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Intervista a Toti Scialoja  
Miriam Merlonghi
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 104 (28 gennaio 1996 - intervista del 9 dicembre 1992)
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Area Interviste

Quale fu il suo primo contatto con l'ambiente artistico americano?

Andai a New York per la prima volta nel 1956, in occasione di una mia mostra personale presso la Galleria Viviano a Manhattan. Questa galleria seguiva una politica espositiva tradizionale, soprattutto non vedeva di buon occhio la rivoluzione, in quegli anni ormai consolidata, in atto nella pittura americana a partire dal secondo dopoguerra.

Caterina Viviano, la titolare della galleria, si opponeva completamente all'idea della pittura action painting, che lei considerava brutale. Io, già nel '56, facevo una pittura 'dripping' alla Pollock: in parte 'dripping', in parte con delle pennellate che coprivano qua e là la superficie. Il mio canone era la superficie, l'automatismo psichico: già applicavo queste cose nei miei quadri. Scoprire dunque ciò, nella mia pittura, dispiacque molto alla mia mercantessa, Caterina Viviano, (infatti di lì a poco sciogliemmo il nostro rapporto) perché - si può dire - io ero dall'altra parte della barricata!

Certamente non sostenevo i suoi principi: lei seguiva una politica conservatrice, reazionaria. Era una donna molto potente - mi è molto simpatica personalmente, non voglio assolutamente parlarne male - potente perché era stata per anni ed anni la direttrice della galleria del figlio di Matisse, Pierre Matisse a New York. Galleria importantissima, perché aveva la privativa sui quadri di Henry Matisse: questi passava al figlio tutti i suoi quadri e lui li vendeva; la Galleria Pierre Matisse era un colosso, non solo di vendite e di centralità, ma era importante perché tutti i musei e tutti i grandi collezionisti passavano di lì: non c'era un museo americano che non volesse avere dei Matisse! Si doveva passare attraverso Pierre. Quindi Pierre Matisse conosceva proprio il cuore pulsante dell'interesse intorno all'arte contemporanea. Direttrice, nonché amante di Pierre perché vivevano insieme, dunque era Caterina Viviano, una donna bellissima, siciliana ... Quando ci fu la rottura tra Pierre Matisse e Caterina Viviano, lei forte della sua esperienza, del suo indirizzario e delle sue amicizie, aprì una galleria per conto suo. In questo contesto - diciamo così - un Po mondano, di potere ... grandi collezionisti, grandi musei etc., in questo gioco di potere io ero dalla parte dei bohemiens. Infatti ci fu uno scandalo, perché quando io feci la mostra nel 1956 alla Galleria Viviano, tutti i pittori americani vennero alla inaugurazione ... tutti quelli che contavano per me, De Kooning, Rothko, Motherwell, Tom Hess, che dirigeva allora Art News, la rivista di avanguardia di New York. Era la prima volta che andavano dalla Viviano: lei se ne dispiacque, perché capì che il suo pittore era già dalla parte di quelli che lei combatteva. Ci fu subito una frattura. Io stesso ormai ero dentro quel clima: credevo nella superficie, nel grande segreto della superficie.

Come avvenne l'incontro con gli espressionisti astratti?

Quando andai a New York, io ero già molto amico di Thomas Hess, che avevo conosciuto a Roma (lui parlava italiano ed era un gran vantaggio). Dunque quando arrivai, andai subito a trovare Tom Hess; lui mi disse: "So che tra 15 giorni tu hai la mostra e sei molto impegnato, dimmi cosa desideri, io mi metto a tua disposizione.", ed io subito risposi: "Voglio conoscere i pittori americani che amo e andare nei loro studi." La mattina stessa che arrivai a New York - mi ricordo - Tom Hess mi portò allo studio di Ad Reinhardt. Mangiammo con lui, e fu il primo artista americano che incontrai a New York. All'epoca faceva già quadri neri su sfondo nero, una croce nera su sfondo nero che si distingueva appena. Reinhardt fu molto contento quando andai al suo studio e gli dissi, guardando quei quadri neri, " Come sono abbaglianti! mi stanno accecando." Ma era vero! Lo sentivo, perché erano accecanti psicologicamente, non dal punto di vista ottico.

Lei dunque arriva a New York, e già conosceva in qualche modo l'arte americana del secondo dopoguerra. C'é una sua dichiarazione del 1947, in occasione della collettiva alla Galleria Il Fiore di Firenze, dove Lei afferma: " Crediamo dunque alla pittura come 'messaggio', in funzione di una visione mossa dall'intimo. " Da quale percorso scaturiva questa posizione, che é affine a quanto dichiaravano, all'incirca negli stessi anni, alcuni pittori d'oltreoceano ?

Io ero nato espressionista, sono un pittore autodidatta; appena ho preso coscienza della pittura - con anni di disegno assiduo ho fatto la mia accademia - è scaturito il mio temperamento espressionista, allora subito ho amato l'espressionismo europeo: era ciò che conoscevo. Soprattutto adoravo Van Gogh: avevo tutto lo studio tappezzato di sue policromie, che allora si vendevano sciolte. Adoravo Kokoschka, non l'ultimo modo, ma il primo, il Kokoschka berlinese, quello più espressionistico; poi amavo Soutine, moltissimo: quindi apprezzavo già un espressionismo che era, benché figurativo, già espressionismo, nel senso che i quadri di Soutine - si può dire - sono già astratti; la materia pittorica viene frantumata, strappata, dilaniata dalla pennellata. Il personaggio è un pretesto, un fantoccio, in realtà quello che conta sono queste striature di carne viva e sanguinolenta, che sono la pittura di Soutine.
Ero già in questo contesto, però avevo un grave handicap. Essendomi formato in 'provincia', con la Scuola Romana - amavo naturalmente Mafai, Scipione, ero amico di Mafai, - avevo però la remora della figurazione. Non capivo ancora l'astrazione. Ero un pittore espressionista, ma non astratto, figurativo. Non arrivavo ad intendere l'astrazione, perché ero dentro un'estetica, quella crociana, che divenne poi quella di Cesare Brandi, che era mio amico; tutto il mio ambiente era dentro un certo clima mentale dove non si ammetteva che la figurazione, per quanto deformata, alterata, messa a bollore - diciamo - che sempre però doveva partire dall'oggetto esterno, il quale diventa simbolo e poi immagine ... secondo l'estetica di Brandi. C'era questa specie di remora.
Per esempio io feci nel'47 una mostra che si chiamava I Quattro fuori strada: era una mostra bella, una pittura espressionista, però figurativa, ... non riuscivo a rompere.

