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Postmoderno, pseudotecnologia, arte  
Alessandro Tempi
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 159 (31 gennaio 1999)
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È noto che il pensiero postmoderno punta a porre in evidenza quegli aspetti della problematica tecnologica collegati alle modificazioni che l'espansione globale dei processi comunicazionali introduce nella concezione del sapere ed alle prospettive transculturali e transdisciplinari che da qui si aprono. Infatti, uno dei maggiori portati dell'evoluzione tecnologica attuale è senza alcun dubbio l'ampliamento del sistema massmediale in cui storia, tradizioni e culture si vanno riflettendo in un gioco illimitato di rifrazione, frantumandosi e dissolvendo le loro identità e delimitazioni. Per questo fenomeno sembra valere insomma il destino già indicato da Benjamin per l'opera d'arte, vale a dire la transizione verso l'anauratico, la perdita della dimensione cultuale che era assicurata dalla distanza spaziale e/o temporale fra opera e possibile osservatore. Ma nell'accezione postmoderna, questa transizione rivela effetti assai più significativi:

a) l'iconizzazione del sapere nel duplice senso di assorbimento del sapere nell'universo della produzione immaginale e come prevalenza della mediazione rappresentativa come forma vicaria di esperienza;

b) il processo di demitizzazione cui questo sapere si va assoggettando, una volta trasformato in dato immaginale. Si assiste così ad un curioso quanto inevitabile paradosso: la società che forgia tecnologie comunicazionali destinate alla demitizzazione del sapere, relativizzandolo e disperdendolo nelle reti ipertrofiche del visivo, tende e mitizzare quelle stesse tecnologie e le loro logiche strutturali.

Il paradosso è stato spiegato da Jacques Ellul 1 . proprio partendo della peculiarità del rapporto fra uomo e tecnica, cui comunque va anteposto un dato di fatto: in un mondo in cui la tecnica svaluta e dissolve i valori, essa si candida come unico valore assoluto e come unica portatrice di senso. Ma ciò avviene, secondo Ellul, perché verso la tecnica l'uomo è naturalmente portato a richiamare un atteggiamento tipicamente religioso, in cui si fondono paure e speranze, fervore e sottomissione, istanze salvifiche ed ossessioni apocalittiche, ma il cui risultato è generalmente l'accettazione della fatalità ineluttabile del dominio tecnico, accettazione che dipende in larga misura da un'estrema difficoltà a raffigurarsi realisticamente e/o obiettivamente come questo stesso dominio sia possibile, come pure dal fatto che questa difficoltà è sempre accompagnata da un senso di stupore, di incredulità, di inesplicabilità circa la capacità performativa di questo dominio. Stupore, inesplicabilità ed accettazione sono esattamente i fattori che oggi rendono della tecnica un'immagine mitica (che, come ogni mito, fonde in sé valori positivi e negativi), anzi la sola immagine mitica del nostro tempo. Ne consegue che l'adesione alla tecnica non può che essere mitica e fideistica come lo sono in genere le aspettative di ogni portento; ma soprattutto che l'adesione, ben più decisiva, al modello di razionalità che la tecnica rappresenta è in realtà qualcosa di sostanzialmente irrazionale. In altre parole, la possibilità stessa, per la tecnica, di rappresentare un valore - o perfino l'unico valore eventuale - dipende da una convenzione cui l'uomo sembra oggi pervenire per fede.

Il fenomeno della mitizzazione è particolarmente evidente nel caso dei massmedia, il cui potere di rappresentazione, che si realizza attraverso la loro pervasiva struttura tecnologica, pare condurre inesorabilmente a ciò che Jean Baudrillard 2 . chiama abolizione del contenuto o tautologia del significante: il significante che designa sempre e solo se stesso dietro l'alibi del significato. Il fatto è ormai manifesto, oltre che nel medium televisivo, anche nel cinema ove, come fa osservare David Carrier 3 . , un apparato tecnologico-produttivo oggi altamente sofisticato spettacolarizza se stesso annichilendo o rendendo residuale ogni possibile elemento contenutistico delle opere cinematografiche.

