Nel presentare la tesi di laurea (20 luglio 1994, relatore dr.ssa
Anna Cavallaro, correlatore dott. Mino Gabriele) dal titolo:
"Iconografia e significati della Porta Bronzea del Filarete in San
Pietro", si è proposta una rilettura dell'opera, fondata
innanzitutto sull'analisi dei bassorilievi costituenti l'intera
ornamentazione dei battenti, suddivisibile in quattro sezioni.
Nella prima, quattro tavole centrali con, dall'alto: il
Pantocrator e l'Annunciata; seguono con dimensioni maggiori, San
Pietro Fondatore che consegna le Chiavi a Papa Eugenio IV
Condulmer (1431-1447) 'ginocchionì, San Paolo apostolo gentium e
due sottostanti riquadri con i martirii degli Apostoli, presieduti
da un Nerone ritrattistico, in cui tra gli armigeri, si sono
individuati due nuovi (auto)ritratti averliniani ed uno di Eugenio
IV.
Nella seconda sezione: quattro bandelle cronachistiche e
laudatorie del Pontefice regnante, con scene dell'incoronazione
imperiale di Re Sigismondo di Baviera (1433), e quelle conclusive
del Concilio di Firenze (1439-1443), in cui si pervenne alla
riunione delle Chiese d'Oriente e d'Occidente; aggiunte in corso
d'opera con il verificarsi degli avvenimenti e risultante essere
la prima inserzione di eventi contemporanei in un'opera d'arte.
Nella terza sezione, probabilmente quella iniziale: cornici ornate
con girali d'acanto tra i quali sono diffuse, oltre a satiri,
ninfe, fauna e flora, circa settanta vignette di carattere profano
illustranti episodi mitici, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio e
Bucoliche di Virgilio; episodi storici, da V. Massimo, T. Livio e
favolistici da Esopo.
Scandiscono le diverse scene ventisei medaglioni con le effigi di
imperatori romani ed illustri personaggi, esemplate su conii
monetali (v. Tesi, p. 217 e ss.).
Le tematiche ed i soggetti di cui sopra, effettuatane la
schedatura totale e completatone il riconoscimento, sono stati
visualizzati redigendo un atlante-legenda, utile per individuare
la loro collocazione nella porta, con l'ausilio per i rinvii di un
album fotografico allegato alla tesi.
L'ultima sezione è costituita da una scenetta postica, situata
nel basso dell'anta sinistra, vista dal Vasari come 'festosa gita
alla vignà per celebrare il termine del lavoro, della quale si
è proposta una rilettura.
Poi, stante la carenza della documentazione archivistica relativa
al 'programmà originario che riconducesse all'iconografia
descritta, se ne è tentata una ricostruzione mirante a percepire
gli intenti della committenza, prima di esaminare quelli
realizzativi dell'esecutore.
È risultato che l'opera filaretiana fu intrapresa nell'ambito
della Restauratio Urbis, sulla scia dell'operato di Martino V, in
sostituzione della porta lignea esistente, innanzitutto per
ripristinare lo splendore dell'antica Porta Argentea voluta da
Leone IV (847-855) e rapinata dai Saraceni nel IX secolo.
Parrebbe lecito arguire che a questa primaria motivazione,
glorificante in primo luogo, le figure neotestamentarie centrali,
Eugenio IV intendesse che nei due pannelli dei martirii fosse ben
evidenziata la presenza dell'imperatore Nerone, visto quale
simbolo degli antichi, sconfitti persecutori della nuova
religione. E con ciò inviare un monito chiaro anche ai nemici
odierni (e futuri) della Chiesa, i quali si adunavano nel
perdurante Concilio di Basilea (1431-1449). Dove i Vescovi
'conciliaristì, tra cui anche gli hercules eugenianei come il
Cusano, scrive il Piccolomini anch'egli presente, nel clima di
riforma della Chiesa in capite et membris attentavano alla
supremazia papale sulla gerarchia, nonché alla sovranità
temporale e minacciavano un nuovo scisma, nel momento in cui Roma trattava
con Costantinopoli l'agognata riunificazione (Il Macek chiama la
prima metà del XV secolo l'età del Conciliarismo).
Quindi,
riaffermare nel bronzo, perciò alla vista perenne di ciascuno,
come essi, tutti, in definitiva risulteranno hostes transeunti
quali meteore, nella già millenaria storia della Chiesa di Roma,
contrapposti ai Sacrificati imperituri (v. Tesi, n. 5, p. 11 e
ss.). A distanza di 563 anni papa Wojtyla in un'omelia natalizia
(Castel Gandolfo, 26.XII.1994), ha riaffermato: "Se non fosse
stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di
santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane, forse
la Chiesa non avrebbe avuto lo sviluppo che tutti conosciamo".