Ma Lei era già a conoscenza di quanto accadeva in America?

Non sapevo niente dell'America, nel 1947-'48-'49, non sapevo nulla. Non pensavo ci fosse pittura in America.

Dunque questa sua dichiarazione del '47, segna un'affinità ...

p align="justify">Un'affinità oscura, lontana. ... Quand'è che cominciai a capire l'astrazione? La capii per un disgusto che piano piano mi stava nascendo di fronte alla figurazione. "Perché la figurazione? Come si può raffigurare oggi? Cosa raffiguri se noi siamo tutti interiorizzati, se ...", traevo le conseguenze filosofiche del pensiero che non crede nella trascendenza, ma solo nell'immanenza, il ricondurre l'uomo all'uomo, ... ma non in senso ottico, in senso interiore, di libertà interiore, di solitudine interiore, il nulla. Apprezzavo il pensiero esistenzialistico, soprattutto la Fenomenologia. Ero grande ammiratore di Merleau-Ponty, lo leggevo e ne ero appassionato: quando andai a Parigi seguii le sue lezioni. C'era questa formazione che nasceva in me: un formarsi libero ancora legato però da lacciuoli, che tentavo di rompere in tutti i modi. Allora ho avuto un periodo quasi surrealista, picassiano, facevo delle figure piatte piatte come delle carte da gioco. Facevo tutte queste cose per rompere l'idea dell'ottica, cioé 'devo guardare un oggetto per riprodurlo, comunque, anche alterandolo, ma sempre in rapporto con questo triangolo'. Nel '53 conobbi Afro, lui fu molto importante per me. Aveva perso la moglie da poco, Maria, che lo aiutava molto nella sua ricerca e gli dava una grande forza morale. Io persi mia madre e ci trovammo molto soli, tutti e due, in modo diverso. Avevamo già molta simpatia l'uno per l'altro, molta ammirazione reciproca, però questo fatto ci unì molto. Diventammo molto amici in un modo affettuoso e molto umano, come un conforto. ... Io ad Afro diedi una cosa molto importante: il pensiero sulla pittura, il vero pensiero sulla pittura; lui diede a me una cosa altrettanto importante: il vero artigianato come pittura. Mi fece sentire che la pittura é un lavoro, é un azione che si pone sul fare e sulla perfezione del fare. Questo io debbo ad Afro. Io ho dato ad Afro in un altro senso, gli diedi la consapevolezza che la pittura é un pensiero e che non si può dipingere se non si pensa. C'é stato uno scambio molto importante tra noi, molto raro, durato qualche anno. Lui aveva viaggiato, era stato a New York con la moglie, io gli chiedevo spesso: "Ma insomma cosa c'é a New York."

Afro aveva frequentato artisti americani a New York ?

Non si era affatto interessato dei pittori di New York. Si era interessato dei surrealisti (che facevano parte della squadra della Viviano, in cui era anche lui), dei collezionisti, della mondanità. Aveva fatto un ampio viaggio negli Stati Uniti, era stato in Colorado, aveva girato l'America come turista. Ma non aveva frequentato alcuno studio a New York. Anche perché era visto male, lui apparteneva a quel cotè mondano del potere, un pò reazionario. Accadde una cosa importante, che avevo dimenticato. Milton Gendel era un critico d'arte venuto in Italia con l'esercito di liberazione degli Stati Uniti, si era stabilito a Roma ed era diventato corrispondente di "Art News", era grande amico di Tom Hess, il direttore di questa rivista. Lui pubblicò due saggi molto impegnati, uno su Burri e uno su di me. Io stavo diventando astratto, ero già astratto, da poco, era il 1954. Fece questo saggio in una serie che raccontava nel modo più pragmatico possibile - perché il pragmatismo è d'obbligo per gli americani - come Burri, come Scialoja dipingeva un quadro: proprio la modalità. Descriva tutti i colori, gli impasti, le azioni, le pause, gli intervalli, come si ricomincia etc., partendo dal bozzetto (non era mia abitudine farne), per arrivare a capire come era fatto il quadro. ... Fece anche le fotografie dello sviluppo, il primo tratto, poi i segni che seguono, come si campisce un punto, poi come si corregge, ... tutto quello che é l'andamento del fare un quadro. Erano interessanti; Art News nasceva come una rivista rivolta al dilettante, a quelli che volevano imparare a dipingere, poi in seguito fu modificata. - pragmatica in un modo incredibile. Fallo da te il capolavoro! - Questo critico, Milton Gendel, era molto amico dei pittori di New York, era compagno di scuola di Motherwell, amico di Pollock, ma con me non ne aveva mai parlato. Accadde una cosa importante: quando uscì il suo articolo su Art News, con tante fotografie bellissime, di sei-sette pagine tutto dedicato al mio lavoro, mi fu spedito a Roma. Io strabbuzzai gli occhi, mi chiesi come era possibile che a New York usciva una rivista così importante, così bella, così interessante! C'erano articoli su molti pittori, mostre, tutto un mondo! E rimasi sorpreso da questa vitalità incredibile, che percepivo, il coraggio, la forza, l'interesse. C' era un mondo! Un mondo che io ignoravo. Allora su questa idea che c'era un mondo da esplorare, su cui informarsi, ho comprato un libro sul Museum of Modern Art di New York. Oltre agli stupendi capolavori che ci sono, che in gran parte sono europei, Mondrian etc., c'erano i pittori americani....