"Mitizzazione dei demitizzatori" e "tautologia del significante" sono insomma i due modi coincidenti in cui attualmente è dato leggere correttamente l'aforisma mcluhaniano "il medium è il messaggio", che in fondo interpreta ancora in maniera estremamente illuminante il fenomeno di polarizzazione della realtà intorno al sistema mediale di rappresentazione. 4

Il pensiero postmoderno, che per sua natura tiene in sospetto i sistemi costituiti di valori e le fondazioni forti del sapere, mantiene tuttavia col mondo tecnologico una relazione ambivalente: per un verso esso è visto, heideggerianamente, come espressione concreta di una "conoscenza interessata" 5

il che equivale ad un pensiero come rappresentazione che ha storicamente assunto di fronte alla realtà un atteggiamento di dominio e di sfruttamento (e si capisce quindi che questo tipo di conoscenza è "interessata" proprio nella misura in cui essa utilizza i presunti oggetti della propria comprensione per autoalimentare la propria essenza di dominio sull'esistente); per un altro, però, il sistema tecnologico dell'informazione rompe irrimediabilmente, per via dei suoi connaturati caratteri di molteplicità, eterogeneità e discontinuità, l'unità ideale della comprensione del reale, accentuando al contrario il carattere interpretativo delle nostre immagini del mondo. La mediatizzazione della società contribuisce insomma, secondo l'ipotesi postmoderna (proposta in specie da Gianni Vattimo) 6

ad indebolire il principio di realtà e la presunta obiettività delle sue rappresentazioni, ponendo le condizioni per sempre più allargato esercizio critico di intelligenza interpretativa capace di sfuggire alla tentazione di ritornare ad un più rassicurante, ma anche più autoritario, senso di oggettività tipico di un pensiero inteso come dominio tecnico-razionale.

È evidente che al fondo del pensiero postmoderno si agita una sostanziale svalutazione di quei valori umanistici verso cui molti altri pensatori fanno peraltro forte riferimento in vista di una possibile "umanizzazione" della tecnica, a causa del ruolo che proprio questi valori hanno svolto nello sviluppo del pensiero razionalistico moderno e della sua impresa di rappresentazione od oggettivazione della realtà culminata nella civiltà tecnologica. 7

È altrettanto evidente, tuttavia, che la soluzione ermeneutica che questo pensiero propone per il problema tecnologico pone come istanza basilare per l'uomo la ripresa di un rapporto critico con la "ovvietà del mondo" che deve essere ordinata, pena la sua non consequenzialità, su un costante, attento e non pregiudiziale lavoro interpretativo sulla multiformità del reale. In tal senso, la più utile opera di demitizzazione che l'uomo può oggi compiere risiede proprio nella deassolutizzazione del proprio mondo e verso questo fine pensatori distanti come Heidegger e McLuhan si trovano ad indicare strade inaspettatamente convergenti. 8

Ma la demitizzazione postmoderna tocca ovviamente anche l'arte e ciò non solo perché le condizioni della riproducibilità tecnologica ne minacciano l'esistenza stessa o perché essa non può più fare appello a quei valori umanistici che tradizionalmente hanno fondato l'essenza dell'opera e l'autenticità dell'esperienza. Le demitizzazione investe in pieno l'arte attuale nella sua transizione verso lo stato di pseudotecnologia, transizione che si compie concettualmente lungo quella linea autoanalitica dell'arte moderna che approda alla mozione di meta-arte, in altre parole ad una forma di conoscenza autoreferenziale analoga nei metodi e nei fini a quella delle "tecnoscienze" contemporanea, con la differenza che, nel caso dell'arte, la maturazione di una forte e strutturata autoconsapevolezza risponde ad una stringente esigenza di autoconservazione davanti a sempre più pressanti minacce di estinzione che provengono dal mondo dell'immaginario tecnologico. In questo senso, lo "horror mundi" espresso da molte esperienze artistiche di oggi - penso ad esempio al recente "posthuman" - rivela la consapevolezza tragica di molti artisti di non detenere più il compito di elaborare l'immaginario simbolico-figurativo del mondo. E' questo un privilegio che indubbiamente è loro appartenuto dalla preistoria all'epoca moderna, ma che proprio a partire dal maturare di quest'ultima verso la contemporaneità è stato gradualmente loro sottratto dalla tecnica, che oggi provvede per suo conto a produrre l'immaginario secondo le sue proprie prerogative. Anzi, ha suscitato l'effetto opposto: ha determinato la dissoluzione dell'operare artistico come attività specifica, trasformandolo in travestimento dell'idea, 9

