L'intervista si è svolta in occasione della mostra al
Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università di
Roma "La Sapienza"
D. Luca Patella, lei è un artista che lavora
principalmente dagli anni sessanta, ci vuole
illustrare la sua particolare e insolita formazione?
R. ...Siamo forse in un... campo marmoreo dove i grilli
si sono ora zittiti (dal videocomputer si odono dei
grilli)... pensavo di prendere inizio dal vivo, a
partire dai grilli...
La mia formazione tu sai che non è solo artistica, io
avevo tendenze artistiche fin da bambino, ma poi ho
intrapreso studi scientifici (Chimica strutturale).
Successivamente invece mi sono dato all'artistico e,
allora, all'interno del mio lavoro, fin dagli inizi, e
a un certo punto più radicalmente (alla metà di
questi
anni Sessanta di cui parliamo) si pone questo
confronto tra dimensione artistica e dimensione
scientifica: come esigenza mia più che come
adeguamento esteriore.
Per sintetizzare, si potrebbe dire che ho iniziato con
mezzi più tradizionali, anche se sempre di ricerca, ho
lavorato molto nella pittura, ma soprattutto
nell'incisione, nella grafica.
D. Può spiegare quali furono le motivazioni che la
spinsero ad accostarsi e a praticare intensamente una
tecnica particolare come l'incisione?
R. A me era il disegno che interessava molto e allora,
per dare consistenza al segno, l'incisione è l'ambito
più giusto. Fin da bambino facevo dell'incisione, in
seguito ho ripreso questa tecnica: sono stato a Parigi
da Hayter all'Atelier 17, lì lui aveva messo a punto
la tecnica del colore simultaneo su unica lastra e
allora io ho pensato di fare un mélange tra colore
simultaneo, fotografia e incisione, facendo delle
"acqueforti fotografiche a colori simultanei".
Alla metà degli anni sessanta, tralascio
programmaticamente il segno disegnativo e comincio ad
adoperare la fotografia nell'ambito dell'incisione,
poi la tappa ulteriore è stata quella di lasciar stare
l'incisione, che era pur sempre un supporto materico e
andare verso dei mezzi più adeguati e promettenti.
D. Alla metà degli anni sessanta lei sceglie come mezzo
artistico la macchina da presa, mezzo che presuppone
una diretta osservazione della realtà, che cosa vuole
indagare il suo obiettivo?
R. In quel momento pensavo che tutto ciò che era connesso
con la "moralità del segno" e del disegno non potesse
andare oltre.
Quindi, all'interno dell'incisione ho prima costruito
dei paralleli tra segno manuale e segno fotografico,
poi le acqueforti fotografiche stesse perdono questo
supporto materico per andare verso quello che io
chiamo "Senza Peso": cioè un alleggerimento della
materia.
In quel momento mi sembrava che oltre l'informale non
si potesse andare e si dovessero azzerare le cose ed
usare la macchina fotografica o la cinepresa o il
video in maniera molto diretta. Non per "essere sulla
realtà", la realtà è sempre messa tra
virgolette.
Una nuova realtà, una nuova maniera di fare che ho
denominato appunto "Senza Peso". Questo peso che non è
soltanto il peso materico della pittura o
dell'incisione stessa che ha un supporto materico
consistente (se ci si passa una mano sopra si può
sentire il rilievo dei segni), mentre la proiezione
fotografica è impalpabile e ancor di più
quella
cinematografica.
Questo problema a sua volta è il simbolo di qualcosa
di più profondo, cioè la perdita di un peso
morto
connesso alla tradizione. Quindi un segno semiologico
che si pone in termini non più "moralistici"; senza
peso moralistico connesso alla deformazione che è
necessaria per espressivizzare le cose.
Per rendere espressivo il soggetto si intende
rappresentarlo con qualcosa che lo deformi, bisogna
rendere espressive le cose e renderle materiche.
A un certo momento mi è sembrato che questa tradizione
fosse arrivata al limite massimo e si dovesse andare
oltre, verso un alleggerimento, perché questa
espressivizzazione era ormai un modo e una...