Così come sembra potersi ragionevolmente ammettere che le
immagini nei girali abitati, furono inserite non solo per
ornamentazione, ma quale testimonianza e soprattutto 'memorià di
eventi mitici e favolistici, perciò stesso superati ed ormai
innocui, seppur ancora fascinosi e qui riproposti in chiave
moralizzata, ripresa dalle opere di Servio, Fulgenzio, Berchorius.
Insieme a personaggi ed episodi dell'antica storia di Roma, quali
"essempro" di virtù e coraggiosa dedizione civile da ereditare e
vivificare di fronte alle insidie di ogni tempo. Ribadendo con
tali citazioni anche quel primario spirito di 'assorbenzà che
permea di sé il divenire del Cristianesimo, sentito anche quale
erede del classicismo artistico-letterario e filosofico, oltre
che, entro certi limiti, dello stesso potere imperiale.
L'esecuzione fu affidata ad Antonio Averlino (ca. 1400-1469),
unico artista fiorentino di qualche nome disponibile a Roma
intorno al 1433. Il quale, tramutando il programma in scultura,
affronta l'operazione con l'ausilio dei suggerimenti dei dotti di
corte, probabilmente in primo luogo del Biondo, con uno spirito di
retaggio ancora medioevale, che non rifugge l'horror vacui, che
deve compiacere quel gusto ancora attuale, ma che già intende
rispettare la propria individualità di artista.
Egli, secondo l'insorgere dei tempi nuovi (il 'Rinascimento
umbratilè del Longhi), tende alla riscoperta del mondo classico,
sia nelle forme attraverso le vestigia in mostra nell'Urbe:
sarcofagi, Colonna Traiana, reperti numismatici, oltre alle
miniature medioevali ed ai cicli affrescati (ad es. quello del
Masolino nel palazzo di Monte Giordano in Roma), e sia nella
rilettura dei testi disponibili, seguendo la propria fantasia nel
riproporre plasticamente episodi tratti da essi. Attento, inoltre,
per innata curiosità, agli avvenimenti contemporanei di cui ci
racconta, quanto al fare nuovo nell'arte italiana e fiamminga
(ammiratore di Brunelleschi e di Fouquet) critico, sempre, verso
la 'barbara praticaccià gotica.
Tanto sincretismo programmatico, quindi obbligato, mitico-
storico-religioso e politico, fu compendiato dall'Averlino entro
le misure di un, pur grande, portone evidenziando come la sua
opera "corrisponda alla richiesta del committente" (Calvesi 1980).
E quando occorra, presentando le scene con una prospettiva che,
pur conoscendo gli esperimenti brunelleschiani e le teorie
albertiane, rielaborati da lui stesso negli scritti, risulta
piegata dall'Averlino alla propria necessità di racconto,
sollevando ulteriore problema di analisi. Si è detto essere stato
aiuto del Ghiberti durante la lavorazione della sua prima porta
del Battistero fiorentino e provetto cesellatore-orafo esecutore
di bronzetti e suntuaria, ma soprattutto appassionato, fantasioso
'architettò, sua autodefinizione privilegiata, sì da redigere
in periodo di 'vacazionè, sulle orme di Vitruvio e con l'ausilio del
Filelfo, il Trattato di architettura in XXV libri (1460-64),
dedicato allo Sforza, primo testo del genere in lingua italiana.
"Penò dodici anni" (1433-1445) secondo il Vasari, per portare a
termine le due valve, in tempi già duri di per sé, tra
tumulti
popolari dei colonnesi e l'esilio di Eugenio IV a Firenze (1434-
1443) e furono poste in sede il 15 agosto 1445 (incisione poco
visibile nella bandella interna).
I contemporanei come il Biondo ed il Vegio, si limitarono ad
esaltare il Committente per il meritorio restauro. Un primo
giudizio critico sulla porta-scultura fu espresso dal Vasari
(1550, 1568) secondo il quale fu risolta in "sciagurata maniera",
con il solo evidente riferimento, epidermico e malevolo,
all'apparentemente confusa molteplicità delle scene contenutevi e
dell'incongruenza tra regresse raffigurazioni mitiche scolpite
nelle cornici e quelle dedicatorie delle tavole centrali.
Mentre la scenetta postica, oltre all'interpretazione còlta
dall'aretino, e se il senso del significato va recuperato al di là
del senso iconografico, secondo il pensiero panofskiano,
risulterebbe essere un inserto alquanto criptico ed emblematico,
permeato dell'ironica amarezza di un autore deluso dal trattamento
finale scarsamente remunerativo e gratificante, riservatogli dal
committente e dai tanti 'altì personaggi raffigurati nella porta,
come si evince anche dall'interpretazione dell'iscrizione
superiore (incompleta) apposta nell'inserto: CETERIS / OPERE /
PRETIUM / FASTUS /...MUS / VE / MIHI / HILARITAS, qui intesa
come: "la ricompensa agli altri per il lavoro (è) fama (e) denaro,
a me piuttosto hilaritas (denigrazione)" (V. tesi, p. 392 e ss.).
