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Mitologia della mutazione: Matthew Barney  
Isabella Baroni
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 24 gennaio 1999, n. 158
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Area Artisti

Cremaster 4 e Cremaster 5 sono due video di Matthew Barney, giovane artista californiano, presentati il 23 e 24 settembre nel piccolo teatro del Rondò di Bacco a Firenze. L'iniziativa è stata realizzata grazie alla collaborazione tra la Galleria del Costume di Palazzo Pitti e Pitti Immagine, nata con il fine di proporre una serie di iniziative espositive internazionali situate al confine tra diversi linguaggi estetici. I due episodi di Cremaster - scritti, diretti e interpretati dall'artista stesso, e prodotti dalla Barbara Gladstone Gallery di New York dove Barney ha esordito nel 1991 - fanno parte di un'opera composta da cinque film indipendenti che verrà presentata compiuta nel 2001 in esclusiva mondiale al Guggenheim Museum di New York.

Il ciclo complessivo dei Cremaster allude a quel particolare momento della vita del feto in cui esso inizia a differenziarsi sessualmente. L'artista mette in scena una sorta di "ecografia", uno sguardo volto al momento in cui l'unità primigenia, sessualmente indistinta, si frattura. L'essere umano nasce come creatore delle differenze, nasce creando e ricreando se stesso a partire da un altro astratto e simbolico. Lo svolgersi della narrazione nel continuo passaggio attraverso orifizi, varchi, aperture qualifica le azioni come un susseguirsi di ingressi in uno spazio chiuso - o fuoriuscite da esso - e indica che il luogo dove le azioni si svolgono è un luogo interno, un "interiore" biologico. È un luogo interno come il cremaster, il muscolo che sostiene i testicoli e che funziona come una sorta di sistema di controllo della temperatura. Ma le continue mutazioni e i continui rovesciamenti nullificano qualunque relazione spaziale e temporale: questo impedisce realmente di distinguere un "dentro" da un "fuori", o l'inizio del processo dalla sua fine.

Un preciso itinerario tematico lega tra loro i luoghi di realizzazione della serie completa dei Cremaster, non ancora ultimata, come in una sorta di mappa psico-geografica. Cremaster 4 - realizzato nel 1994 e presentato nel 1995 alla Fondation Cartier - è stato girato nel Mar d'Irlanda, sull'Isle of Man. Barney interpreta una sorta di satiro, abbigliato di bianco con capelli rosso fiamma, che balla il tip tap sino a bucare il pavimento, quindi cade nell'oceano e inizia a scavare il fondo marino. Lo assistono, nel suo viaggio, tre fate androgine impersonate da tre body builder, caratterizzate da un vigore corporeo quasi michelangiolesco. Il satiro riemergerà infine dall'altra parte dell'isola dove si sta svolgendo una gara motociclistica.

Cremaster 5 - in cui il linguaggio visivo raggiunge una maggiore sofisticazione - è stato girato alla State Opera House di Budapest, città natale di Harry Houdini, il celebre illusionista e figura ispiratrice di Barney. L'artista questa volta interpreta tre differenti personaggi, la Diva, il Mago e il Gigante, mentre Ursula Andress è la Regina delle Catene. à difficile precisare il ruolo che ciascuna di queste figure recita all'interno della struttura complessiva del racconto, ma è piuttosto la narrazione stessa ad assumere la funzione di soggetto mitico. Come in un rito iniziatico, le azioni di Cremaster 4 e Cremaster 5 mettono in scena una sequenza cerimoniale che testimonia il passaggio del corpo da uno stato all'altro. I predecessori di Barney sono infatti personaggi - come Harry Houdini o Jim Otto, famoso giocatore di football americano - considerati artisti-atleti che intervengono sul proprio corpo trasfigurandolo attraverso la disciplina psico-fisica. L'artista stesso, del resto, ha un passato di sportman.