"materia" psichica che non funzionava più.
D. L'arte dunque è proiettata verso un alleggerimento
dovuto alla perdita del peso della tradizione intesa
come legame vincolante, ma lei chiama un suo lavoro
recente "Con e Senza Peso".
R. Ho ripreso questo termine aggiornandolo e
precisandolo, perché, dicevamo che nel mio lavoro
questa specie di spregiudicatezza che va avanti, non
va mai intesa come un tagliare i ponti con la storia:
in tanti lavori seguenti, ma anche dietro ai lavori
"Senza Peso", era ben presente la storia dell'arte: e
allora c'è anche il peso, il fondamento della
tradizione.
D. Allora il bagaglio culturale della tradizione non deve
essere inteso come zavorra, e quindi abbandonato?
R. Aprire le porte verso il futuro non deve essere inteso
come tagliare i ponti col passato... non siamo
futuristi, siamo andati oltre, è passato quasi un
secolo!
In questa dialettica di presente e di storia c'è: sia
con, che senza peso; io lavoro sempre così, non amo
fare "cose" univoche e frontali, né sentirmi arrivato
andando in una sola direzione; no, medio sempre: la
Complessità è la dimensione che ho scelto nel mio
lavoro, poiché mi sembra che la realtà sia molto
complessa; bisogna quindi esserne all'altezza se si
vuole fare qualcosa di significativo.
D. Negli anni Settanta lei si dedica alla lingua,
pubblicando dei testi come "IO SONO QUI".
Può dire quali sono le motivazioni di questa scelta:
in che modo la lingua interagisce con l'arte?
R. Negli anni Settanta si apre nel mio lavoro
quest'ambito, ma era implicito alla fine degli anni
Sessanta, dove già sentivo che l'immagine si era un
po' esaurita; chiaramente ho fatto lavori d'immagine
anche dopo, non l'ho abbandonata del tutto.
Con la matita e il pennello alla metà degli anni
Sessanta ho tagliato veramente i ponti (per un lungo
periodo), quello era un momento di rottura; mentre
l'immagine non è tecnica che ho abbandonato in toto
per passare ad altro.
D. Qual è stata l'esigenza che l'ha spinta ad un
accostamento tra parola e immagine?
R. Già alla fine degli anni Sessanta e ancora di più
negli anni Settanta mi sembrava che l'urgenza
espressiva non tendesse verso l'immagine, ma verso la
parola, la scrittura ed altro (l'ambiente, il
comportamento, ecc..).
C'è un lavoro che ho fatto dentro un occhio, un film
dove riprendo me stesso riflesso con la cinepresa.
Spostandomi di millimetri, metto a fuoco l'occhio
oppure io che filmo, o il paesaggio che si trova alle
mie spalle.
Un mondo globale dentro un occhio, questo è l'estremo
limite della visione; si doveva uscire dai problemi
"visivi", e dove andare? Verso la dimensione della
parola. Allora comincio o continuo, ma più
radicalmente, a... "giocare" con le parole,
riallacciandomi anche a tutta una tradizione europea
del gioco di parole.
D. Può descrivere in maniera più particolareggiata
il
senso di questi giochi di parole e ambiguità che lei
ritrova in ogni termine?
R. Il vero problema mio è che non voglio stare dentro le
frontiere, tutto ciò che conosco o voglio sapere,
tutto questo fa parte del mio lavoro.
L'ambiguità della parola può... esserne un
simbolo.
Anche le "arti letterarie" sono arti, ma il problema
non è solo quello dell'interdisciplinarietà,
l'assunto
è più radicale: tutte le semiologie del mondo che
mi
interessano, che vado apprendendo e che voglio
prospettare, fanno parte del mio lavoro; ecco la
proiezione verso le arti letterarie, ma anche, se
vogliamo chiarirlo, verso la psicoanalisi o la
linguistica, verso una "realtà" che stiamo
facendo... di giorno e di notte, come dice Eraclito!
