"Di me non c'è alcun autoritratto. Non mi interesso alla mia persona come soggetto di un dipinto, m'interessano di più altri esseri umani, soprattutto le donne, ma ancora più altre apparizioni."
(Gustav Klimt)
Il catalogo completo delle opere attribuite a Gustav Klimt conta più di duecento dipinti, molto vasto è anche il lavoro nel campo della grafica: disegni preparatori, bozzetti, tavole in bianco e nero realizzate per la rivista "Ver Sacrum", lo studio dei cartoni per i mosaici di palazzo Stoclet
Il denominatore comune dell'eterogenea produzione klimtiana è la rappresentazione della figura femminile: se escludiamo la pittura paesaggistica (in cui comunque si può parlare di interpretazione simbolica) osserviamo come la donna si sia "impossessata" della mano dell'artista; dea, eroina, signora dell'alta società, apparizione fantastica, è la protagonista ricorrente, diventa l'insostituibile elemento compositivo.
La scelta ossessiva del medesimo soggetto non può essere casuale.
Vienna "fin de siècle" è la fucina dell'apocalisse imminente, il cuore ancora vivo di un impero malato di contraddizioni: un gigante superstite, un sistema politico ormai inadeguato che pretende di governare etnie diverse (nell'impero Austro-Ungarico convivevano magiari, croati, bosniaci, cechi, slovacchi) senza considerarne le rivendicazioni nazionali.
La Ringstrasse è l'espressione dell'ottusa cecità della classe borghese liberale: un grandioso intervento urbanistico che riunisce gli edifici "del potere", il Parlamento, costruito in stile classico, il Rathaus neogotico, l'Università neorinascimentale, il Burgtheather neobarocco. I valori della classe dirigente sono perpetuati attraverso l'eclettismo storicista, assumono un significato simbolico, testimoniano una sicurezza, una fiducia nel progresso che non ha corrispondenza nella realtà che poggia sul nulla.
Vienna vive scaldata da un'ultima luce, confortata dai valzer di Strauss, dai lieder di Schubert, inconsapevole o incurante.
Gli artisti viennesi della nuova generazione si nutrono di indolenza, avvertono il senso della morte, ne sono attratti in modo quasi ipnotico, sentono il peso di una cultura stanca che sopravvive nel ricordo del passato: vivono, forse subiscono la vita come una dolorosa scoperta. La loro anima è divisa tra "ennui e ideal", la noia che uccide e l'ultimo slancio ideale, rifiutano l'arte accademica, i rinnovati fasti di un neobarocco evocato, ma non sentito. La loro tristezza cosmica è permeata da una sensibilità morbosa, dalla certezza di essere destinati alla morte da sempre, senza intravedere una possibilità di salvezza: "Si può dar che questi giorni vicini sian passati, per sempre passati e del tutto perduti? (
) Quando uno muore porta con sé un segreto: come sia stato possibile a lui, proprio a lui, vivere nel senso spirituale della parola." Così Hoffmannsthal esprime l'inquietudine del suo tempo, la domanda sul senso della vita, come un momento che prelude la fine.
Il linguaggio diventa codice vuoto, semplice ed inutile convenzione, perché l'uomo "senza qualità" non può esprimere il grande vuoto che riempie la sua coscienza. "Queste cose sono altre e ancora altre le parole che usiamo" si stupisce Hoffmannsthal dell'incomunicabilità, del grande limite delle parole, mentre avverte il brivido sinistro dell'"adesso e qui" che contemporaneamente significa "oltre".
La coscienza di un isolamento in parte sofferto, in parte desiderato come unica via di uscita, diventa certezza dell'abbandono: "Dio è morto" dice Nietzsche recidendo l'ultimo cordone ombelicale con la tradizione, nell'orgoglio disperato emerge l'idea del superuomo.