Gorky, per esempio....

Esatto c'era Gorky, ... mi ricordo ancora la folgorazione, come San Paolo a Gerico! Vedo il quadro di Gorky che si chiama Agony. Vidi questo quadro e capii tutto di colpo, fui illuminato di colpo e ferito al cuore, vide cor meum ."E' così che si dipinge! Questa é la pittura!" Ed entrai così in quella idea. ... Un'altra cosa che mi é molto servita é stata una mostra di "Giovani Pittori" a Valle Giulia, nel 1955, giovani pittori di tutte le parti del mondo, anche di New York e San Francisco, ... c'erano tre quadri di Diebenkorn, che é un pittore della scuola del Pacifico, che guardava un pò a un certo De Kooning, un andamento pollockiano un pò alla De Kooning, una contaminazione De Kooning-Pollock. Notai però, le grandi superfici con ampie pennellate ondulate, così libere, sulla superficie e così sovrastanti, che mi venivano incontro come le onde che battono sulla spiaggia. Mi innamorai completamente di questo andamento curvilineo, questa dolcezza, questa intensità. Così tra l'immagine di Gorky , Agony , e i quadri visti sul vero di Diebenkorn, rimasi folgorato! Quest'ultimo artista ha avuto poi un periodo figurativo, stranamente, però un figurativo un pò appiattito, sempre sulla superficie, molto sagoma, senza corporeità, senza plasticità. Delle grandi zone cromatiche dava fastidio il fatto figurale, però la pittura era molto bella. Poi é tornatro alla pittura astratta, completamente astratta, con delle sezioni, dei rettangoli un pò sconnessi.

Veniamo al suo rapporto con Rothko....

Il mio rapporto con Rothko è nato con un'immediata simpatia, immediata amicizia, perché a lui piacevano moltissimo i miei quadri, quelli che dipingevo con dei 'dripping', 'semidripping', Il Sonno, ... questi quadri a lui piacevano molto perché il colore era molto teso e sempre sulla superficie. Io ammiravo molto i suoi quadri ... c'era una grande intesa. Inoltre avevo grande simpatia per la povera Mell, sua moglie, lui provava simpatia per mia moglie, Gabriella Drudi, c'era dunque una bella unione e voglia di stare insieme. Quando io sono stato a New York, la seconda volta nel 1960, andavamo a cena da Rothko quasi tutte le sere. Abitavamo sulla 57th Street e i Rothko stavano alla 54th Street (io ero ospite di un mercante d'arte che era anche un poeta, mi diede l'appartamento in cambio di un quadro), uscivamo ed andavamo a casa Rothko: era una modesta casa di tre stanze, con un salottino che finiva con una veranda sulla strada, bassa al primo piano. Quello che é interessante é che tutta la casa era tappezzata dei quadri di Rothko, poiché i suoi quadri erano già molto grandi, formavano una specie di tappezzeria. Si mangiava con questi quadri di Rothko davanti, di dietro, di lato, chiusi da queste grandi pareti: come una tappezzeria. Erano già i quadri più belli, di quelli con le grandi bande orizzontali ... ve ne era uno che aveva poi al centro una striscia con qualche segnettino....

Il Number 22 del Museum of Modern Art, arancione e rosso su giallo?

Si, credo di si. Si mangiava e si viveva in una modestia assoluta. Rothko era di una modestia assoluta, di una affetuosità inaudita, con le persone a cui voleva bene, ...

Anche molto loquace....

Si, parlava molto, sentenziava un pò, ma era soprattutto tenero. Poi - mi ricordo - cucinava lui ( Mell lo lasciava cucinare), faceva delle uova al tegamino, delle frittate, delle cose da poco; io gli facevo compagnia in cucina mentre lui sbatteva le uova, ... era di una tenerezza straordinaria, ... così come era severo e nemico con i suoi nemici: partigiano, molto forte, un temperamento che reagiva fortemente ... Ho una lettera di un critico di Venezia, di cui non mi ricordo il nome, ( Rothko, nel periodo in cui questo critico mi scriveva, era stato a Roma ed andava poi a Venezia, dove aveva una mostra.), il quale mi riferisce questo episodio: stavano visitando una galleria a Venezia, lui e Rothko, quando sopraggiunge Giuseppe Santomaso, che emozionato dall'incontro, con tono d'ammirazione si rivolge a Rothko e dice: 'maestro, io stimo molto la sua pittura, la amo molto perché è così ... così calma!'... e allora Rothko alterato gli risponde 'calma?! vuole dire terribile!'. Santomaso fece un errore: non si può dire una cosa del genere, puoi dire 'così bella', non 'così calma'; ciò naturalmente fece inalberare Rothko.

Lei ha accompagnato Rothko agli scavi di Ostia, è nota anche la visita che avete fatto insieme alle tombe etrusche di Tarquinia, più tardi, nel '66 nel'ultimo viaggio di Rothko in Italia ... A questo proposito volevo chiederle in che modo Rothko, l'uomo colto interessato di arte antica, ma soprattutto l'artista, guardava all'arte del passato ?