D. Tornando un momento indietro, al cinematografo, vorrei
sapere qual è la distanza che separa il cinema di un
artista come lei da quello di un regista che si
confronta unicamente con il cinematografo.
R. A quel tempo mi chiedevano se avevo cambiato mestiere.
Non era questo il problema, si trattava di
radicalizzare le cose in modo tale da stabilire dei
confini... che non finiscono mai.
D. Il suo cinema non è circoscritto al narrativo.
R. Ecco, questi sono limiti che non mi interessano, i
miei film all'inizio non pongono questo problema o
pongono solo in certi casi marginalmente la
narrazione. Meglio detto, anch'essa non è esclusa,
perché anche quando mi metto a scrivere, vi rientra
tutta una dimensione narrativa, che sostanzia
l'espressione (scrivo poesie e romanzi).
Non credo che si possa semplificare e riassumere le
cose, darmi una cifra, infilzarmi con uno spillo e
classificarmi come una farfalla.
Mi sembra che il lavoro, per sua natura, debba
sfuggire alle classificazioni univoche.
"IO SONO QUI" è un libro che ho scritto all'inizio
degli anni Settanta, uno strano libro che
all'apparenza è un romanzo fantascientifico, si chiama
infatti di "AVVENTURE & CULTURA". E, alla fine (o
meglio, durante lo svolgimento), si scopre che i
personaggi dell'avventura sono elementi del
linguaggio, oppure elementi psichici; ecco quindi che
il libro diventa anche scientifico, e torna fuori il
mio confronto in atto tra dimensione scientifica e
dimensione artistica.
Il problema per me è questa apertura su "tutto", non
fermarmi davanti a niente che mi interessi è il senso
del mio lavoro.
D'altra parte, tutto quello che io faccio viene da me
molto formalizzato ed espresso esteticamente; non è un
buttarsi nelle cose in modo avventato, momentaneo e
strampalato; l'arte non è facile, niente è facile
al
mondo... ma ecco... che l'arte sia un recinto entro il
quale l'artista opera in uno specifico pacifico... mi
risulta avvilente.
Certo le tradizioni specifiche, come la pittura, la
poesia, il cinema, la fotografia, ciascun campo
semiologico ha una tradizione alle spalle, che bisogna
conoscere ed affrontare anche sul piano tecnico, ed è
molto complessa, esige grande approfondimento, non
superficiale eclettismo.
Per accostarsi ad una nuova tecnica bisogna fare una
grande fatica, ad esempio io ha messo a punto sistemi
proiettivi originali, ho costruito perfino degli
obiettivi.
Cerco di approfondire e di reinventare, se possibile,
un nuovo campo; il problema non è quindi sprofondare
nello specifico, perché mi sembra che uno specifico
prenda significato confrontandolo con un altro e con
tanti altri, questo è il senso delle cose, niente
è
proibito nel mio lavoro.
"TUTTO... ecc..." dicevo, e continuo a dirlo, anzi
ora dico anche "TUTTO & NIENTE", voglio... inglobare
anche il nulla? Una cosa scivola nell'altra e lega
tutto un complesso complesso di cose.
La parola, la scrittura non si fermano ad essere
quello che erano in "IO SONO QUI", qualcosa di
apparentemente ironico, fantastico, narrativo, anche
se poi in realtà si scopre che entra in gioco lo
scientifico.
La scrittura diventa anche comunicazione scientifica
vera e propria: cioè ho scritto dei saggi. E allora in
certe occasioni qualcuno mi ha detto... "Ma cosa ti
metti a scrivere su un testo letterario! Ma cosa
c'entra Diderot? Ma cosa c'entra questo con le arti
figurative?" E invece c'entra, perché il mio lavoro
è
questo: tessere in maniera complessa le cose.