Questi dèi decaduti camminano per i viali di Vienna, affollano i caffè, ma non si riconoscono nel filisteo ottimismo borghese; sono i profeti silenziosi del buio che verrà, cercano rifugio nell'ultimo bagliore di un mondo prezioso, curano i sensi estenuati con la musica della crisi: nell'armonia negata dalla dodecafonia di Schoemberg, nelle sonorità dolenti di Gustav Mahler e Richard Strauss, riescono a percepire la loro stessa voce. Così essi avvertono il senso di alienazione: l'esperienza diretta di quanto le cose prossime possano apparire lontane si traduce con il progressivo allontanamento dal mondo, come un tacito ripiegarsi su sé stessi.
Nel 1899 Sigmund Freud scrive L'interpretazione dei sogni, uno dei testi chiave della psicanalisi: il disagio della civiltà viene dissezionato, fino a scoprire nell'atmosfera di crisi un male ben più profondo. L'autonomia dello spirito, la sicurezza ostentata dalla civiltà occidentale non esiste, ci sono altre forze che operano dentro di noi, molto spesso si oppongono a noi, ci rendono deboli, schiavi dell'angoscia, della paura di infiniti, sconosciuti pericoli. Freud spiega questo senso di claustrofobico disagio con l'inibizione della vita istintiva, con l'ipocrita negazione degli impulsi erotici.
Nella cultura sessuofobica la donna è pericolo: incarna il "disordine" naturale, è custode di segreti ancestrali, è una creatura infida, sensuale in cui si fondono "fascinum" e "tremendum"; così, contemporaneamente alle richieste dell'emancipazione femminile, nella società ancora permeata da un anacronistico puritanesimo si sviluppa un inconfessato senso di paura.
Il fenomeno Art Nouveau è il prodotto della crisi della società di fine secolo: nell'evento della modernità è proposta la redenzione dell'uomo attraverso l'opera d'arte, nella fusione di caratteri stilistici nuovi e recuperati dal passato viene rielaborato il linguaggio artistico, celebrando nella decadenza la nascita della novità.
L'alfabeto dell'Art Nouveau si compone di linee curve, di forme ispirate al mondo animale e vegetale, di elementi derivati dall'arte giapponese (è importante ricordare la diffusione delle stampe di cui molti artisti, fra cui Klimt, erano appassionati collezionisti ), il ritmo è articolato: forme sinusoidali, spirali, volute; il colore è dato a zone piatte o, in alcuni casi, la stesura diventa sfumata, venata, iridescente. Le tinte sono fredde, cangianti, imitano le piume dei pavoni, le squame dei pesci dei mari tropicali, gli accostamenti sono contrastanti, volutamente artificiali. L'apparato stilistico e formale diventa un codice complesso con continui rimandi e riferimenti, in cui ogni elemento assume la valenza di simbolo. Il paradosso dell'Art Nouveau è proprio in questa contraddizione: l'ambizione al Gesamtkunstwerk, l'opera d'arte totale, la volontà di estendere la "religione della bellezza", il culto dell'estetica ad ogni aspetto della vita dell'uomo (e soprattutto di ogni uomo!), ma contemporaneamente l'aver creato un lessico artistico elitario. Il fallimento dell'Art Nouveau è già decretato in questa dicotomia, l'intento utopistico e l'effettiva realizzazione: il desiderio di innalzare l'opera d'arte a noumeno assoluto e la nuova realtà storica e sociale. I tempi stanno mutando, la terribile esperienza del primo conflitto mondiale non spiega la sconfitta dell'Art Nouveau come ultimo stile prodotto dalla civiltà occidentale, qualcosa di ben più profondo si è mosso ed ha inciso nella coscienza degli artisti la certezza di aver perso per sempre il potere "salvifico" dell'arte.
L'opera d'arte, per rinnovare in ogni istante il suo potere apotropaico, deve negare sé stessa perdendo la sua caratteristica di procedimento finito, compiuto: nel gesto dell'artista c'è il movimento, l'apertura, nella conclusione della "cosa" creata c'è l'odore della morte. Per sopravvivere a sé stessa l'opera d'arte deve rimanere incompiuta, deve essere abbandonata per poter essere sempre ripresa, ma mai completata; definire uno stile vuol dire fissarne i caratteri, quindi, per assurdo, significa decretarne la fine. L'inevitabile sconfitta dell'Art Nouveau è nella codificazione della forma.
