Quale fu il suo primo contatto con l'ambiente artistico americano?
Andai a New York per la prima volta nel 1956, in occasione di una mia mostra personale presso la Galleria Viviano a Manhattan. Questa galleria seguiva una politica espositiva tradizionale, soprattutto non vedeva di buon occhio la rivoluzione, in quegli anni ormai consolidata, in atto nella pittura americana a partire dal secondo dopoguerra.
Caterina Viviano, la titolare della galleria, si opponeva completamente all'idea della pittura action painting, che lei considerava brutale. Io, già nel '56, facevo una pittura 'dripping' alla Pollock: in parte 'dripping', in parte con delle pennellate che coprivano qua e là la superficie. Il mio canone era la superficie, l'automatismo psichico: già applicavo queste cose nei miei quadri. Scoprire dunque ciò, nella mia pittura, dispiacque molto alla mia mercantessa, Caterina Viviano, (infatti di lì a poco sciogliemmo il nostro rapporto) perché - si può dire - io ero dall'altra parte della barricata!
Certamente non sostenevo i suoi principi: lei seguiva una politica conservatrice, reazionaria. Era una donna molto potente - mi è molto simpatica personalmente, non voglio assolutamente parlarne male - potente perché era stata per anni ed anni la direttrice della galleria del figlio di Matisse, Pierre Matisse a New York. Galleria importantissima, perché aveva la privativa sui quadri di Henry Matisse: questi passava al figlio tutti i suoi quadri e lui li vendeva; la Galleria Pierre Matisse era un colosso, non solo di vendite e di centralità, ma era importante perché tutti i musei e tutti i grandi collezionisti passavano di lì: non c'era un museo americano che non volesse avere dei Matisse! Si doveva passare attraverso Pierre. Quindi Pierre Matisse conosceva proprio il cuore pulsante dell'interesse intorno all'arte contemporanea. Direttrice, nonché amante di Pierre perché vivevano insieme, dunque era Caterina Viviano, una donna bellissima, siciliana ... Quando ci fu la rottura tra Pierre Matisse e Caterina Viviano, lei forte della sua esperienza, del suo indirizzario e delle sue amicizie, aprì una galleria per conto suo. In questo contesto - diciamo così - un Po mondano, di potere ... grandi collezionisti, grandi musei etc., in questo gioco di potere io ero dalla parte dei bohemiens. Infatti ci fu uno scandalo, perché quando io feci la mostra nel 1956 alla Galleria Viviano, tutti i pittori americani vennero alla inaugurazione ... tutti quelli che contavano per me, De Kooning, Rothko, Motherwell, Tom Hess, che dirigeva allora Art News, la rivista di avanguardia di New York. Era la prima volta che andavano dalla Viviano: lei se ne dispiacque, perché capì che il suo pittore era già dalla parte di quelli che lei combatteva. Ci fu subito una frattura. Io stesso ormai ero dentro quel clima: credevo nella superficie, nel grande segreto della superficie.
Come avvenne l'incontro con gli espressionisti astratti?
Quando andai a New York, io ero già molto amico di Thomas Hess, che avevo conosciuto a Roma (lui parlava italiano ed era un gran vantaggio). Dunque quando arrivai, andai subito a trovare Tom Hess; lui mi disse: "So che tra 15 giorni tu hai la mostra e sei molto impegnato, dimmi cosa desideri, io mi metto a tua disposizione.", ed io subito risposi: "Voglio conoscere i pittori americani che amo e andare nei loro studi." La mattina stessa che arrivai a New York - mi ricordo - Tom Hess mi portò allo studio di Ad Reinhardt. Mangiammo con lui, e fu il primo artista americano che incontrai a New York. All'epoca faceva già quadri neri su sfondo nero, una croce nera su sfondo nero che si distingueva appena. Reinhardt fu molto contento quando andai al suo studio e gli dissi, guardando quei quadri neri, " Come sono abbaglianti! mi stanno accecando." Ma era vero! Lo sentivo, perché erano accecanti psicologicamente, non dal punto di vista ottico.
Lei dunque arriva a New York, e già conosceva in qualche modo l'arte americana del secondo dopoguerra. C'é una sua dichiarazione del 1947, in occasione della collettiva alla Galleria Il Fiore di Firenze, dove Lei afferma: " Crediamo dunque alla pittura come 'messaggio', in funzione di una visione mossa dall'intimo. " Da quale percorso scaturiva questa posizione, che é affine a quanto dichiaravano, all'incirca negli stessi anni, alcuni pittori d'oltreoceano ?
Io ero nato espressionista, sono un pittore autodidatta; appena ho preso coscienza della pittura - con anni di disegno assiduo ho fatto la mia accademia - è scaturito il mio temperamento espressionista, allora subito ho amato l'espressionismo europeo: era ciò che conoscevo. Soprattutto adoravo Van Gogh: avevo tutto lo studio tappezzato di sue policromie, che allora si vendevano sciolte. Adoravo Kokoschka, non l'ultimo modo, ma il primo, il Kokoschka berlinese, quello più espressionistico; poi amavo Soutine, moltissimo: quindi apprezzavo già un espressionismo che era, benché figurativo, già espressionismo, nel senso che i quadri di Soutine - si può dire - sono già astratti; la materia pittorica viene frantumata, strappata, dilaniata dalla pennellata. Il personaggio è un pretesto, un fantoccio, in realtà quello che conta sono queste striature di carne viva e sanguinolenta, che sono la pittura di Soutine.
Ero già in questo contesto, però avevo un grave handicap. Essendomi formato in 'provincia', con la Scuola Romana - amavo naturalmente Mafai, Scipione, ero amico di Mafai, - avevo però la remora della figurazione. Non capivo ancora l'astrazione. Ero un pittore espressionista, ma non astratto, figurativo. Non arrivavo ad intendere l'astrazione, perché ero dentro un'estetica, quella crociana, che divenne poi quella di Cesare Brandi, che era mio amico; tutto il mio ambiente era dentro un certo clima mentale dove non si ammetteva che la figurazione, per quanto deformata, alterata, messa a bollore - diciamo - che sempre però doveva partire dall'oggetto esterno, il quale diventa simbolo e poi immagine ... secondo l'estetica di Brandi. C'era questa specie di remora.
