Artmakers non è un libro d'arte nel senso tradizionale
del termine. Germano Celant non affronta le sfaccettature della complessa società americana degli anni Sessanta e Settanta dall'alto di una ferma impostazione critica.
Inoltre, il fatto che il libro sia formato da brevi saggi scritti tra il 1972 e il 1984 conferma la volontà di non storicizzare "eventi" ancora in corso di formazione e sviluppo. Ed è da qui che nasce l'interesse per un libro che, finalmente, si occupa di "arte" con un'angolazione diversa (o forse addirittura originale?).
Artmakers è un esempio perfetto di come la parola arte
non significhi solamente pittura, musica, architettura ma, in un'accezione positiva e globale, cultura: Celant non fornisce risposte ma, intelligentemente, delinea uno stimolante panorama, non tanto dell'arte, quanto della "cultura" americana (ma non solo) degli ultimi venti/trent'anni.
Ma cosa vuole dire artmakers ? Risponde ovviamente l'autore: "Niente Montmartre, [...] piuttosto una Van Gogh Town dove la retorica della [...] trasgressione, cara agli espressionisti astratti ancora influenzati dalla visione baudeleriana dell'intellettuale maledetto, è stata sostituita dallo spirito puritano e dalla virtù lavoratrice della middle class nordica: niente più artisti, ma artmakers".
L'artmaker non ha, artisticamente, modelli di riferimento; l'artmaker non è un individuo che vaga (perdendosi ?) in onirici paradisi artificiali, ma è un naturale prodotto della democrazia culturale ( ? ) americana. È una figura perfettamente inserita nel contesto urbano in cui si viene a trovare (gli studi downtown e i loft ne sono un esempio) che vive l'espressione artistica ancora prima di studiarla (e fossilizzarla ?). Celant illustra benissimo questa condizione: "Rispetto alla situazione europea dove il sistema universitario approva solo la presenza dei teorici e degli storici dell'arte per relegare i praticanti nelle accademie, negli Stati Uniti l'arte è accettata come ricerca, e garantita da una formazione scientifica e da un addestramento specifico". Gli stessi musei, esclusi dal processo di costruzione dell'opera d'arte, non "veicolano alcunché, se non il valore della storia".
Ma, paradossalmente, Artmakers non è semplicemente un
libro sugli artmakers: ci si muove continuamente tra danza corporale,
arte ambientale, architettura letteraria, inespressionismo e
fotografia "infernale".
Celant non esita a portare l'arte in sentieri inesplorati, a
desacralizzarla, a metterla a contatto con le paranoie di una società paranoica: "In questa prospettiva [...] si possono assumere le iperboli sadomasochiste e pornografiche di Robert Mapplethorpe, quanto le scene necrofile e androgine di Joel Peter
Witkin. [...] Durante la seduta fotografica il sacerdote si contorce sino all'autofellatio, [...] i corpi accettano, nel fist fucking, dilatazioni contro la fisiologia. [...] L'universo di Witkin è [...] una soglia anale o vaginale che rivela tutti i suoi spurghi, fatti di lembi di carne, di teste decapitate e di
feticci".
Non ha più senso chiedersi se una determinata cosa possa considerarsi artistica; l'importante è un'analisi esaustiva e globale di tutti i fenomeni espressivi di un dato contesto culturale.
Ma dopo Germano Celant ? Cosa esprimono gli anni Novanta?
Aspettiamo "Artmakers 2"...
Germano Celant, Artmakers, Feltrinelli 1984 - Lire 50000
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