Su Diderot ho lavorato seriamente, per sette anni
(anche di ricerche teoriche e filosofiche). Ed ecco
che ho fatto una mostra che si chiamava "DEN & DUCH":
DENis Diderot e Marcel DUCHamp, e allora questi saggi
scritti su Diderot e su Duchamp vengono anche messi in
pubblico; ma non sono il retroterra che "illustro"
mediante le opere, né le opere sono deduzione di una
teoria espressa nei saggi. E' un complesso in cui mi
permetto di affrontare "cose" che sono
approfonditamente teoriche e anche pulsionali (...la
pittura anche, sì! Un insieme di duecento ovali
dipinti od oggettuali)...
Il lato riflessivo del mio lavoro non vuole affatto
prescindere dalla pulsionalità, dall'istintività,
anzi, mi sembra che la pulsionalità assuma significato
nei confronti di un pensiero molto approfondito, e
viceversa.
E' un concetto ancora romantico, con il suo
contraltare positivistico, pensare che l'artista sia
quello strampalato e intuitivo, mentre lo scienziato è
l'uomo "serio" che lavora sulla "realtà".
D. L'artista deve dunque mediare tra queste due tendenze.
R. ...L'artista, o l'uomo di cultura, o l'essere umano!
Io faccio "ARTE & NON ARTE" con tutta la
pericolosità
che questo comporta, non solo per me, ma anche per gli
altri...
Non credo che avere una complessità di pensiero
cancelli l'istintività, né viceversa; l'artista o
l'essere umano se si esprime, se fa cultura deve
essere un po' "pazzo" e molto di pensiero, tutti e due
gli atteggiamenti si compenetreranno per dare qualcosa
di più complesso (quando parlo di arte e di scienza
semplifico le cose, in realtà le possibili aperture
sono assai più diramate!).
D. Rispetto ai movimenti del concettuale o simili, come
crede di aver agito?
R. Anche recentemente, nel dibattito di presentazione al
catalogo di questa mostra, si è sollevato il problema
e mi si è riconosciuto di essere un anticipatore del
concettuale e anche di chiamare in causa i rapporti
con la storia dell'arte, quindi di aver promosso in
qualche modo il citazionismo.
Sono contento di questo anche se tendo a precisare che
l'aspetto mentale del mio lavoro è molto più
corretto
e dialettico di quanto si è usato e si usa, e un
discorso analogo posso fare per i richiami alla
storia, che per me non è solo storia dell'arte.
E GIRANDO PER LA MOSTRA...
D. Parlando della mostra, possiamo percorrere
l'itinerario da lei seguito nel momento in cui si
accosta all'opera di Marcel Duchamp, con particolare
riferimento al ready-made "Apolinère enameled".
R. Questa è una riproduzione del ready-made originale,
ingrandito. Si tratta di una pubblicità di vernici:
"SAPOLN ENA-MEL", lo smalto Sapolin, che Duchamp ha
semplicemente preso e modificato in parte; cancellando
delle lettere e aggiungendone altre: ha fatto venir
fuori "Apolinère Enameled", Apollinaire verniciato.
Io intendo che questa sia non una pubblicità di
vernici, ma... una "pubblicità" di Duchamp... del suo
inconscio.
Chiaramente i Letti che ho costruito vengono fuori da
Duchamp, perché DUCH non ha costruito dei letti, ha
semplicemente scelto questa targa, che ora si trova al
museo di Philadelphia. Ho notato che il letto
rappresentato nella pubblicità di vernici contiene
degli errori: una barra non prosegue fino al suo
montante, allora ho deciso di costruire il letto per
vedere se veniva fuori un "oggetto illusorio".
Proseguendo il lavoro ho pensato più radicalmente che
fosse anche un autentico "oggetto proiettivo".
D. Così lei ha deciso di costruire due letti, uno giusto
ed uno sbagliato.
R. Sì, un "Wrong bed" e un "Right bed".
Un altro particolare, secondo me importante da
osservare, è la firma che Duchamp scrive in basso a
sinistra nel ready-made: [from] Marcel Duchamp, invece
di essere by, quindi questa non è solo un'opera di
Duchamp, ma viene dal di dentro di Duchamp.
D. Inoltre il from si trova tra parentesi quadre.
R. Sì giusto, è anche censurato quasi, è un
dire e non
dire; per giunta chiuso fra parentesi quadre sembra
essere una comunicazione un po' reticente da parte di
Duchamp: Apollinaire poeta, amico di Duchamp,
verniciato.