Per esempio io feci nel'47 una mostra che si chiamava I Quattro fuori strada: era una mostra bella, una pittura espressionista, però figurativa, ... non riuscivo a rompere.
Ma Lei era già a conoscenza di quanto accadeva in America?
Non sapevo niente dell'America, nel 1947-'48-'49, non sapevo nulla. Non pensavo ci fosse pittura in America.
Dunque questa sua dichiarazione del '47, segna un'affinità ...
p align="justify">Un'affinità oscura, lontana. ... Quand'è che cominciai a capire l'astrazione? La capii per un disgusto che piano piano mi stava nascendo di fronte alla figurazione. "Perché la figurazione? Come si può raffigurare oggi? Cosa raffiguri se noi siamo tutti interiorizzati, se ...", traevo le conseguenze filosofiche del pensiero che non crede nella trascendenza, ma solo nell'immanenza, il ricondurre l'uomo all'uomo, ... ma non in senso ottico, in senso interiore, di libertà interiore, di solitudine interiore, il nulla. Apprezzavo il pensiero esistenzialistico, soprattutto la Fenomenologia. Ero grande ammiratore di Merleau-Ponty, lo leggevo e ne ero
appassionato: quando andai a Parigi seguii le sue lezioni. C'era questa formazione che nasceva in me: un formarsi libero ancora legato però da lacciuoli, che tentavo di rompere in tutti i modi. Allora ho avuto un periodo quasi surrealista, picassiano, facevo delle figure piatte piatte come delle
carte da gioco. Facevo tutte queste cose per rompere l'idea dell'ottica,
cioé 'devo guardare un oggetto per riprodurlo, comunque, anche
alterandolo, ma sempre in rapporto con questo triangolo'. Nel '53 conobbi Afro,
lui fu molto importante per me. Aveva perso la moglie da poco, Maria, che lo aiutava molto nella sua ricerca e gli dava una grande forza morale. Io persi
mia madre e ci trovammo molto soli, tutti e due, in modo diverso. Avevamo
già molta simpatia l'uno per l'altro, molta ammirazione reciproca,
però questo fatto ci unì molto. Diventammo molto amici in un modo
affettuoso e molto umano, come un conforto. ... Io ad Afro diedi una cosa molto
importante: il pensiero sulla pittura, il vero pensiero sulla pittura; lui
diede a me una cosa altrettanto importante: il vero artigianato come pittura.
Mi fece sentire che la pittura é un lavoro, é un azione che si
pone sul fare e sulla perfezione del fare. Questo io debbo ad Afro. Io ho dato
ad Afro in un altro senso, gli diedi la consapevolezza che la pittura é
un pensiero e che non si può dipingere se non si pensa. C'é stato
uno scambio molto importante tra noi, molto raro, durato qualche anno. Lui
aveva viaggiato, era stato a New York con la moglie, io gli chiedevo spesso:
"Ma insomma cosa c'é a New York."
Afro aveva frequentato artisti americani a New York ?
Non si era affatto interessato dei pittori di New York. Si era interessato dei
surrealisti (che facevano parte della squadra della Viviano, in cui era anche
lui), dei collezionisti, della mondanità. Aveva fatto un ampio viaggio
negli Stati Uniti, era stato in Colorado, aveva girato l'America come turista.
Ma non aveva frequentato alcuno studio a New York. Anche perché era visto male, lui apparteneva a quel cotè mondano del potere, un
pò reazionario. Accadde una cosa importante, che avevo dimenticato.
Milton Gendel era un critico d'arte venuto in Italia con l'esercito di
liberazione degli Stati Uniti, si era stabilito a Roma ed era diventato corrispondente di "Art News", era grande amico di Tom Hess, il direttore di questa rivista. Lui pubblicò due saggi molto impegnati, uno su Burri e uno su di me. Io stavo diventando astratto, ero già astratto, da poco,
era il 1954. Fece questo saggio in una serie che raccontava nel modo più
pragmatico possibile - perché il pragmatismo è d'obbligo per gli
americani - come Burri, come Scialoja dipingeva un quadro: proprio la
modalità. Descriva tutti i colori, gli impasti, le azioni, le pause, gli
intervalli, come si ricomincia etc., partendo dal bozzetto (non era mia
abitudine farne), per arrivare a capire come era fatto il quadro. ... Fece anche le fotografie dello sviluppo, il primo tratto, poi i segni che seguono,
come si campisce un punto, poi come si corregge, ... tutto quello che é
l'andamento del fare un quadro. Erano interessanti; Art News nasceva
come una rivista rivolta al dilettante, a quelli che volevano imparare a
dipingere, poi in seguito fu modificata. - pragmatica in un modo incredibile.
Fallo da te il capolavoro! - Questo critico, Milton Gendel, era molto amico dei pittori di New York, era compagno di scuola di Motherwell, amico di Pollock, ma
con me non ne aveva mai parlato. Accadde una cosa importante: quando
uscì il suo articolo su Art News, con tante fotografie
bellissime, di sei-sette pagine tutto dedicato al mio lavoro, mi fu spedito a
Roma. Io strabbuzzai gli occhi, mi chiesi come era possibile che a New York
usciva una rivista così importante, così bella, così interessante! C'erano articoli su molti pittori, mostre, tutto un mondo! E
rimasi sorpreso da questa vitalità incredibile, che percepivo, il
coraggio, la forza, l'interesse. C' era un mondo! Un mondo che io ignoravo.
Allora su questa idea che c'era un mondo da esplorare, su cui informarsi, ho
comprato un libro sul Museum of Modern Art di New York. Oltre agli stupendi capolavori che ci sono, che in gran parte sono europei, Mondrian etc., c'erano
i pittori americani....
