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La porta bronzea di San Pietro a Roma del Filarete:
Contributo per una rilettura
Roma,
Università "La Sapienza"
Angela Cianfarini
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 37 (20 dicembre 1994)
http://www.bta.it/txt/a0/00/bta00037.html
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Nel presentare la tesi di laurea (20 luglio 1994, relatore dr.ssa Anna Cavallaro, correlatore dott. Mino Gabriele) dal titolo: "Iconografia e significati della Porta Bronzea del Filarete in San Pietro", si è proposta una rilettura dell'opera, fondata innanzitutto sull'analisi dei bassorilievi costituenti l'intera ornamentazione dei battenti, suddivisibile in quattro sezioni.

Nella prima, quattro tavole centrali con, dall'alto: il Pantocrator e l'Annunciata; seguono con dimensioni maggiori, San Pietro Fondatore che consegna le Chiavi a Papa Eugenio IV Condulmer (1431-1447) 'ginocchionì, San Paolo apostolo gentium e due sottostanti riquadri con i martirii degli Apostoli, presieduti da un Nerone ritrattistico, in cui tra gli armigeri, si sono individuati due nuovi (auto)ritratti averliniani ed uno di Eugenio IV.

Nella seconda sezione: quattro bandelle cronachistiche e laudatorie del Pontefice regnante, con scene dell'incoronazione imperiale di Re Sigismondo di Baviera (1433), e quelle conclusive del Concilio di Firenze (1439-1443), in cui si pervenne alla riunione delle Chiese d'Oriente e d'Occidente; aggiunte in corso d'opera con il verificarsi degli avvenimenti e risultante essere la prima inserzione di eventi contemporanei in un'opera d'arte.

Nella terza sezione, probabilmente quella iniziale: cornici ornate con girali d'acanto tra i quali sono diffuse, oltre a satiri, ninfe, fauna e flora, circa settanta vignette di carattere profano illustranti episodi mitici, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio e Bucoliche di Virgilio; episodi storici, da V. Massimo, T. Livio e favolistici da Esopo.

Scandiscono le diverse scene ventisei medaglioni con le effigi di imperatori romani ed illustri personaggi, esemplate su conii monetali (v. Tesi, p. 217 e ss.).

Le tematiche ed i soggetti di cui sopra, effettuatane la schedatura totale e completatone il riconoscimento, sono stati visualizzati redigendo un atlante-legenda, utile per individuare la loro collocazione nella porta, con l'ausilio per i rinvii di un album fotografico allegato alla tesi.

L'ultima sezione è costituita da una scenetta postica, situata nel basso dell'anta sinistra, vista dal Vasari come 'festosa gita alla vignà per celebrare il termine del lavoro, della quale si è proposta una rilettura.

Poi, stante la carenza della documentazione archivistica relativa al 'programmà originario che riconducesse all'iconografia descritta, se ne è tentata una ricostruzione mirante a percepire gli intenti della committenza, prima di esaminare quelli realizzativi dell'esecutore.

È risultato che l'opera filaretiana fu intrapresa nell'ambito della Restauratio Urbis, sulla scia dell'operato di Martino V, in sostituzione della porta lignea esistente, innanzitutto per ripristinare lo splendore dell'antica Porta Argentea voluta da Leone IV (847-855) e rapinata dai Saraceni nel IX secolo.

Parrebbe lecito arguire che a questa primaria motivazione, glorificante in primo luogo, le figure neotestamentarie centrali, Eugenio IV intendesse che nei due pannelli dei martirii fosse ben evidenziata la presenza dell'imperatore Nerone, visto quale simbolo degli antichi, sconfitti persecutori della nuova religione. E con ciò inviare un monito chiaro anche ai nemici odierni (e futuri) della Chiesa, i quali si adunavano nel perdurante Concilio di Basilea (1431-1449). Dove i Vescovi 'conciliaristì, tra cui anche gli hercules eugenianei come il Cusano, scrive il Piccolomini anch'egli presente, nel clima di riforma della Chiesa in capite et membris attentavano alla supremazia papale sulla gerarchia, nonché alla sovranità temporale e minacciavano un nuovo scisma, nel momento in cui Roma trattava con Costantinopoli l'agognata riunificazione (Il Macek chiama la prima metà del XV secolo l'età del Conciliarismo). Quindi, riaffermare nel bronzo, perciò alla vista perenne di ciascuno, come essi, tutti, in definitiva risulteranno hostes transeunti quali meteore, nella già millenaria storia della Chiesa di Roma, contrapposti ai Sacrificati imperituri (v. Tesi, n. 5, p. 11 e ss.). A distanza di 563 anni papa Wojtyla in un'omelia natalizia (Castel Gandolfo, 26.XII.1994), ha riaffermato: "Se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane, forse la Chiesa non avrebbe avuto lo sviluppo che tutti conosciamo".