Ho dei ricordi precisi. Quando Mark venne la seconda volta a Roma stavamo sempre insieme, i Rothko erano soliti passare le giornate a casa nostra, a Palazzo Orsini. Erano i primi anni '60: a Roma si andava ancora in carrozza. Una volta andammo ad Ostia Antica ed entrammo in una casa con degli affreschi ed io dissi: "Ecco, questo è un Rothko!" C'era una banda gialla un pò logora, vibrante, accanto a una banda rosa: una fascia decorativa di quella bella pittura a fresco, opaca, vibrante, che il tempo aveva consumato rendendola incantevole. "Ah! Ecco un Rothko!".E lui "Magari!", mi disse. Al Metropolitan Museum di New York c'è una pittura pompeiana con dei colori alla Rothko: Lui li conosceva bene. La pittura antica, in generale la pittura, quando è grande pittura, propone una ineffabilità, il senso dell' ineffabile, per cui poi l'elemento iconografico non ha alcuna importanza. La gente si ostina ancora a vedere l'iconografia, il racconto: chi è quello, che santo è, che succede, quella è Venere, il boschetto ... com'è dipinto bene il boschetto! - No, il boschetto non c'è proprio! - C'è una ineffabilità che è un grado superiore di percezione. Lui l'aveva fortissima: è un grandissimo artista. Lui percepiva benissimo questa ineffabilità, questo assoluto che si compie in uno spazio che è soltanto virtuale, si compie, si accenna, ma senza arrivare mai al punto finale, al traguardo. Un andare verso l'assoluto, un colore magico ... Il colore é una magia psichica, non è uno spazio misurabile. Anche nello spazio prospettico, fino a Cezanne, il colore è fuori della misurabilità. Questo è il mistero del colore, il grande mistero del colore. Lo spazio è misurabile in una piramide ottica, ed è lo spazio della prospettiva. Il colore locale, che appartiene all'oggetto - il manto della Madonna è celeste, il filo d'erba è verde, il cielo della tempesta è bluastro, grigiastro-nerastro, il tempo sereno di Tiziano è celeste e poi va sul rosa nel tramonto e così via, quella foglia è verde, un verde marcio - ... il colore non è misurabile: questo è il grande segreto, che io ho percepito, che cerco di sfiorare nella mia pittura e che Rothko ha risolto in pieno, in un modo geniale: il colore non è misurabilità, sta in uno spazio fuori dalla calcolabilità. Il colore è incalcolabile, per cui non è vero che il celeste del drappo della Madonna appartiene al drappo: va per conto suo, è un'allucinazione.

Mi parli ancora di questa 'ineffabilità', può essere definita come pregnanza dell'immagine attraverso il colore, o cosa?

Se tu guardi un quadro di Pollock, il Numero1 per esempio, Manet! Tu dici questo è Manet: è la spiaggia di Manet, il cielo, le onde di Manet, sono le guarnizioni delle maniche delle fanciulle sulla spiaggia di Manet, perché il Colore non è il colore in sé: è rapporto, ... allora cosa vuol dire? Tu vedi un quadro astratto e ti da la spazialità di Manet, perché non c'è né astrazione né non astrazione ... c'è questo mistero ... le parole sono scarse, sono sempre le stesse, ci inzuppi il pane ed hai sempre lo stesso sapore, ... C'è qualcosa di trascendente, forse l'idea di Dio, l'idea di Dio per un mistico. Il mistico ha l'estasi, che cosa vuol dire 'estasi'? vuol dire 'fuori della misurabilità del tempo e dello spazio,' 'va in estasi' non sa dire nulla né dove sta, in che stanza è, che ore sono, finché dura l'estasi è perduto, - perduto dove, però, in che cosa ? - Nella contemplazione di Dio. Non è che vedi Dio con la barba ... No contemplazione di Dio nel senso che c'è una interiorità che esplode, lentamente si espande, si espande al di là della stanza, al di là di tutto, del tempo e dello spazio, ... ecco non è misurabile.

Ma per un mistico, diciamo, 'laico' ?

Io parlo della contemplazione mistica che riguarda tutte le religioni, una forma anche laica, anche io ho le 'contemplazioni' ...

Parliamo allora del senso mistico della vostra pittura. Pensiamo alle immagini di Rothko, dove la 'misticità' è qualcosa di tangibile.

Si, tangibile. Lui ha capito questo segreto che appartiene a tutta la pittura, ... la pittura è bella per questo. La pittura è una cosa segreta, una setta segreta che pochi intendono; tutti la prendono per un altra cosa, invece la pittura è una cosa segreta che si tramanda ... di padre in figlio quasi! Lui ha capito questa cosa, e quindi c'è sempre questo elemento animistico, simbolista, perchè il simbolismo è il più vicino alla non misurabilità. Le mie 'impronte', per esempio, lo lasciavano un pò sconcertato, mi diceva io capisco che tu fai un'impronta perché è l'impronta, ne fai due perché vuol dire moglie e marito, ne fai tre perché sono moglie - marito e figlio, ne fai quattro perché sono moglie-marito e moglie-marito, due coppie, ma cinque cosa vuol dire ? ... Quindi lui aveva un cervello orientato continuamente sulla questione del simbolo, il segno-simbolo. Il colore per lui dunque era simbolico, voleva dire Inferno, Paradiso, lo strazio della lontananza, l'amore per la moglie, la solitudine. ... Lui diceva di un certo quadro: "questo quadro è il ritratto di Mell". Proiettava quindi psicologicamente una sua idea sulla superficie, l'animava di fatti psicologi. C'era in certo modo un'elemento surrealistico che gli era rimasto addosso. Rothko era nato surrealista ... ed era rimasto surrealista: strano. Io non capivo, perché era una cosa assolutamente astratta, puramente ritmica: un ritmo puro di luce, di timbro, di quantità, di spazialità, di spessore. Invece lui gli attribuiva dei significati psicologici.

Le riporto un'altra dichiarazione dell'ottobre '59 dal suo 'Giornale di Pittura' dove si dice:"la pittura è simbolo, non fruito, dell'assoluto". Questo è sempre sulla stessa linea di pensiero?

