Sono ormai innumerevoli gli studi che dimostrano la sostituzione della moda all'arte nella produzione di beni estetici. Si pensi al filosofo americano Arthur Coleman Danto (La destituzione filosofica dell'arte) e alle provocazioni del filosofo francese Jean Baudrillard (Il delitto perfetto), che considera la moda, insieme alla chirurgia estetica, lo strumento più esemplare della possibilità di espansione del senso di sé. Personalmente sono sempre più convinta che alla moda si deve una capacità straordinaria di produrre un immaginario collettivo visuale e di esprimere la sensibilità del nostro tempo, così come aveva chiaramente intuito Warhol, che di moda si era occupato indirettamente attraverso una fitta rete di relazioni e collaborazioni con i più famosi stilisti degli anni '60 e '70 e direttamente con la produzione di capi di abbigliamento assolutamente originali e innovativi (referente bibliografico è il catalogo della mostra The Warhol Look tenutasi al Barbican Centre di Londra l'estate scorsa).
Le sovrapposizioni tra arte e moda sono particolarmente interessanti nella mostra di Mariko Mori innanzi tutto perché si svolge presso la fondazione di una delle case di moda più prestigiose del mondo e perché l'artista giapponese ha avuto una formazione di stilista, avendo studiato al Bunka Fashion College.
La Fondazione Prada (
www.fondazioneprada.org) nasce nel 1995 dall'iniziativa di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli che decidono di recuperare e ristrutturare un edificio industriale dismesso per promuovere l'arte contemporanea di Milano. Tra gli artisti presentati fino a oggi Louse Bourgeois e Dan Flavin.
Mariko Mori (Tokyo, 1967) è una delle artiste più innovative del panorama artistico contemporaneo grazie al suo immaginario ricco e surreale e all'uso di una tecnologia sofisticatissima. Le sue opere sono icone visivamente forti e accattivanti che ritraggono spesso l'artista stessa come geisha venuta dallo spazio o sacerdotessa di un rito futuristico, a metà tra sacro e kitsch/fetish. Un'opera significativa di questa ambiguità è quella presentata alla Biennale di Venezia del 1997 dal titolo Birth of a Star del 1995 (
http://www.kunstmuseum-wolfburg.de/ausstellungen/mori_frame1.html), che ritrae l'artista nella posa di una bambola di plastica immersa da una pioggia di palloncini colorati, che crea un'immagine molto colorata, piacevole e assolutamente priva di un retrostante simbolico, quasi come fosse una moderna Campbell's Soup.
Le opere esposte a Milano segnano un passaggio successivo verso la creazione di un immaginario più complesso nel quale la presenza dell'immagine dell'artista interviene come elemento di ulteriore riflessione sull'essere e l'apparire. Del resto quasi tutti gli artisti del nostro tempo non rinunciano a usare la propria immagine come elemento di connessione tra la realtà e il proprio immaginario. Si pensi a Cindy Sherman, Ontani, Francesco Clemente. Aveva iniziato questo genere di sperimentazione lo stesso Warhol, che aveva compreso quanto fosse forte il potere della propria immagine come simbolo di notorietà e su questa aveva lavorato con una serie di trasformazioni anche divertenti (si veda la mostra Polaroids alla Anthony D'Offay Gallery di Londra).
Il percorso della mostra si apre con la scultura in plastica di una capsula, Enlightenment Capsule (1998), realizzata con il sistema Himawari (girasole, inventato dal padre dell'artista, Prof. Key Mori) che consente di illuminare attraverso l'uso di fibre ottiche e di un trasmettitore solare, un fiore di loto contenuto al suo interno, dando l'impressione che questo galleggi al suo interno. Si tratta di un'opera di forte impatto visivo che fa convergere tecnologia e spiritualità, attraverso una sensibilità che è tipicamente giapponese.
La stessa ricerca di una sacralità virtuale, cioè in fieri, si può trovare nell'installazione dal titolo Garden of Purification, un ambiente creato con una distesa di sale, elemento purificatore in molte culture religiose. Al suo interno sono esposti cinque pannelli di dimensioni giganti che creano un'unica opera fotografica che invita alla meditazione, Kumano stesso titolo è dato alla video installazione che precede questo giardino e che descrive un ambiente boschivo nel quale l'artista appare negli abiti di una sacerdotessa che prega e di una che celebra una danza rituale. Sullo sfondo appare un tempio di colore turchese, che è protagonista dell'opera più ambiziosa dell'artista, un'architettura multimediale dal titolo Dream Temple.
Quest'opera ha richiesto due anni di intenso lavoro e la collaborazione di un équipe di specialisti giapponesi, italiani e americani. Il Tempio si ispira allo Yumedono, Tempio dei Sogni, eretto nel 739 d.C. nei dintorni di Nara in Giappone. L'opera mantiene la stessa struttura ottagonale e cerca di ottenere la stessa funzione di comunicazione tra interno e ed esterno di materiale e immateriale, grazie all'uso di un vetro dicroico realizzato a partire da uno speciale vetro giapponese, che cambia dall'opaco al trasparente a seconda dell'angolo di visuale, a cristalli liquidi, che hanno la capacità di renderlo opaco o trasparente a seconda della presenza umana o no, insieme ad alcuni vetri decorativi di Murano. Spiega l'artista: "Ho insistito per avere un vetro dicroico, a superficie cangiante, perché è più vicino all'immagine della consapevolezza che cambia ogni secondo, ogni istante". L'aspetto più interessante di quest'opera è la proiezione che avviene al suo interno grazie a un'innovativa tecnologia chiamata VisionDome (proiezione emisferica 3D), che esprime la visione più profonda dell'artista. Immagini filmate e immagini grafiche sono sintetizzate per realizzare un'immersione di luce, che è simbolo della dialettica tra fisico e metafisico, un elemento centrale nel lavoro dell'artista, che fa risalire questo suo interesse per la luce al ricordo delle cattedrali europee, visitate all'età di nove anni.
Il lavoro dell'artista giapponese si pone, a mio avviso, sulla scia di quelle esperienze artistiche che usano la sperimentazione tecnologica come uno strumento di espansione dei limiti del visibile. Non si tratta solo dell'esibizione di una manipolazione fisica della luce, ma di una elaborazione visiva che cerca di superare i confini dell'ordinario. In un momento così difficile per l'arte contemporanea, minacciata dai mass-media e dal pericolo di un ripiegamento al banale "fare pittura", l'opera di Mariko Mori rappresenta una punta di sfondamento, una sfida nella ricerca di un significato più profondo e di un'identità dell'arte, attraverso strumenti che non hanno ancora una diffusione di massa e che, proprio per questo, consentono allo spettatore uno stupore, uno sguardo partecipato, che può portare - forse - verso un passo ulteriore, il "pensare".
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