Due mostre - vicine e lontanissime - di artisti giovani per due
istituzioni delle quali una gioca in casa e l'altra vince.
La Valle Giulia è più profonda di quanto si creda. Cinquanta
metri bastano per creare un dislivello epocale. La distanza è quella che
intercorre fra l'Accademia Britannica in Roma e la Galleria Nazionale d'Arte
Moderna, entrambe - fra altri compiti istituzionali - alle prese con la
difficile promozione dell'arte giovane dei due rispettivi paesi. Ma - di
là da questioni di budget - la mostra di Mona Hatoum alla British School
è l'occasione per avvicinare, attraverso un'opera inedita, un'artista
internazionale ospitata alla Biennale di Venezia di quest'anno; un personaggio
complesso, per la quale estetica e coscienza etnico-politica sono gli estremi
di un discorso sull'ambiguità. La mostra di Giuseppe Ducrot in corso
alle G.N.A.M. è, invece, l'esibizione di un lavoro non inedito per lo
stesso pubblico romano (or è mezz'anno dalla mostra alla Galleria Carlo
Virgilio), né sostenute da una problematicità di alcun interesse
per il dibattito artistico che dovrebbe essere insieme fatto estetico e
sociale: formale, cioè, e umano.
L'opera della Hatoum - un finto tappeto costituito di biglie di vetro
trasparente - vive di un'attrattiva messa in scacco dall'ambiguo utilizzo
dell'oggetto che invade quasi per intero l'ambiente in cui è ospitato.
Il lavoro può essere letto come fortemente influenzato dalla provenienza
orientale dell'artista, palestinese naturalizzata inglese, che essendo di
religione greco ortodossa ha alle spalle un retroterra fatto di impassibili
durezze espressive e di "numinose" bellezze intellettuali: le icone. L'antica
bellezza radiante ed il pensiero in questo caso tutt'altro che trascendente, ma
fisico e comportamentale, sono vivi ancora e nuovissimi nel lavoro creato per
l'Accademia Britannica il quale risente pure di un'altissima tradizione formale
e di "engagement" quale quella dell'arte inglese del secondo dopoguerra.
Nella Galleria Nazionale i busti di Ducrot son nati vecchi e simulano posture e
soggettari classici, volutamente ripescando a casaccio fattezze e materiali
dalla Roma imperiale o barocca. Genie di imperatori affetti da ipertiroidismo
devozionale post-tridentino e le cui mani paiono pensate da El Greco e
realizzate da Leoncillo. Ma tutto fuori tempo massimo. E perché, poi? Il
ripescaggio tecnico e iconico dall'antico non era già in un certo De
Chirico? o non lo hanno poi riproposto gli anni `80 con Mariani che,
però, ragionava tanto di più? O con Ontani che - vivaddìo
- giocava tanto più squisitamente?
Il lavoro della British School, secondo la felice tradizione di aggiornamento e
propulsione che la caratterizza, è una finestra su un mondo vivo e in
divenire; l'operazione della G.N.A.M. rischia invece di essere un inutile
giocarello: una palla di vetro - di quelle che, girandole, cade la neve -
dall'involontario Kitsch, nella quale però si legge un gravissimo
declino di autorevolezza sull'arte viva.
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