Bé, si. Posso usare di volta in volta espressioni diverse, ma è lo stesso pensiero ... Io ho sempre detto che un quadro è bello se il colore è bello, il quadro può essere il più brutto del mondo, se lo vedi in fotografia, naturalistico, banale, accademico, manieristico, ma se il colore è bello ... diventa sublime. Per esempio, un pittore insopportabile se lo vedi in fotografia, è il Doganiere Rousseau: peinter de la dimanche, il solito dilettante, pittore popolaresco, ce ne sono tanti di questi popolareschi in tutto il mondo, che fanno i bambini, il portiere che dipinge di domenica e fa le cose come un bambino. Ma il colore! Se vedi il quadro, è il colore che rende il quadro bellissimo. - Ma allora cos'è questo colore, cosa vuol dire? Ma daltronde che cos'è la vita ? Se tu mi spieghi cos'è la vita io ti spiego cos'è il colore! Allora ... vedi che c'è il mistero!

Allora questo 'assoluto', che è un leit-motiv anche di Rothko, come dobbiamo intenderlo, è qualcosa che si sente presente nella vita, qualcosa di concreto rivelabile attraverso strumenti, il colore, per esempio, così come me ne stava parlando ora ...

Pensa a Degas, che sembra così meccanico, così accademico, o soltanto plastico: fa degli oggetti corporemente tridimensionali; poi vedi il colore dei tutù, dei sofà, e rimani di schianto. Il colore è bello come quello di Filippo Lippi. - Incredibile! - ... Io penso che il colore sia un modo per sottrarre alla morte la vita umana. La grande misura è la morte, nel senso che la morte è la famosa data 'nato il ... - morto il ...', è la vera misura. E come tale è deprecabile, perché tu non vuoi essere misurato ...

E il colore come 'non misura' è una vittoria su questo?

Il colore come non misura è la vittoria sulla morte. - La vittoria? - E' il modo per schermarsi davanti al sole, togliersi questa luce orribile dagli occhi. Il colore è questo. Questo credo sia il senso. Questo l'assoluto. Non perché le cose diventano assolute, le cose che il colore tocca e assolve, divengono poi loro, in se, assolute ... Il colore trasporta dal piano della misurabilità, quindi della morte, al piano dell'ineffabile, dell'eterna primavera, della fontana della giovinezza, il Paradiso Terrestre insomma ... questo è il colore: quest'infanzia che non tramonta più.

Ma questo quid, diciamo così, che è presente solo alcune volte, quando il colore riesce dalla tela a ridarci questo senso, ... è qualcosa sentito come trascendente, lontano dall'uomo oppure qualcosa che fa parte della vita, è qui?

Non solo fa parte della vita, ne è l'essenza! E' la vita! Non è niente di aggiunto, di 'deforme' nel senso di una forma che poi la vita coglie: questa è una deformazione! Non è un surplus di un bagaglio che pesa già troppo, non è qualcosa di eccezionale, secondo me è la vita. Perché l'arte è la soluzione della vita, e non c'è altra soluzione. Hanno cercato la via attraverso il sentimento religioso, le religioni sono le soluzioni della vita: la religione ti propone la vita eterna, che non esiste, ti propone l'immortalità dell'anima, che non esiste, ti propone Dio, che non esiste e via così ... - Per me il grande mistero è che la gente crede ancora a queste cose! - ... La religione c'ha provato: ma è l'arte che rinnova continuamente il tentativo di questa felicità interiore, che non si raggiunge in nessun altro modo. Mi si può dire "Tu allora credi nella religione dell'arte": no l'arte non è un fatto di religione. L'arte è un fatto di intimità con se stessi. Può succedere che uno si alzi la mattina e si senta così felice, sente che esistere è una cosa importantissima, unica, cosmica, piena ... Però sono momenti rapidi, folgorazioni che subito poi passano, ... L'arte è la sostanza di questo elemento, per cui non si può mai parlare di un sentimento ... un quadro non è ne triste ne allegro. Una commedia di Shakespeare è triste o allegra? è tragica o ...? Ma come è tragica se è così bella, se è così formalmente perfetta, se tocca questi punti assoluti ...

Rothko le parlava mai della tragedia, ... di Shakespeare?

Di questo non me ne ricordo. Ma Rothko era molto colto, non nel senso che aveva letto tante cose, no. Io ho delle lettere di Rothko che sono scritte anche in modo un pò rozzo, ingenuo. Non era un letterato, ne una persona di grandi conoscenze. Ma la cultura si sà non è un fatto di quantità, ma di qualità, di amore. L'amare la sostanza spirituale della vita. Basta leggere cinque libri e sei un uomo colto, puoi leggerne cinquantamila ed essere solo un topo di biblioteca. La cultura è un fatto dell'animo, e Rothko questa profondità l'aveva senza dubbio.

Lei mi accennava prima all'interesse, da Lei, nutrito per la filosofia, in particolare per il pensiero esistenzialista, la Fenomenologia, il relazionismo di Enzo Paci, etc. Qual'era il rapporto di questi pittori americani con la filosofia contemporanea?

Loro amavano Emerson, che è un filosofo che precorre tanti fatti della Fenomenologia. E' il dinamismo dell'anima americana, l'invenzione della sua coscienza, il Trascendentalismo. Leggevano moltissimo, il Trascendentalismo per loro era pane quotidiano! De Kooning leggeva Wittgenstein. Sapevano benissimo che la pittura e l'arte sono un fatto mentale.

Tornando ai quadri di Rothko ... Per arrivare alle cosid dette 'pareti di colore', Rothko opera, per così dire, una 'riduzione' quasi totale. Compiuta questa eliminazione, tolti anche gli ultimi residui grafici del Number 22 del 1949, prima ricordato, ... Cosa emerge, cosa produce questa 'eliminazione'?