Gustav Klimt esorcizza il pericolo della morte con un rituale che identifica l'esistere e il non esistere, assimila l'atto creativo all'atto sessuale, fa combaciare l'unità originaria con la divisione, scopre l'incredibile potere del sesso come contemporaneità di causa ed effetto e se ne serve per sconfiggere la minaccia della fine, dell'incertezza del vivere: l'opera d'arte diventa talismano. La donna è così sacerdotessa di un rito che si ripete da sempre e per sempre, artefice e vittima del movimento primo, che tutto genera e a cui tutto necessariamente ritorna. Klimt avverte l'agonia della civiltà occidentale, ne dipinge il momento del trapasso, coglie l'ultimo vivissimo spasimo e già anticipa, nella delirante decorazione, la negazione del soggetto. Compie una vera e propria "rivoluzione nella tradizione": utilizza il lessico già noto, ma ne cambia il significato, crea nella proposizione finita una spaccatura, un'apertura da cui contemplare la vita e la morte, Eros (inteso come forza che dà la vita) e Thanatos.
La Secessione viennese è l'espressione della contraddittoria realtà culturale dell'Austria di fine secolo: l'arte accademica propone una pittura anacronisticamente neobarocca, mentre i giovani artisti, delusi dal revival storicista, trovano nell'arte francese ed inglese (impressionisti e postimpressionisti, preraffaelliti e simbolisti) le chiavi di lettura per una nuova rappresentazione della realtà. La Secessione avrà vita relativamente breve, dal 1897, anno della fondazione, fino al 1906, quando avverrà la definitiva scissione (il cosiddetto Klimtgruppe formerà la Kunstschau), ma pochi anni saranno indispensabili per formare una nuova coscienza artistica. Il progetto degli artisti viennesi è ambizioso: « Nessuna vita è così ricca da non poter essere ancora più arricchita dall'arte, e nessuna è così povera da non lasciare all'arte nessuno spazio », è necessario far entrare l'arte in ogni aspetto, in ogni momento della vita umana, una sorta di "socialismo della bellezza", l'utopia di una nuova umanità forgiata dall'ideale estetico. La rivista "Ver Sacrum", organo di diffusione delle idee della Secessione, è l'esempio migliore della nuova sperimentazione grafica, ma soprattutto è da intendere come realizzazione dell'opera d'arte totale: ogni pagina è prodotta dalla collaborazione tra artisti e poeti, nello sforzo di creare un'integrazione perfetta tra testo e immagine, tra illustrazione e forma letteraria. Ogni elemento di questo gruppo eterogeneo, pur mantenendo inalterate le proprie caratteristiche grafiche e compositive, lavora attivamente per concretizzare l'idea collettiva. Ogni numero di "Ver Sacrum" è pensato come "una piccola mostra", l'insieme delle riviste è "una grande mostra"; avviene così la sintesi indolore tra la tendenza simbolista, in cui l'esperienza personale del mondo diventava incomunicabile, e il desiderio dell'Art Nouveau di rendere unico e fruibile il linguaggio artistico. Nel 1903, mentre all'interno della Secessione iniziano i primi dissensi, "Ver Sacrum" cessa le pubblicazioni.
La cultura europea di fine secolo è ossessionata dalla "femme fatale", la donna che domina l'uomo fino ad annientarlo: "Faire l'amour c'est faire le male" ha scritto Baudelaire fornendo involontariamente l'alibi ad una società misogina. La donna fa l'amore per fare volontariamente il male, sovverte la forma istituzionalizzata dell'amore, si sottrae alla disciplina del sentimento amoroso, non prova piacere, rimane fredda: la passione, l'ebbrezza dei sentimenti non la distolgono dalla sua malvagia volontà; la donna è cosciente del suo terribile potere e ne fa uso in modo spietato. Le donne dipinte da Gustav Klimt non sono l'ennesima variazione sul tema della donna vipera, sono la rappresentazione dell'eterno femminino inteso come forza naturale, come genesi e conclusione: l'artista sente la paura verso una creatura sconosciuta, ma ne fa il suo "doppio", avvicina il pericolo perché ne è attratto. Klimt cercherà di penetrare e sviscerare attraverso l'arte quel segreto cosmico che crede racchiuso nel corpo femminile.