Il giudizio negativo vasariano fu sostanzialmente e pigramente
ripreso per lungo tempo e neppure fu approfondito l'esame organico
e globale del lavoro, né ricercando una linea unitaria
dell'eventuale programma, né ponendolo in relazione al clima
storico-culturale vissuto dalla Corte papale, che nel 1440 culminò
nella polemica del Valla circa la Donazione costantiniana. Almeno
sino alla vasta biografia di Lazzaroni e Munoz (1908),
all'articolo di H. Roeder sui girali (1942) ed all'introduzione
alla prima edizione in italiano del Trattato dovuto a L. Grassi
(1972). Interventi, questi, che appaiono tra i più significativi
per estensione o specificità tematica, ma non ricolleganti ancora
compiutamente il giudizio sulla porta con l'intera opera di
scultore-trattatista del Filarete, quindi con il suo pensiero, né
con la personalità del Committente Condulmer e alle implicazioni
del suo essere agostiniano, proveniente dal monastero veneziano di
S. Giorgio in Alga; argomenti sviluppati nella tesi.
Infatti è nel Trattato di Architettura (1460-1464) che emerge il
Filarete umanista maturo che rinvia a quello in nuce della porta e
risultano le intenzioni con cui ha realizzato la decorazione
vent'anni prima, dichiarando nell'appendice al Libro IV,
intitolato "l'Astrologo e la fondazione della città", di voler
nelle 'covertè di un libro, "fare in bronzo memoria di tutte le
cose di questa nostra città ed anche degli uomini degni... e
[ponendo] la virtù e il vizio in figure da me trovate e dentro
ancora, certe altre moralità". E nel libro IX riferendosi alla
utopica Sforzinda: "Le porte erano tutte di bronzo, dorate e
scolpite con diverse storie... ed io ne feci un paio come quelle
che hai visto in San Pietro di Roma le quali feci al tempo di
Eugenio IV sommo Pontefice". E conclude: "A noi è piaciuto di fare
questo in questa forma, con questi ornamenti... A chi piaccia ora
di farne uno più ornato e più bello, faccilo ... Io so bene che
in
più modi se ne può fare e con vari ornamenti, a questo non
intendo
altro fare".
Manifestando inequivocabilmente la propria sostan1ziale
indipendenza di artista e di uomo pre-rinascimentale; che si
evidenzia, ancora, inserendo valenze esoteriche nel suo
manoscritto, come nella denominazione delle porte della Città
ideale, ad es. l'Areti e la Cachia nel Palazzo del Vizio e della
Virtù, al cui culmine pone la stanza dell'Astrologia. Con palesi
riferimenti alle traduzioni pre-umanistiche dall'arabo in latino
del Picatrix, che egli potrebbe avere conosciuto. E ciò lascerebbe
intravedere nel Trattato talune anticipazioni dello specifico
fondamentalmente astrologico che sfocierà, di lì a qualche
anno,
nell'Hypnerotomachia Poliphili del Colonna (Manuzio, Venezia
1499). (v. Tesi, p. 420 e n. 42 pp. 431-432).
In definitiva l'opera vaticana risulterebbe esprimere una summa
enciclopedica composta dalla ripresa di una mitologia moralizzata,
dalla rilettura dei testi classici, da cui trarre episodi, da
reminiscenze architettoniche ed antiquariali; il tutto alla luce
del fondamentale carattere assorbente proprio del Cattolicesimo
Romano, ferreo nei principi dogmatici della Fede, ma pragmatico e
permissivo, in quel momento ricco di studi umanistici,
essenzialmente neoplatonici. Per cui la "sciagurata maniera",
ribadita dal Bottari (1689-1775) che propugnava addirittura la
"distruzione della Porta" potrebbe ritenersi superata.
Con il citato lavoro di tesi si è cercato, sostanzialmente, di
impostare una griglia sistematica di riferimenti tematici,
riconoscimenti e di localizzazione, nell'atlante, delle sculture
presenti sui battenti, con cui poter più agevolmente approfondire
lo studio delle varie sezioni e dei loro particolari, per
individuare e colmare le lacune ancora persistenti, sia
iconografiche che iconologiche, e pervenire ad una rigorosa e
possibilmente definitiva lettura dell'opera, una delle più
emblematiche del '400 romano.
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