Gorky, per esempio....
Esatto c'era Gorky, ... mi ricordo ancora la folgorazione, come San Paolo a
Gerico! Vedo il quadro di Gorky che si chiama Agony. Vidi questo quadro
e capii tutto di colpo, fui illuminato di colpo e ferito al cuore, vide cor
meum ."E' così che si dipinge! Questa é la pittura!" Ed
entrai così in quella idea. ... Un'altra cosa che mi é molto
servita é stata una mostra di "Giovani Pittori" a Valle Giulia, nel
1955, giovani pittori di tutte le parti del mondo, anche di New York e San
Francisco, ... c'erano tre quadri di Diebenkorn, che é un pittore della
scuola del Pacifico, che guardava un pò a un certo De Kooning, un
andamento pollockiano un pò alla De Kooning, una contaminazione De
Kooning-Pollock. Notai però, le grandi superfici con ampie pennellate
ondulate, così libere, sulla superficie e così sovrastanti, che
mi venivano incontro come le onde che battono sulla spiaggia. Mi innamorai
completamente di questo andamento curvilineo, questa dolcezza, questa
intensità. Così tra l'immagine di Gorky , Agony , e i
quadri visti sul vero di Diebenkorn, rimasi folgorato! Quest'ultimo artista ha
avuto poi un periodo figurativo, stranamente, però un figurativo un
pò appiattito, sempre sulla superficie, molto sagoma, senza
corporeità, senza plasticità. Delle grandi zone cromatiche dava
fastidio il fatto figurale, però la pittura era molto bella. Poi
é tornatro alla pittura astratta, completamente astratta, con delle
sezioni, dei rettangoli un pò sconnessi.
Veniamo al suo rapporto con Rothko....
Il mio rapporto con Rothko è nato con un'immediata simpatia, immediata
amicizia, perché a lui piacevano moltissimo i miei quadri, quelli che
dipingevo con dei 'dripping', 'semidripping', Il Sonno, ... questi
quadri a lui piacevano molto perché il colore era molto teso e sempre
sulla superficie. Io ammiravo molto i suoi quadri ... c'era una grande intesa.
Inoltre avevo grande simpatia per la povera Mell, sua moglie, lui provava
simpatia per mia moglie, Gabriella Drudi, c'era dunque una bella unione e
voglia di stare insieme. Quando io sono stato a New York, la seconda volta nel
1960, andavamo a cena da Rothko quasi tutte le sere. Abitavamo sulla 57th
Street e i Rothko stavano alla 54th Street (io ero ospite di un mercante d'arte
che era anche un poeta, mi diede l'appartamento in cambio di un quadro),
uscivamo ed andavamo a casa Rothko: era una modesta casa di tre stanze, con un
salottino che finiva con una veranda sulla strada, bassa al primo piano. Quello
che é interessante é che tutta la casa era tappezzata dei quadri
di Rothko, poiché i suoi quadri erano già molto grandi, formavano
una specie di tappezzeria. Si mangiava con questi quadri di Rothko davanti, di
dietro, di lato, chiusi da queste grandi pareti: come una tappezzeria. Erano
già i quadri
più belli, di quelli con le grandi bande orizzontali ... ve ne era uno
che aveva poi al centro una striscia con qualche segnettino....
Il Number 22 del Museum of Modern Art, arancione e rosso su
giallo?
Si, credo di si. Si mangiava e si viveva in una modestia assoluta. Rothko era
di una modestia assoluta, di una affetuosità inaudita, con le persone a
cui voleva bene, ...
Anche molto loquace....
Si, parlava molto, sentenziava un pò, ma era soprattutto tenero. Poi -
mi ricordo - cucinava lui ( Mell lo lasciava cucinare), faceva delle uova al
tegamino, delle frittate, delle cose da poco; io gli facevo compagnia in cucina
mentre lui sbatteva le uova, ... era di una tenerezza straordinaria, ...
così come era severo e nemico con i suoi nemici: partigiano, molto
forte, un temperamento che reagiva fortemente ... Ho una lettera di un critico
di Venezia, di cui non mi ricordo il nome, ( Rothko, nel periodo in cui questo
critico mi scriveva, era stato a Roma ed andava poi a Venezia, dove aveva una
mostra.), il quale mi riferisce questo episodio: stavano visitando una galleria
a Venezia, lui e Rothko, quando sopraggiunge Giuseppe Santomaso, che emozionato
dall'incontro, con tono d'ammirazione si rivolge a Rothko e dice: 'maestro, io
stimo molto la sua pittura, la amo molto perché è così ...
così calma!'... e allora Rothko alterato gli risponde 'calma?! vuole
dire terribile!'. Santomaso fece un errore: non si può dire una cosa del
genere, puoi dire 'così bella', non 'così calma'; ciò
naturalmente fece inalberare Rothko.
Lei ha accompagnato Rothko agli scavi di Ostia, è nota anche la
visita che avete fatto insieme alle tombe etrusche di Tarquinia, più
tardi, nel '66 nel'ultimo viaggio di Rothko in Italia ... A questo proposito
volevo chiederle in che modo Rothko, l'uomo colto interessato di arte antica,
ma soprattutto l'artista, guardava all'arte del passato ?
Ho dei ricordi precisi. Quando Mark venne la seconda volta a Roma stavamo
sempre insieme, i Rothko erano soliti passare le giornate a casa nostra, a
Palazzo Orsini. Erano i primi anni '60: a Roma si andava ancora in carrozza.