Il prototipo della donna fatale klimtiana è la Fanciulla di Tanagra (1890-91), una della prime opere dell'artista, eseguita per la decorazione dello scalone del Kunsthistorisches Museum di Vienna (bisogna ricordare che Klimt esordiente lavora spesso per committenze pubbliche). Il tema, tipico dello stile storicista, era la celebrazione allegorica delle tappe della storia dell'arte, ma Klimt lo affronta con caratteri innovativi: la fanciulla non è vuota, didascalica rappresentazione, ma si anima di una bellezza languida, sfuggente; con lo sguardo inquietante, gli occhi cerchiati dalla perversione della vita, ella ipnotizza lo spettatore, anticipando alcuni dei caratteri costanti dell'iconografia klimtiana. È la prima epifania dell'inconfondibile stile dell'artista, la dichiarazione esplicita dell'erotismo elevato a motivo dell'opera d'arte, la visione caleidoscopica del cambiamento in atto.
Pallade Athena (1898) è la vera sfida di Klimt al perbenismo dell'arte accademica: la divinità perde la "fissità" statuaria per ritornare autenticamente rappresentazione della donna; il volto affilato, lo sguardo fisso, sgranato e ammaliante, i capelli rossi che scivolano fuori dall'elmo, il bagliore straniante dell'oro, scaglie di lamina d'oro, come un pesce prezioso e vorace: è la risposta provocatoria al leitmotiv della "guerra dei sessi". Nel palmo della mano destra, invece della tradizionale statuetta della Nike, questa dea guerriera tiene una piccola figura femminile, una donna nuda, con i capelli fiammeggianti e le braccia allargate nell'offrirsi scandalosamente a chi osserva. È la prima sovversione dell'eros operata da Klimt: nell'atto di dare il proprio corpo, la donna non è vittima, ma vincitrice, nell'estasi ella non si abbandona, ma diventa unica protagonista. Contro l'ipocrisia dei benpensanti Klimt punta lo specchio della Nuda Veritas (1899): possiamo considerare quest'opera una continuazione ideale della piccola Nike: questa sensualissima creatura nuda occupa interamente il formato allungato del quadro, il corpo eburneo sembra sprigionare luce, le pupille dorate rendono lo sguardo sfuggente, danno una sensazione di pericolosa superiorità; lo specchio rivolto verso di noi, il serpente che si arrotola ai suoi piedi sono i simboli di un sapere arcano di cui solo la donna è depositaria. I riferimenti marcatamente sessuali contribuirono ad ampliare lo scandalo: la rappresentazione dettagliata delle parti anatomiche stravolge la tradizionale concezione del nudo, gli elementi decorativi e lo sfondo azzurro alludono a tutto ciò che concerne l'atto stesso della fecondazione. La citazione schilleriana, poi incisa nell'oro, suona emblematica: « Se non puoi piacere a tutti con le tue azioni e la tua arte, piaci a pochi. Piacere a molti è male ».
Il mondo dell'immaginario klimtiano che si viene delineando è un universo onirico, acquoso, popolato da ovuli e spermatozoi, è l'eterna rappresentazione della nascita, l'incombente presenza della fine: la figura femminile ha la funzione di enigmatico spartiacque tra ignoto e conosciuto, è posta al limite tra mondo primitivo e sapere, è l'unico collegamento con la natura, con le leggi che regolano lo svolgersi degli eventi. Klimt non ha fiducia nel progresso della scienza, non crede nello sfrenato ottimismo dei positivisti, egli ha elaborato una visione del mondo, del ciclo dell'esistenza molto complessa, in cui l'eterno femminino lavora come inesorabile principio creatore. L'evoluzione della tematica esistenziale si avverte sensibilmente osservando i grandi cicli decorativi a cui l'artista lavora, a cui possiamo far corrispondere fasi differenti del suo pensiero.
