Questo volume, che riproduce l'ultimo e il più importante dei nove
saggi contenuti nella raccolta "Methodisches zur Kunsthistorischen
Praxis" pubblicata a Monaco nel 1977, è il frutto di una serie di
conferenze che Otto Pächt (1902-1988) tenne all'Università
di Vienna nell'inverno 1970-71. L'edizione italiana è preceduta da un
Ricordo dello studioso austriaco scritto dall'amico e collega Otto
Demus in occasione della sua morte. Purtroppo poco conosciuto in
Italia - l'unico altro libro tradotto nella nostra lingua "La
miniatura medievale" (1987) si deve all'attenzione della medesima
casa editrice torinese -, Pächt si formò a Vienna con M.Dvorak
e J.von Schlosser.
Decisivo per l'orientamento dei suoi studi fu il pensiero di Alois Riegl, di cui già nel 1926 curò una nuova edizione del capolavoro "Arte tardoromana" (1905), mentre nel 1966 si occupò della pubblicazione del manoscritto (1897-98) "Grammatica storica delle arti figurative" (Bologna, Nuova Universale Cappelli, 1983). Se accolse con entusiasmo le teorie
della Gestaltpsycologie, egli guardò invece sempre con scetticismo
gli studi di tipo iconologico portati avanti dal Warburg Institut
di Londra, con cui venne in contatto durante gli anni del
soggiorno inglese (1936-63). La sua ricca bibliografia annovera
studi di grande importanza sull'arte fiammminga del '400 e sulla
miniatura medievale.
Nate nell'ambito di un seminario universitario e rivolte dunque ad
un pubblico di specialisti, queste riflessioni metodologiche
affrontano alcuni aspetti pratici di "deontologia professionale"
relativi al mestiere di storico dell'arte, al fine di individuare
strumenti e metodi che possano favorire la comprensione della
singola opera d'arte. L'assunto da cui prende avvio la discussione
è chiaro: se la storia dell'arte vuole rivendicare per se stessa
il rango di una scienza esatta che sottopone le proprie ipotesi al
controllo di una verifica costante e rigorosa, allora "rispetto ad
altri procedimenti e ad altri punti di vista il metodo storico
basato sulla critica stilistica ha il vantaggio incontestabile di
poter verificare le sue affermazioni". Vale a dire che "la lettura
corretta di un'opera sarà quella che consente di stabilire nessi
convincenti sia col prima e col dopo, sia con le opere a essa
contemporanee". Ecco allora che nell'analisi di Pächt il problema
dell'attribuzione diviene momento centrale del processo cognitivo:
posto che la possibilità di una storia dell'arte dipenda dalla
possibilità di assegnare un'opera ad un momento preciso del tempo
e ad un luogo preciso nello spazio, datare un'opera non è una mera
questione classificatoria ma una questione di contenuto in quanto
solo una attribuzione e una datazione corrette forniscono la
giusta prospettiva in cui inserire l'opera permettendole di
manifestare la sua essenza. Ovviamente, sottolinea Pächt,
l'attribuzione non è un atto di magia nè la dimostrazione
di capacità rabdomantiche, ma dipende dalle leggi proprie della
percezione, così come dalla corretta applicazione del metodo
comparativo: solo attraverso un processo di differenziazione
crescente, per via di confronti progressivi che mettano in luce le
somiglianze come le differenze, è possibile cogliere la
specificità di una certa forma artistica.
Altro strumento fondamentale per il riconoscimento e la
comprensione dell'opera d'arte - intesa come "intreccio di
significati e forme visibili" - è l'iconografia, il cui compito
è, seguendo le parole dell'autore, "fornire ai nostri organi di
ricezione le informazioni necessarie a surrogare un'abitudine
visiva che varia col variare delle situazioni storiche":
l'iconografia "ci aiuta a riattivare il sapere implicito di
un'opera", in quanto il significato di quanto vediamo non è
un'aggiunta a posteriori ma è già contenuto
nell'impressione sensibile immediata ("vedere comprendente").
Partendo dalla rivendicazione della specificità espressiva
dell'opera d'arte, Pächt si schiera con vigore polemico nei
confronti dell'iconologia intesa come chiave d'accesso
privilegiata per la comprensione dell'opera d'arte: "cercare di
stabilire con la maggior chiarezza possibile che cosa un'opera
d'arte figurativa debba a un contenuto ideale formulabile
verbalmente è un compito legittimo e importante per la nostra
disciplina. Non si può tuttavia dimenticare che il significato
dell'opera d'arte come creazione estetica può rivelarsi solo a
condizione di interrogare il dato stilistico".
Invece l'indirizzo radicalmente iconologico degli studi storico-artistici, secondo
Pächt, ha portato ad una sopravvalutazione del ruolo
dell'intenzione cosciente dell'artista nella creazione artistica
nonchè ad una eccessiva intellettualizzazione dell'opera d'arte,
ridotta a mezzo linguistico di una realtà più comprensiva.
Il libro, anche se "datato", rimane di grande attualità per la
ricchezza di spunti critici che offre al lettore. Il procedere
serrato della discussione è sapientemente orchestrato con una
vasta gamma di esempi tratti dall'ampio raggio di interessi
dell'autore, spaziante dalle miniature medievali alle incisioni
cinquecentesche, dalla scultura di Donatello all'architettura di
Brunelleschi, dagli affreschi paleocristiani alla pittura di
Rogier van der Weyden, Mantegna, Rembrandt, Vermeer, Caravaggio.
Tra i suoi interlocutori, un ruolo privilegiato è accordato a Hans
Sedlmayr, considerato il fondatore dell'analisi strutturale
applicata all'arte, valente continuatore della scuola riegeliana,
che ha fruttuosamente applicato all'arte moderna il discorso
impostato dal grande studioso viennese.
Otto Pächt, Metodo e prassi nella storia dell'arte
Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 150.
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