Una volta andammo ad Ostia Antica ed entrammo in una casa con degli affreschi
ed io dissi: "Ecco, questo è un Rothko!" C'era una banda gialla un
pò logora, vibrante, accanto a una banda rosa: una fascia decorativa di
quella bella pittura a fresco, opaca, vibrante, che il tempo aveva consumato
rendendola incantevole. "Ah! Ecco un Rothko!".E lui "Magari!", mi disse. Al
Metropolitan Museum di New York c'è una pittura pompeiana con dei
colori alla Rothko: Lui li conosceva bene. La pittura antica, in generale la
pittura, quando è grande pittura, propone una ineffabilità, il
senso dell' ineffabile, per cui poi l'elemento iconografico non ha alcuna
importanza. La gente si ostina ancora a vedere l'iconografia, il racconto: chi
è quello, che santo è, che succede, quella è Venere, il
boschetto ... com'è dipinto bene il boschetto! - No, il boschetto non
c'è proprio! - C'è una ineffabilità che è un grado
superiore di percezione. Lui l'aveva fortissima: è un grandissimo
artista. Lui percepiva benissimo questa ineffabilità, questo assoluto
che si compie in uno spazio che è soltanto virtuale, si compie, si
accenna, ma senza arrivare mai al punto finale, al traguardo. Un andare verso
l'assoluto, un colore magico ... Il colore é una magia psichica, non
è uno spazio misurabile. Anche nello spazio prospettico, fino a Cezanne,
il colore è fuori della misurabilità. Questo è il mistero
del colore, il grande mistero del colore. Lo spazio è misurabile in una
piramide ottica, ed è lo spazio della prospettiva. Il colore locale, che
appartiene all'oggetto - il manto della Madonna è celeste, il filo
d'erba è verde, il cielo della tempesta è bluastro,
grigiastro-nerastro, il tempo sereno di Tiziano è celeste e poi va sul
rosa nel tramonto e così via, quella foglia è verde, un verde
marcio - ... il colore non è misurabile: questo è il grande
segreto, che io ho percepito, che cerco di sfiorare nella mia pittura e che
Rothko ha risolto in pieno, in un modo geniale: il colore non è
misurabilità, sta in uno spazio fuori dalla calcolabilità. Il
colore è incalcolabile, per cui non è vero che il celeste del
drappo della Madonna appartiene al drappo: va per conto suo, è
un'allucinazione.
Mi parli ancora di questa 'ineffabilità', può essere definita
come pregnanza dell'immagine attraverso il colore, o cosa?
Se tu guardi un quadro di Pollock, il Numero1 per esempio, Manet! Tu
dici questo è Manet: è la spiaggia di Manet, il cielo, le onde di
Manet, sono le guarnizioni delle maniche delle fanciulle sulla spiaggia di
Manet, perché il Colore non è il colore in sé: è
rapporto, ... allora cosa vuol dire? Tu vedi un quadro astratto e ti da la
spazialità di Manet, perché non c'è né astrazione
né non astrazione ... c'è questo mistero ... le parole sono
scarse, sono sempre le stesse, ci inzuppi il pane ed hai sempre lo stesso
sapore, ... C'è qualcosa di trascendente, forse l'idea di Dio, l'idea di
Dio per un mistico. Il mistico ha l'estasi, che cosa vuol dire 'estasi'? vuol
dire 'fuori della misurabilità del tempo e dello spazio,' 'va in estasi'
non sa dire nulla né dove sta, in che stanza è, che ore sono,
finché dura l'estasi è perduto, - perduto dove, però, in
che cosa ? - Nella contemplazione di Dio. Non è che vedi Dio con la
barba ... No contemplazione di Dio nel senso che c'è una
interiorità che esplode, lentamente si espande, si espande al di
là della stanza, al di là di tutto, del tempo e dello spazio, ...
ecco non è misurabile.
Ma per un mistico, diciamo, 'laico' ?
Io parlo della contemplazione mistica che riguarda tutte le religioni, una
forma anche laica, anche io ho le 'contemplazioni' ...
Parliamo allora del senso mistico della vostra pittura. Pensiamo alle
immagini di Rothko, dove la 'misticità' è qualcosa di
tangibile.
Si, tangibile. Lui ha capito questo segreto che appartiene a tutta la pittura,
... la pittura è bella per questo. La pittura è una cosa segreta,
una setta segreta che pochi intendono; tutti la prendono per un altra cosa,
invece la pittura è una cosa segreta che si tramanda ... di padre in
figlio quasi! Lui ha capito questa cosa, e quindi c'è sempre questo
elemento animistico, simbolista, perchè il simbolismo è il
più vicino alla non misurabilità. Le mie 'impronte', per esempio,
lo lasciavano un pò sconcertato, mi diceva io capisco che tu fai
un'impronta perché è l'impronta, ne fai due perché vuol
dire moglie e marito, ne fai tre perché sono moglie - marito e figlio,
ne fai quattro perché sono moglie-marito e moglie-marito, due coppie, ma
cinque cosa vuol dire ? ... Quindi lui aveva un cervello orientato
continuamente sulla questione del simbolo, il segno-simbolo. Il colore per lui
dunque era simbolico, voleva dire Inferno, Paradiso, lo strazio della
lontananza, l'amore per la moglie, la solitudine. ... Lui diceva di un certo
quadro: "questo quadro è il ritratto di Mell". Proiettava quindi
psicologicamente una sua idea sulla superficie, l'animava di fatti psicologi.
C'era in certo modo un'elemento surrealistico che gli era rimasto addosso.
Rothko era nato surrealista ... ed era rimasto surrealista: strano. Io non
capivo, perché era una cosa assolutamente astratta, puramente ritmica:
un ritmo puro di luce, di timbro, di quantità, di spazialità, di
spessore. Invece lui gli attribuiva dei significati psicologici.
Le riporto un'altra dichiarazione dell'ottobre '59 dal suo 'Giornale di
Pittura' dove si dice:"la pittura è simbolo, non fruito, dell'assoluto".
Questo è sempre sulla stessa linea di pensiero?