in iconizzazione del concetto. Ma proprio come le icone bizantine, le icone dell'arte di oggi servono a perpetuare la nostra fede - o il nostro mito - nell'arte eludendo tuttavia qualsiasi messa in questione relativa alla sua esistenza ed alla sua autenticità.

Il nesso autoconsapevolezza-autoconservazione si trova dunque realizzato in primo luogo sul piano del linguaggio dell'arte e poiché, come Duchamp stesso affermava, non è l'arte in sé ad essere importante, quanto l' idea dell'arte, la via immateriale che l'esperienza artistica attuale addita non può che condurre al dissolvimento non solo in senso fisico-oggettuale, ma soprattutto in senso tautologico della "cosa" artistica, che sottraendosi alla domanda su "cosa essa realmente sia" (che porterebbe la questione nell'ambito del significato o dell'essenza), ci parla unicamente di se stessa o tuttalpiù della concezione che l'ha portata lì, insomma del proprio darsi ritualizzato dentro l'universo dato ed insindacato dell'arte. Che questa agnostica autochiusura dentro lo "hortus conclusus" di un'idea dell'arte (o estetizzazione di cose) sia anche una forma di autoesilio dal mondo ce lo dice anche la "strategia fatale" del suo porsi come sistema (vale a dire come struttura complessa retta dall'interdipendenza dei suoi elementi costitutivi). Il fatto è massimamente evidente oggi: non vi è manifestazione artistica che non "accada" all'interno del sistema dell'arte, anzi ogni manifestazione è "artistica" nella misura in cui sa varcare la soglia del sistema, che conferendole legittimazione autolegittima di fatto il proprio potere auto-organizzativo. In realtà, insomma, il sistema attraverso cui il mondo dell'arte si dà un'auto-organizzazione è un sistema di designazione (non ricerca un senso di autenticità, non emette giudizi estetici, non discerne l'essenza, ma semplicemente asserisce una qualità artistica per pura tautologia) alla cui origine sta il beffardo gesto duchampiano, quel principio rituale-ludico-comportamentale che ci dice "cosa è" arte, ma non "perché", che anima alcuni fra i momenti topici dell'arte contemporanea (Marcel Duchamp appunto, ma poi Yves Klein, Piero Manzoni, Andy Warhol, fino al recente "posthuman").

Le istanze di autoconsapevolezza e di auto-organizzazione possono dunque essere lette come modi o aspetti di un processo attraverso il quale l'arte cerca forme di autoconservazione in una società satura di segni e di immagini. Che questi modi siano analoghi a quelli in cui si manifesta l'universo tecnologico è un fatto che implica conseguenze di non poco conto:

a) la prima è la constatazione che l'arte sembra sfidare quell'universo proprio adottandone le stesse armi, ovvero i suoi principi autoreferenziali, anche se di sfida in senso proprio non si può parlare esplicitamente, semmai di sussistenza "a dispetto" della tecnologia all'interno dei territori protetti del sistema dell'arte (ed in questo senso le ragioni dell'autoesilio si fondono con quelle dell'autoconservazione);

b) la seconda è la rilevazione che anche laddove l'esperienza artistica non transiti verso forme pseudotecnologiche, si trova comunque a fare doppiamente i conti con un universo tecnologico che per un verso le contende di fatto il primato immaginale ed estetico, mentre per un altro ponendo in esonero la natura e sostituendovisi, 10