Così come sembra potersi ragionevolmente ammettere che le immagini nei girali abitati, furono inserite non solo per ornamentazione, ma quale testimonianza e soprattutto 'memorià di eventi mitici e favolistici, perciò stesso superati ed ormai innocui, seppur ancora fascinosi e qui riproposti in chiave moralizzata, ripresa dalle opere di Servio, Fulgenzio, Berchorius. Insieme a personaggi ed episodi dell'antica storia di Roma, quali "essempro" di virtù e coraggiosa dedizione civile da ereditare e vivificare di fronte alle insidie di ogni tempo. Ribadendo con tali citazioni anche quel primario spirito di 'assorbenzà che permea di sé il divenire del Cristianesimo, sentito anche quale erede del classicismo artistico-letterario e filosofico, oltre che, entro certi limiti, dello stesso potere imperiale.

L'esecuzione fu affidata ad Antonio Averlino (ca. 1400-1469), unico artista fiorentino di qualche nome disponibile a Roma intorno al 1433. Il quale, tramutando il programma in scultura, affronta l'operazione con l'ausilio dei suggerimenti dei dotti di corte, probabilmente in primo luogo del Biondo, con uno spirito di retaggio ancora medioevale, che non rifugge l'horror vacui, che deve compiacere quel gusto ancora attuale, ma che già intende rispettare la propria individualità di artista.

Egli, secondo l'insorgere dei tempi nuovi (il 'Rinascimento umbratilè del Longhi), tende alla riscoperta del mondo classico, sia nelle forme attraverso le vestigia in mostra nell'Urbe: sarcofagi, Colonna Traiana, reperti numismatici, oltre alle miniature medioevali ed ai cicli affrescati (ad es. quello del Masolino nel palazzo di Monte Giordano in Roma), e sia nella rilettura dei testi disponibili, seguendo la propria fantasia nel riproporre plasticamente episodi tratti da essi. Attento, inoltre, per innata curiosità, agli avvenimenti contemporanei di cui ci racconta, quanto al fare nuovo nell'arte italiana e fiamminga (ammiratore di Brunelleschi e di Fouquet) critico, sempre, verso la 'barbara praticaccià gotica.

Tanto sincretismo programmatico, quindi obbligato, mitico- storico-religioso e politico, fu compendiato dall'Averlino entro le misure di un, pur grande, portone evidenziando come la sua opera "corrisponda alla richiesta del committente" (Calvesi 1980). E quando occorra, presentando le scene con una prospettiva che, pur conoscendo gli esperimenti brunelleschiani e le teorie albertiane, rielaborati da lui stesso negli scritti, risulta piegata dall'Averlino alla propria necessità di racconto, sollevando ulteriore problema di analisi. Si è detto essere stato aiuto del Ghiberti durante la lavorazione della sua prima porta del Battistero fiorentino e provetto cesellatore-orafo esecutore di bronzetti e suntuaria, ma soprattutto appassionato, fantasioso 'architettò, sua autodefinizione privilegiata, sì da redigere in periodo di 'vacazionè, sulle orme di Vitruvio e con l'ausilio del Filelfo, il Trattato di architettura in XXV libri (1460-64), dedicato allo Sforza, primo testo del genere in lingua italiana.

"Penò dodici anni" (1433-1445) secondo il Vasari, per portare a termine le due valve, in tempi già duri di per sé, tra tumulti popolari dei colonnesi e l'esilio di Eugenio IV a Firenze (1434- 1443) e furono poste in sede il 15 agosto 1445 (incisione poco visibile nella bandella interna).

I contemporanei come il Biondo ed il Vegio, si limitarono ad esaltare il Committente per il meritorio restauro. Un primo giudizio critico sulla porta-scultura fu espresso dal Vasari (1550, 1568) secondo il quale fu risolta in "sciagurata maniera", con il solo evidente riferimento, epidermico e malevolo, all'apparentemente confusa molteplicità delle scene contenutevi e dell'incongruenza tra regresse raffigurazioni mitiche scolpite nelle cornici e quelle dedicatorie delle tavole centrali.