Bé, si. Posso usare di volta in volta espressioni diverse, ma è
lo stesso pensiero ... Io ho sempre detto che un quadro è bello se il
colore è bello, il quadro può essere il più brutto del
mondo, se lo vedi in fotografia, naturalistico, banale, accademico,
manieristico, ma se il colore è bello ... diventa sublime. Per esempio,
un pittore insopportabile se lo vedi in fotografia, è il Doganiere
Rousseau: peinter de la dimanche, il solito dilettante, pittore
popolaresco, ce ne sono tanti di questi popolareschi in tutto il mondo, che
fanno i bambini, il portiere che dipinge di domenica e fa le cose come un
bambino. Ma il colore! Se vedi il quadro, è il colore che rende il
quadro bellissimo. - Ma allora cos'è questo colore, cosa vuol dire? Ma
daltronde che cos'è la vita ? Se tu mi spieghi cos'è la vita io
ti spiego cos'è il colore! Allora ... vedi che c'è il mistero!
Allora questo 'assoluto', che è un leit-motiv anche di Rothko, come
dobbiamo intenderlo, è qualcosa che si sente presente nella vita,
qualcosa di concreto rivelabile attraverso strumenti, il colore, per esempio,
così come me ne stava parlando ora ...
Pensa a Degas, che sembra così meccanico, così accademico, o
soltanto plastico: fa degli oggetti corporemente tridimensionali; poi vedi il
colore dei tutù, dei sofà, e rimani di schianto. Il colore
è bello come quello di Filippo Lippi. - Incredibile! - ... Io penso che
il colore sia un modo per sottrarre alla morte la vita umana. La grande misura
è la morte, nel senso che la morte è la famosa data 'nato il ...
- morto il ...', è la vera misura. E come tale è deprecabile,
perché tu non vuoi essere misurato ...
E il colore come 'non misura' è una vittoria su questo?
Il colore come non misura è la vittoria sulla morte. - La vittoria? - E'
il modo per schermarsi davanti al sole, togliersi questa luce orribile dagli
occhi. Il colore è questo. Questo credo sia il senso. Questo l'assoluto.
Non perché le cose diventano assolute, le cose che il colore tocca e
assolve, divengono poi loro, in se, assolute ... Il colore trasporta dal piano
della misurabilità, quindi della morte, al piano dell'ineffabile,
dell'eterna primavera, della fontana della giovinezza, il Paradiso Terrestre
insomma ... questo è il colore: quest'infanzia che non tramonta
più.
Ma questo quid, diciamo così, che è presente solo
alcune
volte, quando il colore riesce dalla tela a ridarci questo senso, ...
è qualcosa sentito come trascendente, lontano dall'uomo oppure qualcosa
che fa parte della vita, è qui?
Non solo fa parte della vita, ne è l'essenza! E' la vita! Non è
niente di aggiunto, di 'deforme' nel senso di una forma che poi la vita coglie:
questa è una deformazione! Non è un surplus di un bagaglio che
pesa già troppo, non è qualcosa di eccezionale, secondo me
è la vita. Perché l'arte è la soluzione della vita, e non
c'è altra soluzione. Hanno cercato la via attraverso il sentimento
religioso, le religioni sono le soluzioni della vita: la religione ti propone
la vita eterna, che non esiste, ti propone l'immortalità dell'anima, che
non esiste, ti propone Dio, che non esiste e via così ... - Per me il
grande mistero è che la gente crede ancora a queste cose! - ... La
religione c'ha provato: ma è l'arte che rinnova continuamente il
tentativo di questa felicità interiore, che non si raggiunge in nessun
altro modo. Mi si può dire "Tu allora credi nella religione dell'arte":
no l'arte non è un fatto di religione. L'arte è un fatto di
intimità con se stessi. Può succedere che uno si alzi la mattina
e si senta così felice, sente che esistere è una cosa
importantissima, unica, cosmica, piena ... Però sono momenti rapidi,
folgorazioni che subito poi passano, ... L'arte è la sostanza di questo
elemento, per cui non si può mai parlare di un sentimento ... un quadro
non è ne triste ne allegro. Una commedia di Shakespeare è triste
o allegra? è tragica o ...? Ma come è tragica se è
così bella, se è così formalmente perfetta, se tocca
questi punti assoluti ...
Rothko le parlava mai della tragedia, ... di Shakespeare?
Di questo non me ne ricordo. Ma Rothko era molto colto, non nel senso che
aveva letto tante cose, no. Io ho delle lettere di Rothko che sono scritte
anche in modo un pò rozzo, ingenuo. Non era un letterato, ne una persona
di grandi conoscenze. Ma la cultura si sà non è un fatto di
quantità, ma di qualità, di amore. L'amare la sostanza spirituale
della vita. Basta leggere cinque libri e sei un uomo colto, puoi leggerne
cinquantamila ed essere solo un topo di biblioteca. La cultura è un
fatto dell'animo, e Rothko questa profondità l'aveva senza dubbio.
Lei mi accennava prima all'interesse, da Lei, nutrito per
la filosofia, in particolare per il pensiero esistenzialista, la
Fenomenologia, il relazionismo di Enzo Paci, etc.
Qual'era il rapporto di questi pittori americani con la filosofia
contemporanea?
Loro amavano Emerson, che è un filosofo che precorre tanti fatti della
Fenomenologia. E' il dinamismo dell'anima americana, l'invenzione della sua
coscienza, il Trascendentalismo. Leggevano moltissimo, il Trascendentalismo per
loro era pane quotidiano! De Kooning leggeva Wittgenstein. Sapevano benissimo
che la pittura e l'arte sono un fatto mentale.
Tornando ai quadri di Rothko ... Per arrivare alle cosid
dette 'pareti di colore', Rothko opera, per così dire, una
'riduzione' quasi totale. Compiuta questa eliminazione, tolti anche gli ultimi
residui grafici del Number 22 del 1949, prima ricordato, ... Cosa
emerge, cosa produce questa 'eliminazione'?