Produce la perfezione! La semplicità assoluta che è la perfezione. Come un verso perfetto "Sempre caro mi fu quest'ermo colle ...", dove non si può dire ne di più ne di meno. Dunque non è una riduzione che impoverisca o che essenzializzi in modo formalistico l'immagine: lui non è il padre dei minimals. E' il contrario del minimal, perché minimal è ridurre formalisticamente: una sedia ha quattro gambe, poi tre gambe, poi due, poi una sola gamba, poi mezza, poi un quarto di gamba e quando hai un quarto di gamba hai il minimal ! Rothko più semplifica più arricchisce, perché nella semplificazione si condensa questo tipo di linguaggio e trova la parola giusta, sempre più giusta. Certi avverbi vanno eliminati, certi modi di dire vanno eliminati, questo aggettivo va tolto, qui soltanto c'è un sostantivo. ... E' arrivare alla sostanzialità dell'immagine. Rothko mi diceva "bisogna essere semplici, più si è semplici, più si è in grado di farsi capire". E' vero, ama il prossimo tuo come te stesso ha detto Gesù, sono sei parole, non c'è nessun tipo di retorica, nessun tipo di introduzione.

Riprendiamo il problema del colore. La 'riduzione' assume dunque il valore di una ricchezza che dalla semplicità dica l'essenziale: una frase chiara, sempre più efficace. Rothko ottiene questo arrivando al puro colore; è legittimo dare un valore di protagonista al colore, come relazione, che diventa così il vero oggetto della tela?

Il colore puro é una cosa che non esiste. Il colore é sempre spazio, ha una sua spazialità, é sempre in rapporto: non puoi mettere un rosso puro senza rapporto con qualche cosa, con la sua stessa materia, se vuoi. Ma non c'é il concetto di rosso, non esiste. Il colore é sempre un fatto di spazialità, Rothko creava delle cose tutt'altro che semplici nei suoi quadri, due bande di colore diverso che si stampigliavano , venivano fuori da profondità inaccessibili; vengono avanti, seguitano a venire avanti in un moto perenne: un moto a luogo perenne è la pittura di Rothko. Il luogo qual'é? Sei tu che contempli, é il tuo cuore che accetta questo tipo di riverbero, di cui si imbeve ed é un viaggio all'infinito, perché se tu contempli un suo quadro questo seguita a viaggiare verso di te. Sono tre, due colori, c'é uno sfrangiamento, c'é la quantità, é tutto un fatto di rapporto; é come socchiudere gli occhi, oppure spalancarli, oppure tenerli un po' obliqui; un continuo mettere a fuoco una serie di rapporti arrivati alla semplicità assoluta tutt'altro che impoveriti, inscheletriti. Addirittura quando fa un solo colore, sembra un solo colore, ma sono tanti; perché nel colore c'é il 'tessuto': il rosa é fatto con velature, strane velature. Ma bisogna chiarire: la velatura classica, quella 'veneziana', parte dai colori timbrati, dai colori chiari, dal bianco assoluto dato a tempera, in genere, e va poi sul bianco assoluto con degli strati di colore di un cromatismo più intenso, più timbrato. - Se vuoi fare un rosa dai un fondo bianco, poi gli vai sopra con il rosso e il bianco traspare sotto il rosso creando il rosa. - Se questa é la velatura 'veneziana', Rothko fa il contrario. Lui parte dai timbri forti, da un blu forte e poi comincia ad andarci sopra con dei colori più chiari, quasi a creare un'ultima vibrazione, quasi di bianco come può essere bianca una lingua di una persona che non sta bene di stomaco, una specie di patina bianca.

Mi parli dei materiali. Rothko usava delle terre mescolate poi, in un secondo momento, con olio e trementina ...

Rothko, in genere, partiva dalla tempera e gli ultimi ritocchi li dava ad olio. Le terre sono pigmento colorato che si possono aggiungere a qualunque medium. Il pigmento è sempre necessario, però questa polvere, - se si fa un affresco - la si inzuppa nell'acqua e poi la si passa sull'affresco. E' la calce in quel caso che succhia le mani di colore depositato, diluito prima nell'acqua, le assorbe, quindi lo stesso materiale dell'intonaco fa da collante. Quando si danno queste pennellate di pigmento sciolto nell'acqua, non c'é nessuna colla dentro. Quando l'affresco ha succhiato il colore ci si può tornare sopra e metterci la tempera. La tempera cosa è ? E' la colla che aggiungi all'acqua e al colore; può essere colla di coniglio, di pesce, a caldo, a freddo, ma il pigmento é sempre lo stesso.

E l'uso dell'acrilico che lui fa nell'ultimo periodo?