Mentre la scenetta postica, oltre all'interpretazione còlta dall'aretino, e se il senso del significato va recuperato al di là del senso iconografico, secondo il pensiero panofskiano, risulterebbe essere un inserto alquanto criptico ed emblematico, permeato dell'ironica amarezza di un autore deluso dal trattamento finale scarsamente remunerativo e gratificante, riservatogli dal committente e dai tanti 'altì personaggi raffigurati nella porta, come si evince anche dall'interpretazione dell'iscrizione superiore (incompleta) apposta nell'inserto: CETERIS / OPERE / PRETIUM / FASTUS /...MUS / VE / MIHI / HILARITAS, qui intesa come: "la ricompensa agli altri per il lavoro (è) fama (e) denaro, a me piuttosto hilaritas (denigrazione)" (V. tesi, p. 392 e ss.).

Il giudizio negativo vasariano fu sostanzialmente e pigramente ripreso per lungo tempo e neppure fu approfondito l'esame organico e globale del lavoro, né ricercando una linea unitaria dell'eventuale programma, né ponendolo in relazione al clima storico-culturale vissuto dalla Corte papale, che nel 1440 culminò nella polemica del Valla circa la Donazione costantiniana. Almeno sino alla vasta biografia di Lazzaroni e Munoz (1908), all'articolo di H. Roeder sui girali (1942) ed all'introduzione alla prima edizione in italiano del Trattato dovuto a L. Grassi (1972). Interventi, questi, che appaiono tra i più significativi per estensione o specificità tematica, ma non ricolleganti ancora compiutamente il giudizio sulla porta con l'intera opera di scultore-trattatista del Filarete, quindi con il suo pensiero, né con la personalità del Committente Condulmer e alle implicazioni del suo essere agostiniano, proveniente dal monastero veneziano di S. Giorgio in Alga; argomenti sviluppati nella tesi.

Infatti è nel Trattato di Architettura (1460-1464) che emerge il Filarete umanista maturo che rinvia a quello in nuce della porta e risultano le intenzioni con cui ha realizzato la decorazione vent'anni prima, dichiarando nell'appendice al Libro IV, intitolato "l'Astrologo e la fondazione della città", di voler nelle 'covertè di un libro, "fare in bronzo memoria di tutte le cose di questa nostra città ed anche degli uomini degni... e [ponendo] la virtù e il vizio in figure da me trovate e dentro ancora, certe altre moralità". E nel libro IX riferendosi alla utopica Sforzinda: "Le porte erano tutte di bronzo, dorate e scolpite con diverse storie... ed io ne feci un paio come quelle che hai visto in San Pietro di Roma le quali feci al tempo di Eugenio IV sommo Pontefice". E conclude: "A noi è piaciuto di fare questo in questa forma, con questi ornamenti... A chi piaccia ora di farne uno più ornato e più bello, faccilo ... Io so bene che in più modi se ne può fare e con vari ornamenti, a questo non intendo altro fare".

Manifestando inequivocabilmente la propria sostan1ziale indipendenza di artista e di uomo pre-rinascimentale; che si evidenzia, ancora, inserendo valenze esoteriche nel suo manoscritto, come nella denominazione delle porte della Città ideale, ad es. l'Areti e la Cachia nel Palazzo del Vizio e della Virtù, al cui culmine pone la stanza dell'Astrologia. Con palesi riferimenti alle traduzioni pre-umanistiche dall'arabo in latino del Picatrix, che egli potrebbe avere conosciuto. E ciò lascerebbe intravedere nel Trattato talune anticipazioni dello specifico fondamentalmente astrologico che sfocierà, di lì a qualche anno, nell'Hypnerotomachia Poliphili del Colonna (Manuzio, Venezia 1499). (v. Tesi, p. 420 e n. 42 pp. 431-432).

In definitiva l'opera vaticana risulterebbe esprimere una summa enciclopedica composta dalla ripresa di una mitologia moralizzata, dalla rilettura dei testi classici, da cui trarre episodi, da reminiscenze architettoniche ed antiquariali; il tutto alla luce del fondamentale carattere assorbente proprio del Cattolicesimo Romano, ferreo nei principi dogmatici della Fede, ma pragmatico e permissivo, in quel momento ricco di studi umanistici, essenzialmente neoplatonici. Per cui la "sciagurata maniera", ribadita dal Bottari (1689-1775) che propugnava addirittura la "distruzione della Porta" potrebbe ritenersi superata.

Con il citato lavoro di tesi si è cercato, sostanzialmente, di impostare una griglia sistematica di riferimenti tematici, riconoscimenti e di localizzazione, nell'atlante, delle sculture presenti sui battenti, con cui poter più agevolmente approfondire lo studio delle varie sezioni e dei loro particolari, per individuare e colmare le lacune ancora persistenti, sia iconografiche che iconologiche, e pervenire ad una rigorosa e possibilmente definitiva lettura dell'opera, una delle più emblematiche del '400 romano.



	
 

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