D. Un poeta, come Apollinaire, è per eccellenza colui che
tira fuori il sentimento.
R. Anch'io penso questo, allora la parte affettiva di
Duchamp è verniciata, la bambina, il suo inconscio,
sta dipingendo il letto, lo sta occultando.
Poi il letto è più triangolare che
quadrangola-re...
quindi, per dirla in parole molto semplici, Duchamp...
non è un uomo "quadrato"; "sul tappeto" ci sono
problemi di un Duchamp non quadrato, e lui forse ce li
vuole dire.
Tutto questo credo che sia proiettivo, non un rebus
che lui nasconde, ma piuttosto una proiezione
inconscia che conferisce una ben altra complessità al
suo lavoro. Un lavoro fortemente innovativo da un
punto di vista linguistico, perché il ready-made credo
che sia uno dei raggiungimenti più importanti di
questo secolo sul piano espressivo, ma dietro questa
rivoluzione linguistica a mio avviso c'è tutta una
sostanza autoproiettiva che fa dell'opera qualcosa di
"necessario" all'artista.
D. A questo punto si potrebbe obiettare che ogni artista
opera una proiezione di se stesso nell'opera.
r. Sì, però mi sembra che l'opera di Duchamp, come
quella
di Diderot o la "Vita Nuova" di Dante siano una sorta
di appassionante e puntualissima "autoenciclopedia"
della propria proiezione, quindi qualcosa di
conseguente e molto elaborato; in questo senso io
intendo entrarci dentro.
Nei letti ho riportato i colori del ready-made
duchampiano: essendoci l'azzurro, il rosso, il verde,
ci si aspetterebbe il giallo, invece c'è questo
coloraccio un po' abnorme; perché?
Ho provato a mescolare tutti questi colori:
naturalmente i colori complementari si annullano a due
a due e danno un colore sporco. Quindi, come la
struttura è cortocircuitata, lo sono anche questi
colori. Di conseguenza ho costruto un "letto corretto"
dove è stato reintrodotto il giallo al posto del nero.
Sarà da notare che nella placca pubblicitaria ci sono
però i colori originali del ready-made che sono
diversi.
D. Quindi Duchamp stesso ha cambiato i colori della
targa in un'altra versione del suo ready-made.
R. Sì, la gamma cromatica a cui faccio riferimento è
quella dei colori realmente "approvati" da Duchamp,
sulla replica per la "Boite-en-Valise" del 1936.
Il mio lavoro consiste, non nell'imitare Duchamp per
fare un altro ready-made, ma interpretare (e non tanto
fare la psicoanalisi "psicologistica" di Duchamp),
mettere nello spazio questi letti, rendersi conto che
sono ambigui da un punto di vista percettivo,
scriverci un saggio che fa sconfinare la cosa in
altri terreni, molto più analitici e "veri" e vitali.
D. Passando oltre possiamo vedere i disegni progettuali
dei due letti fatti al computer, questo è il letto
"sbagliato" e quello il "corretto".
R. Nel letto corretto la struttura non riporta errori,
come la cromia. Un altro errore che ho rilevato nel
ready-made, sta nelle due testate, le quali non sono
uguali: mentre una è formata da quattro barre, l'altra
è composta da cinque, forse Duchamp nel 1916-17 era
ancora un po'... "spastico"! (Sto scherzando, parlo di
cose psichiche!)...
Ecco, qui dietro la colonna è... "nascosto" il mio
saggio psicoanalitico su Duchamp, dove in copertina si
vede la versione piccola dei letti; nonché tant'altro:
la cosa si complica ulteriormente, poiché questo
saggio fa parte di una grossa mostra che si intitolava
proprio "DEN & DUCH dis-enemeled", cioè Denis
Diderot
e Marcel Duchamp sverniciati e messi in parallelo.
Oltre ad essere una teoria è anche un complesso di
trecento opere, dove, per fare un solo esempio, ci
sono dei "vasi fisionomici".