La vicenda dei pannelli decorativi per l'aula magna dell'Università è il primo scontro di Klimt con la cultura ufficiale: gli studi definitivi non vengono accettati, successivamente viene proposta un'altra "indolore" ubicazione, alla fine l'artista, disgustato dal rifiuto dell'innovazione, deciderà di riacquistare le sue opere dallo stato ponendo termine all'accesa polemica. Secondo l'incarico ricevuto, Klimt lavora alla rappresentazione allegorica delle facoltà di Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, ma reinterpreta totalmente il concetto di sapere, negando la stessa possibilità della serena conoscenza: i segreti dell'ordine cosmico appaiono impenetrabili, la mente umana è incapace, destinata al fallimento.
Grappoli di corpi disperati fluttuano in un abisso verde azzurro, la polvere dell'universo si condensa, cristallizza, nel formare un immenso corpo femminile: la grande madre, la venere primordiale con gli occhi chiusi nell'autocontemplazione, il volto indifferente al dolore dell'uomo. La Filosofia (1899-1907), la donna misteriosamente velata, non ha risposte, la bocca nascosta è simbolo di un sapere celato, di una verità che sfugge alla razionalità dell'uomo. La Medicina (1900-1907) ha le fattezze di una antica sibilla, la gestualità sacrale di una sacerdotessa, ella volge le spalle al corteo sospeso dell'umanità malata, mentre la morte, dal volto di teschio, miete inesorabile le sue vittime. La Giurisprudenza (1903-1907) è particolarmente importante per l'affermazione dello stile personale di Klimt: nelle prime opere era evidente l'influsso impressionista, rielaborato attraverso la stesura di filamenti cromatici, la profondità spaziale era resa, in modo suggestivo, dal polveroso disgregarsi della materia pittorica; adesso Klimt nega risolutamente la scatola spaziale ed introduce l'uso della decorazione, crea quasi una texture di minuscoli elementi che blocca le figure e le costringe a perpetuare il loro gesto. La Giurisprudenza è la rappresentazione kafkiana dell'azione della legge: l'uomo debole è inglobato da un polpo gigantesco, abbandonato alla sua incertezza, alle tre creature demoniache che amministrano la giustizia; in alto sono Verità, Legge e Giustizia cristallizzate nel mosaico nero ed oro, presenze immobili nel dramma silente. Klimt non ha fiducia nelle istituzioni, nell'ordine costituito, s'ispira ai testi di Nietzsche e Schopenhauer per dipingere la crisi di ideali, il crollo dei solidi valori borghesi. Egli sceglie senza esitazione di dare volto femminile alle forze del sapere e della scienza, per ribadire la maggiore sensibilità della donna ed il suo occulto predominio: l'ultimo simbolo sessuale, l'enorme polpo che fagocita l'uomo inerme, è l'espressione della minaccia di una creatura misteriosa ed ancora sconosciuta.
Con i tre pannelli Klimt ha denunciato il fallimento della scienza nel risolvere il dubbio esistenziale dell'uomo, nel Fregio di Beethoven (1902) egli prova a risolvere la domanda sul senso della vita attraverso un diverso processo ascensionale, la redenzione operata dalle forze dell'arte e dell'amore. Nel 1902 la Secessione viennese organizza una mostra dedicata al gruppo scultoreo Beethoven di Max Klinger, Klimt cura l'allestimento della decorazione parietale realizzando una trasposizione pittorica della Nona sinfonia: il desiderio della perfetta integrazione tra tutte le arti, la creazione di un organismo artistico unico e armonico. I punti chiave del programma dei secessionisti vengono attuati in un'esposizione che celebra non solo il genio del grande musicista, ma il valore stesso dell'arte.
Nel catalogo c'è una suggestiva descrizione dello sviluppo del fregio, è Klimt stesso a spiegare il viaggio d'iniziazione alla virilità dell'Eroe, la lotta contro le forze avverse, il meritato premio: « Prima parete lunga di fronte all'ingresso: il desiderio della felicità (
) l'ambizione, la forza interna muovono l'uomo forte e ben armato alla lotta per la felicità. Parete più corta: le forze ostili. Il Gigante Tifeo (
) le sue figlie, le tre Gorgoni. La malattia, la follia, la morte (...). Seconda parete lunga: il desiderio di felicità si placa nella poesia (...). Coro degli angeli del Paradiso ». « Gioia, meravigliosa scintilla divina ». « Questo bacio a tutto il mondo ».