Lì é la crisi! E' un periodo da cancellare. E' l'ultimo periodo tragico, è la morte! Rothko aveva problemi con l'aorta, molto gravi, inoltre Mell, la sua adorata moglie era completamente alcolizzata, era ormai una vita invivibile la sua. Rothko non poteva più vivere nella stessa casa con sua moglie. Andò a vivere nel suo studio, che era un antico spazio, immenso, sulla 69th Street, che molto tempo addietro veniva usato come magazzino per riporre le carrozze, venivano tirate sù all'ultimo piano con tutta una serie di elevatori. Uno studio bellissimo. Ogni giorno andava a trovare suo figlio a casa. Cadde, però, sotto le grinfie della vedova di Ad Reinhardt, una donna stupenda, tedesca, alla Marlene Dietrich, giovane e bellissima. Rothko cedette a lei, ma non al punto di separarsi da Mell e di sposarla. Seguitava ad andare spesso a casa: viveva nell'incubo che morisse la moglie e che il bambino trovasse in casa la madre morta. "Non potrei sopportare questo" mi diceva Rothko. E così é stato invece, quando Mell morì, appena sei mesi dopo il suicidio di Rothko, fu trovata in casa dal figlio Christopher, di appena sette anni. Rothko, in quell'ultimo periodo, era già una persona finita. Rita Reinhardt, fredda, terribile, sessuale, bellissima, lo tormentava dicendogli che la sua pittura era troppo raffinata, troppo piacevole, troppo zuccherina: "un grande pittore era Ad Reinhardt, così secco, severo, non concedeva niente al piacere della vista." Influenzato da lei, (quanto può l'eros! quanto offusca e quanto la castità in fondo é una cosa santa da questo punto di vista!) Rothko si é messo a fare la pittura con l'acrilico. Lui che dipingeva a tempera e a olio con tale sapienza! L'acrilico! Spremi il tubetto e già ti senti male, é orrendo e luccica, é fatto con resina sintetica. Si mise a fare l'acrilico bianco e nero, una banda bianca e una nera, il cielo nero e il mare grigio. Era tornato al naturalismo! Non c'era neanche più la ricerca della luce, c'era solo questa volontà di essere 'secchi, essenziali, elementari'. Inoltre non dipingeva più fino ai bordi, ma lasciava un campo vuoto di colore. Delle bande con l'orizzonte! Brutte, io le vidi e le trovai bruttissime: Rothko non c'era più! A tal punto non c'era più, che infatti di lì a poco si suicidò: una notte, rimasto solo, andò in cucina, in maniche di camicia, davanti allo specchio, si recise le vene delle ascelle, rimase lì finché non cadde dissanguato e venne trovato morto al mattino. Poi ci fu una storia tristissima, ... che non voglio raccontare. Rothko era ridotto malissimo, in quell'ultimo periodo era irriconoscibile. Io lo vidi, ero spesso a New York allora, aveva i capelli incolti, lunghissimi; mangiava e gli cadeva il cibo dalla bocca ... era un rottame.

Beveva molto, era alcolizzato.

Si, ma non era quello il vero problema, ... era disperato. Inoltre, anche per i disturbi dell'aorta, sapeva di essere condannato; sarebbe morto da lì a poco se non si fosse ucciso.

Molti critici, tra cui anche italiani, analizzando l'ultima produzione di Rothko, danno una particolare importanza a quel bordo lasciato bianco; interpretando l'immagine che non fuoriesce più dalla tela, bloccata, come la prefigurazione della morte, una resa anche pittorica alla morte.

Non lo sò, è opinabile. La morte era sempre presente nei suoi quadri, per essere sconfitta doveva essere presente.

Qual'è la differenza tra il processo di riduzione progressiva operato da Rothko e le pitture nere di Reinhardt?

Il quadro per Rothko era ancora una questione di pittura, così come s'intende attraverso Tiziano o Giorgione; per Reinhardt dipingere era un atto concettuale, lui seguiva il buddismo, faceva contemplazione buddista, intendeva l'assoluto dunque in un altro senso, non nel senso della carnalità, ma nel senso dell'astrazione metafisica, disgiunta dall'uomo, un pensiero indiano che non mi è mai interessato.

E Rothko cosa ne pensava?

Lui credeva piuttosto in quella forma di pensiero zen, che si affida al fare, lascia che la natura operi per forza propria, per cui non si va contro la natura, ma bisogna seguirla, anche l'andamento del pennello è un modo della natura, lasciare che sia la mano a guidarti e non tu a guidare lei. E' una formula di pensiero orientale.

Dunque Lei vede delle influenze orientali nella pittura di Rothko?

Si. Tutto il gruppo dei pittori americani era influenzato da questo elemento, diciamo, pratico: più irrigidisci il muscolo meno sei libero nei movimenti, più sei sciolto e morbido, più riesci. E' come la danza che vince sul facchinaggio!

Arrivavano libri, ... come conoscevano l'Oriente?

Leggevano libri, articoli, era gente colta, si informavano ... era anche una moda: qualcuno di loro scopriva un libro ... e dopo poco tutti lo conoscevano. Lo zen era acqua corrente per loro, ma sempre in questa forma di divulgazione.

Rothko quale forma della cultura orientale prediligeva?

Lo zen gli interessava molto. Questo spiega anche la sua naturalezza, la fluidità della sua pittura, la spontaneità. L'immagine sembra che nasca come una bolla d'acqua; Rothko non andava contro il suo istinto, faceva fluire la percezione immediata.

Secondo Lei si può istituire una relazione tra la musica, così come concepita in Oriente, e l'uso 'quantificato' che del colore fa Rothko? Mi riferisco, per la musica, alla concezione per cui il suono prodotto dello strumento, la nota emessa o anche il rumore, è musica ...

Ha una sua spazialità.

Si ha una spazialità ed è 'materico'. Pensiamo a John Cage e alla sua operazione sul suono, anche lui del resto era uno zenista.

Si, di questo ne ho già scritto proprio nel mio "Giornale di pittura", dove dicevo appunto che Cage fa diventare il tempo della musica Spazio, spazializza la musica, la rende spaziale. Però il raffronto tra la musica orientale e il lavoro di Rothko mi sembra azzardato e privo di fondamento. La musica orientale procede per percussioni, per suoni puri, astratti da un collegamento, non c'è continuità, c'è soltanto una quantità di tempo che passa da un momento all'altro, ci sono solo dei punti: non si crea una linea melodica, non c'è armonia, c'è soltanto il suono. Questo non ha niente a che fare con Rothko. Semplifichiamo: Rothko amava Matisse, passava ore ed ore al Museum of Modern Art a contemplare i Matisse che erano esposti, all'epoca erano pochi ora la collezione è stata ampliata, c'era Lo studio rosso, la Letion du pianò e I pesci rossi . Amava soprattutto Lo studio rosso , che è di un rosso che va da capo a piedi, uguale e piatto. Quindi la sua formazione è Matisse. Matisse come idea della superficie e del colore che va giù piatto, che non va in prospettiva. Il problema era appunto di abolire la prospettiva, ma come? L'unico modo era di creare una nuova regola, una 'dodecafonia' che creasse una misura, il metodo. La regola fu trovata: era la superficie. La superficie voleva dire la 'non misurabilità' in un mondo che non mostra pietà e che la prospettiva aveva abituato a credere come misurabile. Una assoluta immanenza rispetto al mondo che la prospettiva aveva reso un mondo di trascendenza. Un'impossibilità di rimandare sia le cose della vita, sia la vita stessa, ad una vita eterna, ad un assoluto post , etc. Bisognava dire che la vita è il nostro presente, giorno per giorno, ora per ora noi viviamo e solo questo siamo: l'ora in cui viviamo. Dunque questa 'ora' vuol dire il presente, la superficie, premente verso di te come l'ora in cui vivi preme dentro di te. Un'immanenza assoluta è il senso di crearsi nel momento in cui stai facendo, non partire da un mondo già creato: il mondo dell'architettura che è quello che da la prospettiva.