D. Sono detti fisionomici perché torniti sui profili di
Duchamp e di Diderot.
R. Sì, tu hai svelato il segreto; poi ci sono tante opere
che hanno a che vedere con questi due personaggi.
Per questa mostra al Museo Laboratorio di Arte
Contemporanea ho fatto anche un video, realizzato al
computer. Il calcolatore è entrato in campo non solo
per costruire i letti, ma per "spiegarli" e, cosa più
vera, per fare un'altra operina (in sottofondo c'è
anche questo grillo parlante o... altoparlante).
Tramite immagini sintetizzate digitalmente, il
computer riproduce i due letti da me costruiti: il
"Letto Right" e il "Letto Wrong".
Spostando l'illuminazione nel "Letto Right" non
succedono cose strane, nel "Letto Wrong" ci vuole una
luce diffusa altrimenti l'ombra svela il "trucco".
In questa mostra Luca Patella oltre ai due letti ha
presentato anche altre sue "invenzioni" tra le quali
l'immagine di un... invitante fondo schiena femminile
sopra il quale si compone una scritta rosa,
ondeggiante: "CON ETRE ET MALE". La stessa immagine,
in versione integrale, è stata esposta, insieme ad una
versione ridotta dei letti, alla Biennale
Internazionale d'Arte di Venezia nel 1993.
R. Sopra questo... "grande sedere" c'è una scritta
magrittiana che suona un po' ironica e un po'
aggressiva: in francese può voler dire,
omofonicamente, tante cose: conoscere è male, o è
maschio, o conosce molto male; "con" può voler dire
stupido, anzi... "fregnone"; quindi: nascere o essere
femmina e maschio... Il problema è forse questo? Di
essere simbolicamente pulsione o intuizione, e
pensiero.
Duchamp stesso non aveva raggiunto, questa
integrazione di inconscio e coscienza, per questo
Apollinaire era verniciato e rimosso...
D. Allora si può dire che l'Apollinaire di Luca Patella
è
sverniciato nelle opere che mette nello spazio o
rappresenta tramite una multimedialità che parte
dall'incisione fino ad arrivare all'animazione
digitale; nel suo lavoro non è possibile individuare
un unico stile ripetibile, la sua vuole essere un'arte
in divenire?
R. Il mio lavoro però non è un'angosciosa ricerca
del
nuovo. Ora come ora non mi sembra che il puro
raggiungimento di uno stile o stilema chiuda la
questione. Più tradizionalmente, l'artista elabora uno
stile e lo... perfeziona in opere più grandi e
più
belle; muoversi in campi diversi e farli scontrare uno
contro l'altro è ciò che stimola invece il mio
lavoro.
In quest'ottica perfeziono il mio stile.
D. Ma qual'è il filo conduttore in queste diverse
sperimentazioni; qual'è la coerenza che lega il suo
lavoro esaminato globalmente?
R. Una volta un critico mi ha detto: "Tu fai cose così
disparate e poi sei così riconoscibile". Per me questo
suona come un complimento, perché non credo di essere
uno che divaga, un eclettico che non ha poi alla base
qualcosa che si ripropone, non escludo addirittura che
io sia monotono nel mio fare.
Una volta mi chiesero: "Possiamo definire la tua
arte?" Io dico che più che de-finire la mia arte la
dobbiamo continuare, perché finire non è il mio
problema; con questa alternanza di tecniche, di modi,
mi sembra di avere un respiro, altrimenti il
perfezionamento di "un" modo di fare non mi soddisfa.
"ARTE & NON ARTE", qui nella mostra espongo un operina
con scritto "FACCIO L'ARTE & NON ARTE'", i colori sono
rosa e celeste e, volendo, il celeste è vicino al
pensiero e il rosa alla sensibilità...
D. E' un colore che si avvicina al rosso: la passione, il
sentimento.
R. Sì, rosso "statu nascendi", l'alba. Invece l'azzurro
è... l'alto del cielo che tutto copre e niente tocca.