Klimt sfrutta il tema della purificazione della vita attraverso l'arte per costruire una nuova riflessione sul rapporto uomo-donna: il protagonista maschile assume così il ruolo di un nuovo Adamo, le figure femminili sono le forze telluriche ed incontrollabili della natura ostile. Klimt è attratto dalla rappresentazione del male, a questo concetto primitivo associa il perverso potere seduttivo della donna: le tre Gorgoni sono figure affascinanti, sprigionano un'evidente carica erotica, hanno movenze sinuose, ci fissano con occhi d'argento, promettono lussuria, ma danno sofferenza. L'incubo del tempo è la donna castratrice, il rapporto sessuale non è scambio reciproco, perché la donna lasciva offre il suo corpo per ottenere il piacere soprattutto per sé. La frustrazione sessuale alimenta l'immagine negativa di una sensualità femminile intesa come prigionia, schiavitù. L'Eroe, alter ego di Klimt, si ritrova nudo tra le braccia della donna, non riusciamo a scorgere il suo volto, si perde sconfitto, nell'esile corpo del suo carnefice: l'artista descrive, quindi, la sessualità come ambigua prevaricazione.
La donna è inevitabilmente associata alle forze della natura, è essa stessa elemento ingovernabile, il cui potere sconosciuto è evocato tramite riti segreti: il mito della donna sirena sceglie come ambiente dell'eros femminile il mondo sotterraneo dei fondali marini, l'atmosfera salmastra, la luce filtrata dalle acque dense. Il simbolismo freudiano costruisce un'immagine suggestiva, così Klimt dipinge Pesci d'argento (1899) e le due versioni di Bisce d'acqua (1904-1907): i quadri assumono luce fosforescente, il verde e l'oro creano un bagliore sinistro, la decorazione muta conchiglie, molluschi e alghe in vulve e peli pubici, la donna sirena compie il suo malefico sortilegio, dissimulando lo scandalo in un elegante apparato formale.
Il tema della ciclicità della vita è fondamentale nella definizione di un universo matriarcale: nel corpo femminile, che è grembo e prigione, si forma la vita e di conseguenza si decide il destino mortale di un nuovo essere, dunque la donna gravida è contemporaneamente lieta speranza e rassegnazione alla caducità della vita. Klimt affronta il tema della maternità in La Speranza (1903). Al crudo realismo del corpo della donna si somma il fondo scuro, la cui decorazione preclude terribili apparizioni: il drago, l'acqua dai riflessi violacei, il teschio della morte: la madre vorace divorerà i suoi figli, nel partorirli li condanner&agra ve; al perire.
L'evoluzione della tematica esistenziale è intesa come evoluzione nella rappresentazione del rapporto uomo-donna: Il Bacio (1907-1908) è il momento della fusione amorosa dei corpi, ma l'abbandono reciproco è solo apparente. Non c'è possibilità di comunicazione tra i due sessi, la donna ha le mani contratte, i piedi che si aggrappano disperatamente al terreno (è dalla natura che trae la sua forza, per questo non se ne vuole staccare ?), l'espressione del suo delicatissimo viso è malinconica, perché nell'unione c'è la perdita del proprio essere, la negazione di sé come individuo. L'essere femminile rimane staccato, partecipa del proprio sentimento, ma ignora volutamente quello dell'altro; il tessuto decorativo enfatizza questa eterna opposizione: le forme quadrate maschili penetrano, ma non si fondono con le forme circolari della donna; il fondo d'oro crea una dimensione atemporale, noumenica, l'impossibile matrimonio cosmico è celebrato dalla forma di campana che chiude i protagonisti in una soffocante protezione, la spinta verticale contribuisce a esasperare il senso del distacco, la sacralità dell'icona. La superiorità femminile è nella maggiore ricettività, nella disponibilità all'abbandono, nell'eros estatico, che dalla cultura di fine secolo era descritto come demoniaco; Klimt è attratto irresistibilmente alla rappresentazione di quel momento la cui comprensione è negata all'uomo. Danae (1907-1908) dormiente si offre inconsapevolmente allo spettatore voyeur creando una complicità che mancava ne Il Bacio: l'uomo non è presente, quindi colui che osserva il quadro non è minacciato da un rivale virtuale; il corpo morbido è in primo piano, le curve delle cosce creano quel movimento circolare che ossessiona l'artista Art Nouveau, la ragazza svela la sessualità segreta del corpo femminile, eppure l'innegabile carica erotica non dà disturbo, non infastidisce il pudore dei benpensanti. Ancora una volta la decorazione agisce da filtro, distrae dal contenuto sovversivo del quadro: osserviamo la trasparenza del velo, i preziosi ricami, la trama leggera, la pioggia d'oro che scorre tra le cosce, e, nascosto, il piccolo rettangolo nero, il principio maschile, il seme di Zeus che feconda.
