Si sta per concludere una mostra a Roma a Villa Medici intitolata
Roma 1630 il trionfo del pennello.
Chi non l'ha ancora vista si affretti, in quanto è particolarmente
significativa per un più maturo approccio con il barocco romano
durante il pontificato di Urbano VIII (1623 - 1644).
Nella prima sala protagonista indiscusso è Poussin, giunto a Roma
fra il 1627 e il 1628 sotto la protezione del Cavaliere Marino.
Con la morte di Germanico (1627 - 1628) emerge la concezione della
vita quale teatro di passioni. Il ritmo è molto articolato e
vivacizzato da un cromatismo che richiama Tiziano.
Commissionato da Fabrizio Valguerra fu la peste di Asdod. In tale
opera non si può non notare la drammaticità delle figure umane
in preda alla più forte disperazione perché non hanno Dio e non
sono in grado di confrontarsi, in quanto uomini, con la morte.
Accanto a questo quadro del Poussin è inserita una incisione di
Jean Baron che riproduce la Peste di Asdod di Poussin.
Anche se l'incisione è piuttosto fedele all'originale, oserei dire
anche più rifinita e particolareggiata dell'originale, in Poussin
si avverte una pittura eseguita con mano, intelletto e cuore.
Segue l'allegoria della Divina sapienza di Andrea Sacchi.
È interessante l'effetto d'innanzi allo spettatore delle figure
di questo quadro: sono pregne di un colore intenso, forti nel
voler essere e nel voler esistere come immagini.
Nella seconda sala la cartella informativa sottolinea come intorno
al 1630 a Roma maturò l'idea di Galleria, un'idea in cui entra in
gioco lo spettatore quale complice e critico dell'artista.
Giulio Cesare Mancini, medico personale di Urbano VIII aveva
suggerito di usare i pennelli non più per scherzo ma per otium, un
otium inteso come un arricchimento culturale non disgiunto dal
diletto. Siamo nel vivo del barocco degli anni '30 con i suoi
fermenti, dibattiti e contrasti.
Andrea Sacchi studioso di Raffaello e Annibale Carracci sostiene
una pittura con pochi ma imponenti soggetti.
Pietro Da Cortona invece insiste su una pittura complessa animata
da un susseguirsi di forme, colori, figure per ottenere una
dimensione maestosa e grandiosa dell'immagine.
Nella terza sala abbiamo l'opera Il ratto di Elena di Guido Reni
che sembra avvicinarsi alla concezione della pittura di Andrea
Sacchi. Si tratta di una pittura attenta e meditata. Lo spettatore
non può non vedere il putto in piedi in basso sulla destra che
ricambia un pò maliziosamente lo sguardo dello spettatore.
Le figure di Reni sono liriche ma anche fortemente elaborate.
Altra opera significativa è Il ratto delle sabine di Cortona
dove colori intensi, una gestualità esasperata, un vortice di
teste, mani braccia, figure confermano la teoria dell'artista
precedentemente detta.
Nella Morte di Didone del Guercino risalta la teatralità e la
preziosità della composizione. L'impressone che si ha è
di scivolare nel mito dolcemente e lo spettatore si lascia trascinare
consenziente, almeno così ho potuto riscontrare dalla reazione del
pubblico che sfilava d'innanzi alla tela.
In Mosè salvato dalle acque di Gentileschi risalta subito il
vortice di mani delle donne che sottolinea la posizione centrale
del neonato. E' un'opera esattamente al confine fra sacro e
profano. Sacro in quanto Mosè rimane sempre il fulcro della
composizione, profano nelle donne molto sensuali. In particolare
una fanciulla che dà le spalle allo spettatore il quale non
può non rimanere affascinato dal suo seno intravisto e dalla gamba
scoperta.
Nella sala successiva dominano due discepoli di Annibale Carracci
a Roma Lanfranco e Domenichino. Lanfranco è contraddistinto da uno
spirito romantico, ha una concezione che rispecchia l'eredità del
Correggio nell'elaborazione illusionistica dello spazio.
Angelica e Medoro del Lanfranco è un'opera il cui protagonista
è lo sguardo, lo sguardo innamorato, intenso dolce dei due giovani.
L'abilità dell'artista è di coinvolgere il pubblico che
ponendosi di fronte al quadro si trova fra la mano sinistra sollevata di
Angelica e l'andamento orizzontale del braccio destro di Medoro.
Domenichino si attiene al classicismo, e a una severa grandezza
nella Caccia di Diana, ma non rimane insensibile al desiderio di
coinvolgere una deliziosa complicità lo spettatore per esempio
nella bambina nuda in acqua che guarda lo spettatore.
Segue Massimo Stazione con Orfeo e le baccanti, dove le figure
più pesanti e consistenti e soprattutto molto realistiche ci fanno
pensare a un possibile influsso esercitato sull'artista dal
Caravaggio.
Sempre qualche reminiscenza caravaggesca si avverte Nella morte
di Catone di Von Sandrart. Tale opera per impostazione è
decisamente barocca.
Tutto è incentrato sulla figura di Catone disteso a terra
illuminato sa una torcia nascosta solo allo spettatore da un
braccio di un soldato. La morte non è vista in maniera inquietante
né fredda, e come se l'autore dicesse: " questa è la
morte di un uomo, io ve la mostro ".
Si nota anche un coinvolgimento emotivo dei personaggi che
circondano Catone, ma si può dire che la loro funzione è
di accompagnare lo sguardo dello spettatore verso il protagonista
della tela.
La mostra si conclude con un quadro che ha incuriosito molto il
pubblico: Le quattro età dell'uomo di Valentin De Boulogne che
certo doveva conoscere Caravaggio. Il fanciullo guarda lo
spettatore con in mano una gabbia aperta, anche il giovane lo
guarda ma con in mano uno strumento musicale. L'uomo adulto invece
dorme indossando un'armatura e avendo tra le mani un libro aperto.
Il vecchio torna a guardare il pubblico fra una brocca di vino e
un calice con di fronte un mucchietto di monete.
E' chiaro che nessuna di queste quattro figure è contenta della
fase che sta vivendo. Si parla di un vivere estremamente
materialistico; non c'è speranza, non ci sono prospettive solo il
tempo che è un gran tiranno.
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