tende ad annullare quello scarto storico e di per sé necessario che l'arte aveva saputo introdurre nei confronti del mondo esterno e che demarcava la differenza fra un ordine esterno e dato all’uomo ed un ordine culturale che si riconduce al complesso delle attività umane. Quando l'arte si trova davanti non la natura, ma l'universalità della tecnica, ci si chiede insomma quale scarto sia possibile o pensabile fra creazione artistica e creazione tecnico-scientifica; viene da chiedersi, in altre parole, se non siamo arrivati ad una situazione di sconcertante e rischioso pareggiamento e/o di identità fra arte e tecnologia, per la quale l'uomo, cui l'arte aveva consentito la possibilità od il privilegio di rispecchiarsi nella natura (col dovuto, necessario distacco culturale), ora può riflettersi solo nel proprio doppio tecnologico, quindi solo in se stesso e senza alcun distacco o mediazione d'ordine razionale.

Come si vede, dunque, la demitizzazione postmoderna può avere molto da dire non solo rispetto al problema tecnologico, ma riguardo allo stesso destino dell'arte contemporanea nell'età della tecnologia. Il suo approccio ermeneutico ci conduce alla riscoperta di dimensioni che l'uomo di oggi è convenzionalmente portato ad ignorare, prima fra tutte la pretesa "naturalità" ed "ovvietà" del mondo che ci circonda. In questo senso l' interpretazione si pone come esperienza primaria ed "originaria" rispetto ad ogni altro tipo di esperienza dell'esistente e ciò vale anche in relazione ai fenomeni artistici, rispetto ai quali, come si sa, essa non ha da invocare ritorni a valori fondativi, ma può invece porre in questione la loro stessa possibilità e legittimità, il che implica il ricondurli entro un l'orizzonte della loro ontologica finitezza e quindi entro l'ambito della concretezza e della provvisorietà umana. 11

E questo, mi pare, il senso più autentico che la demitizzazione può conferire a tutti gli atti umani. E l'arte è fra questi.


NOTE

1 Jacques Ellul, Tecnologia, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1984.

2 Jean Baudrillard, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1976. Su questo tema vedi anche il saggio di Serena Santarelli, Jean Baudrillard o dell'omissione referenziale, in "Il Contributo", Apr.Giu. 1994.

3 David Carrier, Le opere d'arte false nell'epoca della riproduzione meccanica, in Museo dei Musei, a cura di Luccio Passetto, Firenze, Condirène, 1988.

4 Cfr. Renè Berger, Il Golem. Televisione fra simulacro e simulazione, Milano, Cortina, 1992.

5 Cfr. George Steiner, Heidegger, London, 1978 (trad. it. Heidegger, Milano, Mondadori, 1990).

6 Gianni Vattimo, La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989.

7 Idem, La fine della modernità, Milano Garzanti, 1985 e Postmoderno, tecnologia, Ontologia in Micromega, n.4, 1990.

8 Cfr. in specie Martin Heidegger, Gelassenheit, Pfullingen 1960 (trad it. L'abbandono, Genova, Il melangolo, 1989) e Marshall McLuhan, From eye to ear, 1977 (trad. it. Dall'occhio all'orecchio, Roma Armando, 1982). Inoltre, rinvengo un commento sorprendentemente "mcluhaniano" alla Gelassenheit zu den Dingen di Heidegger in Eugenio Mazzarella, Tecnica e metafisica, Napoli, Guida, 1981.

9 Jean Baudrillard, La sparizione dell'arte, Milano, Politi, 1988.

10 Jacques Ellul, cit .

11 Per questa via, l'istanza ontologica che l'esperienza dell'interpretazione pone non può non investire l'esercizio stesso della critica dei fenomeni artistici, alla quale oggi il sistema dell'arte assegna il compito statutario di conferire senso a questi ultimi. Resta infatti da vedere come e con quali finalità effettive la mediazione critica svolga questo compito, se nella direzione dell'instaurazione di una sorta di democrazia del senso che possa di fatto non richiedere più, ad un certo momento, alcuna forma di mediazione, oppure nella direzione opposta della sua mera autoriproduzione come garanzia di autoconservazione del sistema cui appartiene. Al riguardo, mi permetto di rinviare al mio testo Il critico e la scala di Wittgenstein, in NEXT, n.36, 1997.


 
 

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