Come altri artisti contemporanei Matthew Barney usa il travestimento provvisorio che gli garantisce un anonimato fisico, gli permette di essere di volta in volta il soggetto della sua opera senza essere riconosciuto. Ma soprattutto gli consente di mettere in scena uno "spettacolo di se stesso": l'effetto di autoreferenzialità estrema - nel momento in cui esibisce il corpo sottoposto ad una estroversione radicale di quelli che sono i suoi organi e pulsioni interne - manda in corto circuito il soggetto stesso. In questo senso, sembra che il lavoro di Barney rappresenti il sostrato comune su cui opera tutta quella fenomenologia artistica e quella nuova produzione estetica che rivelano la radicalità attribuita oggi al corpo in ambito sociale, culturale, politico.

A fare spettacolo nell'epica cinematografica di Barney è un corpo che taglia trasversalmente la biologia e l'anatomia, un corpo che si contorce in esasperati e inutili atletismi, in prove fisiche in cui non c'è alcuna competizione se non quella di superare se stessi o di trascorrere nelle prestazioni gratuite e virtuosistiche che l'artista compie "in" e "su" queste zone di confine. Si apre uno spazio della corporeità che chiede di essere invaso da un nuovo mito.

Barney si inserisce nell'attualità del dibattito contemporaneo sul genere e la sessualità, recuperando una umanità ambigua e vagamente androgina, i cui connotati fisici danno continuamente informazioni contraddittorie. Ma non si tratta di una umanità disidentificata sessualmente, bensì colta nel momento precedente al generarsi di qualunque identità sessuale. Ogni futura determinazione della sessualità è ancora allo stato potenziale, oppure "l'utopia della differenza sessuale ha fine nel momento in cui si realizza, nella commutazione dei poli sessuali" (J.Baudrillard): quello che si produce non è la specificità di ciascun sesso ma caso mai la loro confusione e determinazione virtuale.

L'opera di Barney, nella sua dimensione epica, rivela una matrice rivolta verso la classicità e il mito. Se il compito della strutturazione mitica è di stabilire distinzioni, la distinzione primaria ad essere messa in gioco è proprio quella che riguarda il genere. Il pensiero mitico costruisce la biologia stessa come un mito, e quindi come un prodotto della differenza sessuale: "maschile" e "femminile" diventano questione di soggetto e non di anatomia. Ad essere messa in gioco è la posizione che il soggetto occupa in relazione al desiderio, il quale si costituisce come radicalmente separato dalle determinazioni vitali dello stesso corpo. Come a dire che la corporeità del soggetto è di fatto disgiunta dall'organismo. L'attenzione ossessiva che Barney rivolge ai dettagli - all'ornamento, al codice cromatico degli abiti, alle acconciature, allo strano groviglio scultoreo e grottesco che sostituisce gli organi genitali dei suoi personaggi - manifesta lo statuto di un corpo che è simbolo e significante di questa corporeità che poco ha a che fare con ciò a cui lo destina la biologia.

La ricerca del primo luogo dell'esistenza formale del soggetto (il feto), lo porta a scoprire anche quello che è il primo luogo del radicarsi del desiderio. E nella messa in scena di sé stesso, il soggetto mette in scena proprio il dramma del suo desiderio, che è prima di tutto desiderio di sé. Nonostante la narrazione spesso sia criptica e oscura, Cremaster 4 e Cremaster 5 hanno una straordinaria forza evocativa e la profondità tattile che potrebbe avere un sogno da cui stentiamo a risvegliarci. Barney crea un'immagine di immediata evidenza visiva, che supera e oltrepassa la necessità di decodificare la fitta trama di simbologie, riferimenti iconografici, citazioni. Una celebrazione visiva e un trionfo dello spregiudicato liberalismo culturale con cui Barney trascorre e attraversa tutto il patrimonio visivo e culturale del passato. Un trionfo della vita straordinaria di quelle immagini - maschere eccessive, ridondanti e oscene - che traggono alimento dallo scavalcarsi feroce di realtà e di simulazione, e che portano con sé la mitologia di un corpo di volta in volta esposto nel suo artificio quasi manieristico, nella sua ornamentale sontuosità barocca, nel suo dandismo postmoderno.


 
 

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