Mentre il rosso è il colore e il calore del fuoco che
brucia. Forse bisogna essere intuizione e pulsione che
brucia e "cuoce", e insieme pensiero che raffredda e
che organizza.
Forse questa potrebbe essere una delle chiavi del mio
lavoro, ma non voglio dare una chiave de-finitiva,
perché se la questione è conclusa me ne vado "a
spasso" e smetto! Se sentissi che il mio lavoro è
arrivato a un punto di ripetitività, se un lavoro si
ripropone nella stessa maniera... io sono insofferente
di fronte a questo. Avere problemi è il mio
"mestiere", anzi il mio non-mestiere.
Faccio anche delle cose che non sono artistiche,
scavalcare e scavallare gli specifici è il mio
specifico, anzi il mio aspecifico, cioè aprire queste
porte che non sono solo quelle dell'intermedialità,
dell'interdisciplinarità delle Arti. Eppure, sia
chiaro: quando faccio arte intendo farla sul serio,
non è che prendo alla leggera l'estetico!
Tutto deve scattare a dei livelli che non sono più
solo artistici: perché facciamo un'arte... impiccata a
se stessa, io la voglio far scendere invece giù
dal... patibolo, farla girare nel mondo dialettizzando
tutte le semiologie possibili e tutte quelle che
raggiungo e che mi interessano.
"ARTE & NON ARTE", l'altra dicitura è "TUTTO &
NIENTE", perché... "impicciarsi" di tante cose non
è
vero che sia così facile e privo di pericoli, mi
sembra al contrario che uno possa... finire male!
D. Impicciarsi e impiccarsi, quali sono i pericoli che si
possono incontrare?
R. Mettere in campo tante cose fa urtare i poteri
specifici di tanti ambiti e quindi... urta i nervi a
tante persone.
Per esempio, nello stretto ambito della psicoanalisi e
delle sue dinamiche di potere, io non sono nessuno,
eppure me ne occupo, faccio un'arte che è anche
critica.
E poi sai che Prometeo era incatenato ed era...
beccato e roso nel fegato! Comunque non vedo altra
linea che quella rettilinea!
D. Il momento conclusivo della mostra è forse un momento
felice, in cui l'artista gioisce di far partecipi gli
altri del suo lavoro, dei suoi risultati?
R. Sì, in qualche modo questo è vero, addirittura
mettersi in mostra stimola il narcisismo proprio
dell'artista, ma per queste vie
"artistiche-autistiche" il mostrare sé lo posso
intendere anche come un imporre qualcosa agli altri e
quindi esserne profondamente insoddisfatto. Questo
sarà pure un problema psicologico mio, ma ha anche a
che vedere, più radicalmente, con la messa in crisi
che è promossa non da un atteggiamento non arroccato
nella tradizione dell'opera chiusa in se stessa, ma al
contrario sguinzagliato sul mondo della comunicazione
e del farsi della vita.
Quindi mostrare e mostrarsi ho detto che è una
"s'offerenza"... perché in fin dei conti dietro il
tutto c'è il niente, vorrei dare tutto me stesso
all'altro, ma forse agendo con tante semiologie e
linguaggi, non proietto che l'ombra delle mie parole.
Comunque, i temi che tratto nel mio lavoro sono anche
quelli che vivo: spero che sia un segno di
autenticità.
E ora mi fermo e mi firmo Luca Patella e ringrazio
te, perché questa volta mi fermo e mi firmo con l'aura
[Laura], ma non... l'"aura dell'artista", l'aura
invece espansiva di un'ARTE & NON ARTE, di un TUTTO &
NIENTE... e spero di fermarmi solo sull'orlo
ventilato del burrone, dove il ciglio non è tanto il
ciglio di un occhio spalancato e bello che guarda
estatico ed estetico, ma potrebbe essere il ciglio del
burrone che si affaccia sul mare dell'inconscio
lontano, oscuro o risplendente! Guarda che Bellezza e
che Vita, pericolosa distesa e fremente!... Ne saremo
all'altezza? E alla bassezza...
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