Produce la perfezione! La semplicità assoluta che è la
perfezione. Come un verso perfetto "Sempre caro mi fu quest'ermo colle ...",
dove non si può dire ne di più ne di meno. Dunque non è
una riduzione che impoverisca o che essenzializzi in modo formalistico
l'immagine: lui non è il padre dei minimals. E' il contrario del
minimal, perché minimal è ridurre
formalisticamente: una sedia ha quattro gambe, poi tre gambe, poi due, poi una
sola gamba, poi mezza, poi un quarto di gamba e quando hai un quarto di gamba
hai il minimal ! Rothko più semplifica più arricchisce,
perché nella semplificazione si condensa questo tipo di linguaggio e
trova la parola giusta, sempre più giusta. Certi avverbi vanno
eliminati, certi modi di dire vanno eliminati, questo aggettivo va tolto, qui
soltanto c'è un sostantivo. ... E' arrivare alla sostanzialità
dell'immagine. Rothko mi diceva "bisogna essere semplici, più si
è semplici, più si è in grado di farsi capire". E' vero,
ama il prossimo tuo come te stesso ha detto Gesù, sono sei
parole, non c'è nessun tipo di retorica, nessun tipo di introduzione.
Riprendiamo il problema del colore. La 'riduzione' assume dunque il valore
di una ricchezza che dalla semplicità dica l'essenziale: una frase
chiara, sempre più efficace. Rothko ottiene questo arrivando al puro
colore; è legittimo dare un valore di protagonista al colore, come
relazione, che diventa così il vero oggetto della tela?
Il colore puro é una cosa che non esiste. Il colore é sempre
spazio, ha una sua spazialità, é sempre in rapporto: non puoi
mettere un rosso puro senza rapporto con qualche cosa, con la sua stessa
materia, se vuoi. Ma non c'é il concetto di rosso, non esiste. Il colore
é sempre un fatto di spazialità, Rothko creava delle cose
tutt'altro che semplici nei suoi quadri, due bande di colore diverso che si
stampigliavano , venivano fuori da profondità inaccessibili; vengono
avanti, seguitano a venire avanti in un moto perenne: un moto a luogo perenne
è la pittura di Rothko. Il luogo qual'é? Sei tu che contempli,
é il tuo cuore che accetta questo tipo di riverbero, di cui si imbeve ed
é un viaggio all'infinito, perché se tu contempli un suo quadro
questo seguita a viaggiare verso di te. Sono tre, due colori, c'é uno
sfrangiamento, c'é la quantità, é tutto un fatto di
rapporto; é come socchiudere gli occhi, oppure spalancarli, oppure
tenerli un po' obliqui; un continuo mettere a fuoco una serie di rapporti
arrivati alla semplicità assoluta tutt'altro che impoveriti,
inscheletriti. Addirittura quando fa un solo colore, sembra un solo colore, ma
sono tanti; perché nel colore c'é il 'tessuto': il rosa é
fatto con velature, strane velature. Ma bisogna chiarire: la velatura classica,
quella 'veneziana', parte dai colori timbrati, dai colori chiari, dal bianco
assoluto dato a tempera, in genere, e va poi sul bianco assoluto con degli
strati di colore di un cromatismo più intenso, più timbrato. - Se
vuoi fare un rosa dai un fondo bianco, poi gli vai sopra con il rosso e il
bianco traspare sotto il rosso creando il rosa. - Se questa é la
velatura 'veneziana', Rothko fa il contrario. Lui parte dai timbri forti, da un
blu forte e poi comincia ad andarci sopra con dei colori più chiari,
quasi a creare un'ultima vibrazione, quasi di bianco come può essere
bianca una lingua di una persona che non sta bene di stomaco, una specie di
patina bianca.
Mi parli dei materiali. Rothko usava delle terre mescolate poi, in un
secondo momento, con olio e trementina ...
Rothko, in genere, partiva dalla tempera e gli ultimi ritocchi li dava ad olio.
Le terre sono pigmento colorato che si possono aggiungere a qualunque medium.
Il pigmento è sempre necessario, però questa polvere, - se si fa
un affresco - la si inzuppa nell'acqua e poi la si passa sull'affresco. E' la
calce in quel caso che succhia le mani di colore depositato, diluito prima
nell'acqua, le assorbe, quindi lo stesso materiale dell'intonaco fa da
collante. Quando si danno queste pennellate di pigmento sciolto nell'acqua, non
c'é nessuna colla dentro. Quando l'affresco ha succhiato il colore ci si
può tornare sopra e metterci la tempera. La tempera cosa è ? E'
la colla che aggiungi all'acqua e al colore; può essere colla di
coniglio, di pesce, a caldo, a freddo, ma il pigmento é sempre lo
stesso.
E l'uso dell'acrilico che lui fa nell'ultimo periodo?
Lì é la crisi! E' un periodo da cancellare. E' l'ultimo periodo
tragico, è la morte! Rothko aveva problemi con l'aorta, molto gravi,
inoltre Mell, la sua adorata moglie era completamente alcolizzata, era ormai
una vita invivibile la sua. Rothko non poteva più vivere nella stessa
casa con sua moglie. Andò a vivere nel suo studio, che era un antico
spazio, immenso, sulla 69th Street, che molto tempo addietro veniva usato come
magazzino per riporre le carrozze, venivano tirate sù all'ultimo piano
con tutta una serie di elevatori. Uno studio bellissimo. Ogni giorno andava a
trovare suo figlio a casa. Cadde, però, sotto le grinfie della vedova di
Ad Reinhardt, una donna stupenda, tedesca, alla Marlene Dietrich, giovane e
bellissima. Rothko cedette a lei, ma non al punto di separarsi da Mell e di
sposarla. Seguitava ad andare spesso a casa: viveva nell'incubo che morisse la
moglie e che il bambino trovasse in casa la madre morta. "Non potrei sopportare
questo" mi diceva Rothko. E così é stato invece, quando Mell
morì, appena sei mesi dopo il suicidio di Rothko, fu trovata in casa dal
figlio Christopher, di appena sette anni. Rothko, in quell'ultimo periodo, era
già una persona finita. Rita Reinhardt, fredda, terribile, sessuale,
bellissima, lo tormentava dicendogli che la sua pittura era troppo raffinata,
troppo piacevole, troppo zuccherina: "un grande pittore era Ad Reinhardt,
così secco, severo, non concedeva niente al piacere della vista."