Quale era la posizione di Rothko riguardo la definizione di pittura d'azione data da Rosemberg nel '52, dalla quale la sua pittura, in qualche modo, rimaneva esclusa: l'agire sulla tela era inteso come intervento fisico, anche violento, dunque estraneo all'approccio di Rothko.

Si, ma l'azione non è violenta, è un pensiero, una meditazione d'azione. Quella che vede solo l'intervento fisico è una interpretazione formalistica della pittura americana. Per me Rothko, come d'altronde Barnett Newman, sono pittori d'azione, perché io do al significato di azione una interpretazione meno pittoresca. L'azione è l'agire della mente attraverso la mano sulla tela, ma soprattutto agire sulla tela pensando che l'agire é la pittura stessa. Non è una 'causalità', il fare resta in sé, si isola: tu fai. Se io strappo un foglio di carta, questa è una azione, fine a sé stessa; ma se io strappo la carta con l'intento di ricavarne una barchetta allora questa non è più azione, è la normale azione artigianale che compie ogni pittore nel fare un quadro. La pittura d'azione è azione ; è azione sia quella di Rothko che quella di Newman, che quella di Pollock nei dripping, di De Kooning con le sue forme spezzate, di Kline etc.

Nell'ottobre 1959, nel suo "Giornale di pittura" Lei annotava: "Pittura d'azione non vuol dire agire sulla tela, contro la tela, ma agire dalla tela, attraverso ed oltre ad essa, dalla nostra parte. Rimbalzare nella vita." Questa affermazione è estremamente significativa: da una parte rettifica decisamente la lettura data da Rosemberg dell' action painting a partire dal 1952; per altro verso privilegia di questa pittura il rapporto dialettico istituito tra l'immagine e il fruitore. Quest'ultimo aspetto mi sembra che sia centrale per l'arte di Rothko.

Mi fa piacere che lei riporti questa citazione perché conferma quanto detto prima. L'azione vale in quanto tu ne sei cosciente, é un moto di coscienza lo svegliarsi all'azione. E' un interiorizzare il modo di costruire un fatto. Se costruisci un muro lo fai sia fuori che dentro di te perché ne sei consapevole, impieghi il tuo tempo umano. Il tuo tempo si consuma nel muro: lo scorrere, il flusso di coscienza si incarna nel muro. Quindi c'è una doppia consapevolezza: fare e vedersi fare. Altrimenti si potrebbe lavorare ad occhi chiusi, come del resto facevano Kline e De Kooning. Lo stesso Kline, una volta che ero andato a trovarlo a studio, mi raccontò come dipingeva. Prendeva dei fogli di carta, si voltava di spalle, e così girato dava dei colpi di pennello, a caso, si macchiava anche le scarpe; fatti così vari fogli, li lasciava lì per dei giorni, dimenticandosi anche della gestualità che aveva usato. Dopo qualche giorno li riprendeva e li guardava come se fossero stati fatti da altri; con la matita isolava le parti che gli piacevano di più, uno snodo, un intreccio, un sovrapporsi, uno schizzo di colore, un vuoto rispetto a un pieno etc. "Qui lavora!" diceva, ritagliava il rettangolo di carta e lo metteva da parte. Raccoglieva insieme poi i bozzetti migliori, quelli che sentiva più suoi, e buttava via tutto il resto. Si metteva allora ad osservare questi bozzetti e li imparava a memoria, imparava i gesti del polso, i movimenti, per poi ricrearli, identici, sulle grandi superfici che lui dipingeva.

Le citavo prima il passo dal suo "Giornale di pittura" dove Lei parlava di 'pittura d'azione', perchè mi sembra che rettifichi l'affermazione di Rosemberg quando Lei dice che pittura d'azione è agire dalla tela nel mondo, rimbalzare nella vita, nel senso di privilegiare quel rapporto, che in Rothko è per esempio la creazione programmatica dell'ambiente per l'osservatore (per l'uomo che vive davanti la tela e il quadro che vive con lui del suo spazio). Non pensa che questa possa essere una chiave interpretativa importante, privilegiata, anche se la critica ha dato generalmente poco rilievo a questo aspetto?

Questo è un punto importante, un punto chiave, che elimina un certo equivoco, approfondisce il concetto di azione e rende più vero quello che è poi un concetto di Valery. Elimina d'altra parte quell'elemento che rimane ottico, come nel saggio della Elaine De Kooning che dice che un quadro di Rothko modifica il rossetto della donna che gli sta davanti. Questo è grazioso, spiritoso, un pò proustiano, però seguita a vedere il quadro come fatto ottico. Si parla del riverbero del colore: come è per la vetrata di una chiesa, il sole passa attraverso il blu del vetro e tu diventi un pò bluastro nel volto. In questo modo rimane un fatto ottico, mentre è la mente che diventa blu, non le labbra!



	
 

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