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Otto Pächt,
Metodo e prassi nella storia dell'arte
Torino,
Bollati Boringhieri, 1994
Daria Colonna
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 6 (19 ottobre 1994)
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Area Libri

Questo volume, che riproduce l'ultimo e il più importante dei nove saggi contenuti nella raccolta "Methodisches zur Kunsthistorischen Praxis" pubblicata a Monaco nel 1977, è il frutto di una serie di conferenze che Otto Pächt (1902-1988) tenne all'Università di Vienna nell'inverno 1970-71. L'edizione italiana è preceduta da un Ricordo dello studioso austriaco scritto dall'amico e collega Otto Demus in occasione della sua morte. Purtroppo poco conosciuto in Italia - l'unico altro libro tradotto nella nostra lingua "La miniatura medievale" (1987) si deve all'attenzione della medesima casa editrice torinese -, Pächt si formò a Vienna con M.Dvorak e J.von Schlosser.

Decisivo per l'orientamento dei suoi studi fu il pensiero di Alois Riegl, di cui già nel 1926 curò una nuova edizione del capolavoro "Arte tardoromana" (1905), mentre nel 1966 si occupò della pubblicazione del manoscritto (1897-98) "Grammatica storica delle arti figurative" (Bologna, Nuova Universale Cappelli, 1983). Se accolse con entusiasmo le teorie della Gestaltpsycologie, egli guardò invece sempre con scetticismo gli studi di tipo iconologico portati avanti dal Warburg Institut di Londra, con cui venne in contatto durante gli anni del soggiorno inglese (1936-63). La sua ricca bibliografia annovera studi di grande importanza sull'arte fiammminga del '400 e sulla miniatura medievale.

Nate nell'ambito di un seminario universitario e rivolte dunque ad un pubblico di specialisti, queste riflessioni metodologiche affrontano alcuni aspetti pratici di "deontologia professionale" relativi al mestiere di storico dell'arte, al fine di individuare strumenti e metodi che possano favorire la comprensione della singola opera d'arte. L'assunto da cui prende avvio la discussione è chiaro: se la storia dell'arte vuole rivendicare per se stessa il rango di una scienza esatta che sottopone le proprie ipotesi al controllo di una verifica costante e rigorosa, allora "rispetto ad altri procedimenti e ad altri punti di vista il metodo storico basato sulla critica stilistica ha il vantaggio incontestabile di poter verificare le sue affermazioni". Vale a dire che "la lettura corretta di un'opera sarà quella che consente di stabilire nessi convincenti sia col prima e col dopo, sia con le opere a essa contemporanee". Ecco allora che nell'analisi di Pächt il problema dell'attribuzione diviene momento centrale del processo cognitivo: posto che la possibilità di una storia dell'arte dipenda dalla possibilità di assegnare un'opera ad un momento preciso del tempo e ad un luogo preciso nello spazio, datare un'opera non è una mera questione classificatoria ma una questione di contenuto in quanto solo una attribuzione e una datazione corrette forniscono la giusta prospettiva in cui inserire l'opera permettendole di manifestare la sua essenza. Ovviamente, sottolinea Pächt, l'attribuzione non è un atto di magia nè la dimostrazione di capacità rabdomantiche, ma dipende dalle leggi proprie della percezione, così come dalla corretta applicazione del metodo comparativo: solo attraverso un processo di differenziazione crescente, per via di confronti progressivi che mettano in luce le somiglianze come le differenze, è possibile cogliere la specificità di una certa forma artistica.

Altro strumento fondamentale per il riconoscimento e la comprensione dell'opera d'arte - intesa come "intreccio di significati e forme visibili" - è l'iconografia, il cui compito è, seguendo le parole dell'autore, "fornire ai nostri organi di ricezione le informazioni necessarie a surrogare un'abitudine visiva che varia col variare delle situazioni storiche": l'iconografia "ci aiuta a riattivare il sapere implicito di un'opera", in quanto il significato di quanto vediamo non è un'aggiunta a posteriori ma è già contenuto nell'impressione sensibile immediata ("vedere comprendente").

Partendo dalla rivendicazione della specificità espressiva dell'opera d'arte, Pächt si schiera con vigore polemico nei confronti dell'iconologia intesa come chiave d'accesso privilegiata per la comprensione dell'opera d'arte: "cercare di stabilire con la maggior chiarezza possibile che cosa un'opera d'arte figurativa debba a un contenuto ideale formulabile verbalmente è un compito legittimo e importante per la nostra disciplina. Non si può tuttavia dimenticare che il significato dell'opera d'arte come creazione estetica può rivelarsi solo a condizione di interrogare il dato stilistico".

Invece l'indirizzo radicalmente iconologico degli studi storico-artistici, secondo Pächt, ha portato ad una sopravvalutazione del ruolo dell'intenzione cosciente dell'artista nella creazione artistica nonchè ad una eccessiva intellettualizzazione dell'opera d'arte, ridotta a mezzo linguistico di una realtà più comprensiva. Il libro, anche se "datato", rimane di grande attualità per la ricchezza di spunti critici che offre al lettore. Il procedere serrato della discussione è sapientemente orchestrato con una vasta gamma di esempi tratti dall'ampio raggio di interessi dell'autore, spaziante dalle miniature medievali alle incisioni cinquecentesche, dalla scultura di Donatello all'architettura di Brunelleschi, dagli affreschi paleocristiani alla pittura di Rogier van der Weyden, Mantegna, Rembrandt, Vermeer, Caravaggio. Tra i suoi interlocutori, un ruolo privilegiato è accordato a Hans Sedlmayr, considerato il fondatore dell'analisi strutturale applicata all'arte, valente continuatore della scuola riegeliana, che ha fruttuosamente applicato all'arte moderna il discorso impostato dal grande studioso viennese.

Otto Pächt,
Metodo e prassi nella storia dell'arte
Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 150.



	
 

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