Influenzato da lei, (quanto può l'eros! quanto offusca e quanto la
castità in fondo é una cosa santa da questo punto di vista!)
Rothko si é messo a fare la pittura con l'acrilico. Lui che dipingeva a
tempera e a olio con tale sapienza! L'acrilico! Spremi il tubetto e già
ti senti male, é orrendo e luccica, é fatto con resina sintetica.
Si mise a fare l'acrilico bianco e nero, una banda bianca e una nera, il cielo
nero e il mare grigio. Era tornato al naturalismo! Non c'era neanche più
la ricerca della luce, c'era solo questa volontà di essere 'secchi,
essenziali, elementari'. Inoltre non dipingeva più fino ai bordi, ma
lasciava un campo vuoto di colore. Delle bande con l'orizzonte! Brutte, io le
vidi e le trovai bruttissime: Rothko non c'era più! A tal punto non
c'era più, che infatti di lì a poco si suicidò: una notte,
rimasto solo, andò in cucina, in maniche di camicia, davanti allo
specchio, si recise le vene delle ascelle, rimase lì finché non
cadde dissanguato e venne trovato morto al mattino. Poi ci fu una storia
tristissima, ... che non voglio raccontare. Rothko era ridotto malissimo, in
quell'ultimo periodo era irriconoscibile. Io lo vidi, ero spesso a New York
allora, aveva i capelli incolti, lunghissimi; mangiava e gli cadeva il cibo
dalla bocca ... era un rottame.
Beveva molto, era alcolizzato.
Si, ma non era quello il vero problema, ... era disperato. Inoltre, anche per i
disturbi dell'aorta, sapeva di essere condannato; sarebbe morto da lì a
poco se non si fosse ucciso.
Molti critici, tra cui anche italiani, analizzando l'ultima produzione di
Rothko, danno una particolare importanza a quel bordo lasciato bianco;
interpretando l'immagine che non fuoriesce più dalla tela, bloccata,
come la prefigurazione della morte, una resa anche pittorica alla morte.
Non lo sò, è opinabile. La morte era sempre presente nei suoi
quadri, per essere sconfitta doveva essere presente.
Qual'è la differenza tra il processo di riduzione progressiva operato
da Rothko e le pitture nere di Reinhardt?
Il quadro per Rothko era ancora una questione di pittura, così come
s'intende attraverso Tiziano o Giorgione; per Reinhardt dipingere era un atto
concettuale, lui seguiva il buddismo, faceva contemplazione buddista, intendeva
l'assoluto dunque in un altro senso, non nel senso della carnalità, ma
nel senso dell'astrazione metafisica, disgiunta dall'uomo, un pensiero indiano
che non mi è mai interessato.
E Rothko cosa ne pensava?
Lui credeva piuttosto in quella forma di pensiero zen, che si affida al fare,
lascia che la natura operi per forza propria, per cui non si va contro la
natura, ma bisogna seguirla, anche l'andamento del pennello è un modo
della natura, lasciare che sia la mano a guidarti e non tu a guidare lei. E'
una formula di pensiero orientale.
Dunque Lei vede delle influenze orientali nella pittura di Rothko?
Si. Tutto il gruppo dei pittori americani era influenzato da questo elemento,
diciamo, pratico: più irrigidisci il muscolo meno sei libero nei
movimenti, più sei sciolto e morbido, più riesci. E' come la
danza che vince sul facchinaggio!
Arrivavano libri, ... come conoscevano l'Oriente?
Leggevano libri, articoli, era gente colta, si informavano ... era anche una
moda: qualcuno di loro scopriva un libro ... e dopo poco tutti lo conoscevano.
Lo zen era acqua corrente per loro, ma sempre in questa forma di
divulgazione.
Rothko quale forma della cultura orientale prediligeva?
Lo zen gli interessava molto. Questo spiega anche la sua naturalezza, la
fluidità della sua pittura, la spontaneità. L'immagine sembra che
nasca come una bolla d'acqua; Rothko non andava contro il suo istinto, faceva
fluire la percezione immediata.
Secondo Lei si può istituire una relazione tra la musica, così
come concepita in Oriente, e l'uso 'quantificato' che del colore fa Rothko? Mi
riferisco, per la musica, alla concezione per cui il suono prodotto dello
strumento, la nota emessa o anche il rumore, è musica ...
Ha una sua spazialità.
Si ha una spazialità ed è 'materico'. Pensiamo a John Cage e
alla sua operazione sul suono, anche lui del resto era uno zenista.
Si, di questo ne ho già scritto proprio nel mio "Giornale di pittura",
dove dicevo appunto che Cage fa diventare il tempo della musica Spazio,
spazializza la musica, la rende spaziale. Però il raffronto tra la
musica orientale e il lavoro di Rothko mi sembra azzardato e privo di
fondamento. La musica orientale procede per percussioni, per suoni puri,
astratti da un collegamento, non c'è continuità, c'è
soltanto una quantità di tempo che passa da un momento all'altro, ci
sono solo dei punti: non si crea una linea melodica, non c'è armonia,
c'è soltanto il suono. Questo non ha niente a che fare con Rothko.
Semplifichiamo: Rothko amava Matisse, passava ore ed ore al Museum of Modern
Art a contemplare i Matisse che erano esposti, all'epoca erano pochi ora la
collezione è stata ampliata, c'era Lo studio rosso, la Letion
du pianò e I pesci rossi . Amava soprattutto Lo studio
rosso , che è di un rosso che va da capo a piedi, uguale e piatto.
