli imperatori romani si arrestarono ed i templi si impoverirono in maniera grave ed irreversibile, la loro autonomia era andata perduta da molto tempo.

Possiamo concludere che la passione per il simbolo egizio affonda le sue radici già in epoche antiche ma è con l’esperienza di Kircher a Roma che ha la sua più ampia diffusione. Come si è potuto comprendere, tutti gli artisti che entrarono in contatto con il monaco gesuita hanno subito il fascino della cultura egizia dando vita a grandi capolavori che rapiscono l’attenzione di coloro che gli osservano.





NOTE

[1] MARRONE 2002, pp. 50-52.

[2] SOLINAS 2000.

[3] RIVOSECCHI 1982, p. 141.

[4] VIGLIAROLO 2013, pp. 2-4.

[5] ZICARI E BAUVAL 2014.

[6] PONTANI 2014, pp. 72-79.

[7] MARRONE 2002, pp. 13-14.

[8] CATTABIANI 2012, p. 175.

[9] ALFUSO 2015. p. 15.

[10] CATTABIANI 2012, pp. 178-179.. -59.Laterza 2004, pp'a di Giovan enzo Bernini, 9, pp. 84-86.

[11] PARTINI 2007, pp.56-61.

[12] ALFUSO 2015. p. 15.

[13] PARTINI 2007, p. 61.

[14] PARTINI 2007, p. 62.

[15] BARTOLA 1991, pp. 30-31.

[16] FAGIOLO 2002, pp. 109-110.

[17] Cfr. Jean Claude Grenier, L’Osiris Antinoos, Montpellier, 2008.

[18] Ibidem.

[19] ROMEO DI COLLOREDO, 2005, p. 7.

[20] Ibidem.

[21] ROMEO DI COLLOREDO 2005, p. 6.

[22] PICCHI 2005.

[23] BERTELLI 2009, vol. 3, p. 180.

[24] Ibidem, p.180.

[25] CROPPER 1996. p. 96.

[26] Ibidem, p. 96.

[27] BERTELLI  2009, vol 3, p 180.

[28] BELLORI 1976, vol. II.

[29] ACCADEMIA DI FRANCIA A ROMA VILLA MEDICI, 1978, pp. 194-195.

[30] FLAVIO 2006, libro II, cap 9,7.

[31] VOLPI 2008, L’Egitto nella Roma barocca, pp. 167-171.

[32] BONFAIT 2000, p. 106.

[33] URBINI 1993, pp. 198-122.

[34] ZEVI 2011, p. 3.

[35] CAPRIOTTI VITOZZI 2010, pp. 105-115.

[36] PAPPALARDO 2010, pp. 125-130.

[37] HORAPOLLO 2000, p. 5-18.

[38] Ibidem, p. 21 -22.




BIBLIOGRAFIA

 

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BONFAIT 2000

Olivier BONFAIT, Intorno a Poussin, ideale classico e epopea Barocca tra Roma e Parigi, Roma, ed. De Luca, 2000.

 

CAPRIOTTI VITOZZI 2010

Giulio CAPRIOTTI VITOZZI, L’Egitto a Preneste, Roma, Fabrizio Serra Editore, 2010.

 

CATTABIANI 2012

Alfredo CATTABIANI, Simboli, miti e misteri di Roma, Roma, Newton Roma Editori, 2012.

 

CROPPER 1996

Elizabeth CROPPER, Charles DEMPSEY, Nicolas Poussin Friendship and the Love of Painting, Princeton 1996.

 

FAGIOLO 2002

Maurizio FAGIOLO, Berniniana: novità sul regista del Barocco, Milano, Skira, 2002.

 

FAGIOLO 2004

Maurizio FAGIOLO, L’immagine al potere: Vita di Giovan Lorenzo Bernini, Roma, Laterza 2004.

 

FLAVIO 2006

Giuseppe FLAVIO, Antiquitates Iudaicae (a cura di L. Moraldi), Torino, UTET, 2006.

 

HORAPOLLO 2002

HORAPOLLO, Trattato sui geroglifici, Napoli, Il Torcoliere, 2002.

 

MARRONE 2002

Caterina MARRONE, I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Viterbo, Stampa Alternativa, 2002.

 

PAPPALARDO 2010

Umberto PAPPALARDO, Mosaici greci e romani, tappeti di pietra in età ellenistico romana, Verona, Arsenale Editore, 2010.

 

PARTINI 2007

Anna Maria PARTINI, Alchimia, architettura, spiritualità in Alessandro VII, Roma, Edizioni Mediterranee, 2007.

 

PICCHI 2005

Daniela PICCHI, Suggestioni culturali e sopravvivenze iconografiche dell’Antico Egitto nella medaglistica italiana del XVII secolo: gli obelischi, tesi di laurea in Numismatica, Facoltà di Lettere, Bologna 2005.

 

PONTANI 2014

Francesca PONTANI, La piramide Cestia in “MediterraneoAntico Digital Magazine di Egittologia.net”, n.1, 2014.

 

RIVOSECCHI 1982

Valerio RIVOSECCHI, Esotismo in roma barocca, Roma, Bulzoni Editore, 1982.

 

ROMEO DI COLLOREDO 2005

Pierluigi ROMEO DI COLLOREDO, L’ Obelisco Adriano al Pincio ed il presunto Antinoeion di Villa Adriana, Roma, Premio Andrea Durantini, 2005.

 

SOLINAS 2000

Francesco SOLINAS, I segreti di un collezionista: le straordinarie raccolte di Cassiano dal Pozzo 1588-1657, cat. della mostra (Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Barberini 29 settembre-26 novembre 2000), Roma 2000.

 

URBINI 1993

Silvia URBINI, Il mito di Cleopatra: motivi ed esiti della sua rinnovata fortuna tra rinascimento e barocco in “Xenia Antiqua”, II, 1993.

 

VIGLIAROLO 2013

Paolo VIGLIAROLO, L’Iseo campense tra mito e archeologia, in Ricostruire l’antico, Siviglia 2009.

 

VOLPI 2008

Caterina VOLPI, Filosofo nel dipingere. Salvator Rosa tra Roma e Firenze (1639-1659), in Salvator Rosa tra mito e magia, cat. della mostra (Napoli, Gallerie Nazionali di Capodimonte 18 aprile-29 giugno 2008), Napoli 2008, pp. 28-46.

 

ZEVI 2011

Fausto ZEVI, Il mosaico nilotico di Palestrina, Roma, La Notizia, 26 Febbraio 2011. 

 

 

SITOGRAFIA

 

ZICARI E BAUVAL 2014

Sandro ZICARI e Robert BAUVAL, “La Divina Sapienza” a Palazzo Barberini a Roma. Un talismano ermetico per il Papa?,  www.sandrozicari.com, 2014.



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