Quindi la sua formazione è Matisse. Matisse come idea della superficie e
del colore che va giù piatto, che non va in prospettiva. Il problema era
appunto di abolire la prospettiva, ma come? L'unico modo era di creare una
nuova regola, una 'dodecafonia' che creasse una misura, il metodo. La regola fu
trovata: era la superficie. La superficie voleva dire la 'non
misurabilità' in un mondo che non mostra pietà e che la
prospettiva aveva abituato a credere come misurabile. Una assoluta immanenza
rispetto al mondo che la prospettiva aveva reso un mondo di trascendenza.
Un'impossibilità di rimandare sia le cose della vita, sia la vita
stessa, ad una vita eterna, ad un assoluto post , etc. Bisognava dire
che la vita è il nostro presente, giorno per giorno, ora per ora noi
viviamo e solo questo siamo: l'ora in cui viviamo. Dunque questa 'ora' vuol
dire il presente, la superficie, premente verso di te come l'ora in cui vivi
preme dentro di te. Un'immanenza assoluta è il senso di crearsi nel
momento in cui stai facendo, non partire da un mondo già creato: il
mondo dell'architettura che è quello che da la prospettiva.
Quale era la posizione di Rothko riguardo la definizione di pittura
d'azione data da Rosemberg nel '52, dalla quale la sua pittura, in qualche
modo, rimaneva esclusa: l'agire sulla tela era inteso come intervento fisico,
anche violento, dunque estraneo all'approccio di Rothko.
Si, ma l'azione non è violenta, è un pensiero, una meditazione
d'azione. Quella che vede solo l'intervento fisico è una interpretazione
formalistica della pittura americana. Per me Rothko, come d'altronde Barnett
Newman, sono pittori d'azione, perché io do al significato di
azione una interpretazione meno pittoresca. L'azione è l'agire
della mente attraverso la mano sulla tela, ma soprattutto agire sulla tela
pensando che l'agire é la pittura stessa. Non è una
'causalità', il fare resta in sé, si isola: tu fai. Se io strappo
un foglio di carta, questa è una azione, fine a sé stessa; ma se
io strappo la carta con l'intento di ricavarne una barchetta allora questa non
è più azione, è la normale azione artigianale che
compie ogni pittore nel fare un quadro. La pittura d'azione è
azione ; è azione sia quella di Rothko che quella
di Newman, che quella di Pollock nei dripping, di De Kooning con
le sue forme spezzate, di Kline etc.
Nell'ottobre 1959, nel suo "Giornale di pittura" Lei annotava: "Pittura
d'azione non vuol dire agire sulla tela, contro la tela, ma agire dalla tela,
attraverso ed oltre ad essa, dalla nostra parte. Rimbalzare nella vita." Questa
affermazione è estremamente significativa: da una parte rettifica
decisamente la lettura data da Rosemberg dell' action painting a partire
dal 1952; per altro verso privilegia di questa pittura il rapporto dialettico
istituito tra l'immagine e il fruitore. Quest'ultimo aspetto mi sembra che sia
centrale per l'arte di Rothko.
Mi fa piacere che lei riporti questa citazione perché conferma quanto
detto prima. L'azione vale in quanto tu ne sei cosciente, é un moto di
coscienza lo svegliarsi all'azione. E' un interiorizzare il modo di costruire
un fatto. Se costruisci un muro lo fai sia fuori che dentro di te perché
ne sei consapevole, impieghi il tuo tempo umano. Il tuo tempo si consuma nel
muro: lo scorrere, il flusso di coscienza si incarna nel muro. Quindi
c'è una doppia consapevolezza: fare e vedersi fare. Altrimenti si
potrebbe lavorare ad occhi chiusi, come del resto facevano Kline e De Kooning.
Lo stesso Kline, una volta che ero andato a trovarlo a studio, mi
raccontò come dipingeva. Prendeva dei fogli di carta, si voltava di
spalle, e così girato dava dei colpi di pennello, a caso, si macchiava
anche le scarpe; fatti così vari fogli, li lasciava lì per dei
giorni, dimenticandosi anche della gestualità che aveva usato. Dopo
qualche giorno li riprendeva e li guardava come se fossero stati fatti da
altri; con la matita isolava le parti che gli piacevano di più, uno
snodo, un intreccio, un sovrapporsi, uno schizzo di colore, un vuoto rispetto a
un pieno etc. "Qui lavora!" diceva, ritagliava il rettangolo di carta e lo
metteva da parte. Raccoglieva insieme poi i bozzetti migliori, quelli che
sentiva più suoi, e buttava via tutto il resto. Si metteva allora ad
osservare questi bozzetti e li imparava a memoria, imparava i gesti del polso,
i movimenti, per poi ricrearli, identici, sulle grandi superfici che lui
dipingeva.
Le citavo prima il passo dal suo "Giornale di pittura" dove Lei parlava di
'pittura d'azione', perchè mi sembra che rettifichi l'affermazione di
Rosemberg quando Lei dice che pittura d'azione è agire
dalla tela nel mondo, rimbalzare nella vita, nel
senso di privilegiare quel rapporto, che in Rothko è per esempio la
creazione programmatica dell'ambiente per l'osservatore (per l'uomo che vive
davanti la tela e il quadro che vive con lui del suo spazio). Non pensa che
questa possa essere una chiave interpretativa importante, privilegiata, anche
se la critica ha dato generalmente poco rilievo a questo aspetto?
Questo è un punto importante, un punto chiave, che elimina un certo
equivoco, approfondisce il concetto di azione e rende più vero
quello che è poi un concetto di Valery. Elimina d'altra parte
quell'elemento che rimane ottico, come nel saggio della Elaine De Kooning che
dice che un quadro di Rothko modifica il rossetto della donna che gli sta
davanti. Questo è grazioso, spiritoso, un pò proustiano,
però seguita a vedere il quadro come fatto ottico. Si parla del
riverbero del colore: come è per la vetrata di una chiesa, il sole passa
attraverso il blu del vetro e tu diventi un pò bluastro nel volto. In
questo modo rimane un fatto ottico, mentre è la mente che diventa blu,
non le labbra!
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