Klimt utilizza sistematicamente il fondo d'oro e i motivi decorativi, se ne serve come una corazza, per proteggere le sue creature da un mondo ostile; Adolf Loos scrive Ornamento e delitto, condannando tutta la produzione artistica come manifestazione di un erotismo degenere, denunciando la perversione maniacale di qualsiasi forma ornamentale, contemporaneamente Klimt codifica il suo linguaggio cifrato, mette insieme la sua partitura di linee, compone la sua inquietante musica dei moti dell'anima, trova nella fissità del nomos matematico il dinamismo interiore della forma. Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer, eseguito nel 1907, è un quadrato d'oro minutamente cesellato, il volto e le mani della donna emergono, come incastonate in una montatura preziosa: è un'esplicita dichiarazione d'amore e contemporaneamente espressione di terrore verso "quella" donna, che rappresenta l'ossessione klimtiana dell'eterno femminino. L'artista porta all'estremo i due binari paralleli della sua produzione: il realismo dei tratti del viso, la descrizione delle mani deformate, la resa diventa "mimesis", imitazione oscena, perfetta riproduzione; allo stesso modo l'apparato decorativo è portato all'estremo, sovraccaricato di elementi, reminescenze del mondo egiziano, cretese, bizantino. Adele sembra respirare, mentre lo sfondo, l'abito, la poltrona su cui siede, si saldano intorno al suo corpo, la imprigionano ed insieme le danno potenza: è immobile, ma anche lo spettatore deve fermarsi ad osservarla, ella esercita comunque la sua forza, ci seduce, ha la facoltà di pietrificare ed uccidere. Klimt satura intenzionalmente lo sfondo, nella gerarchia del tessuto decorativo, tutto è ricondotto all'oro, da sempre simbolo di superiorità e divinità, ma nell'osservare dettagliatamente la microscrittura klimtiana individuiamo altri caratteri, altre cifre: l'occhio egizio, la voluta micenea, la mandorla spaccata, ricoprono il corpo della donna e trasformano "l'anatomia in ornamento e l'ornamento in anatomia" (A. Comini). Klimt aggira i moralisti, mascherando la realtà e contemporaneamente sovvertendo i contenuti sessuali basilari del subconscio: l'artista inverte il processo della psicanalisi freudiana, mentre quest'ultimo lavora dall'interno verso l'esterno, egli trasporta l'emozione dall'esterno (il simbolismo della superficie pittorica) verso gli strati più nascosti della nostra psiche.
La figura femminile è scissa nelle sue componenti basilari fascinum (ciò che crea piacere estetico) e tremendum (le sensazioni negative), l'arte moderna lavora per eliminare quest'ultima, per esorcizzarla attraverso il processo creativo: Picasso ci riesce scindendo il corpo, privandolo della "legalità formale", Klimt elabora una risposta ancora diversa, recupera dal passato il concetto di "horror vacui" e lo sfrutta riempiendo completamente il quadro, eliminando la pericolosa incertezza del vuoto, utilizza le norme compositive, ma paradossalmente le nega.
Il complesso di Salomè è la malattia di fine secolo, l'eroina biblica, emblema della perversione femminile, incarnazione del potere mortifero è l'ossessione di artisti, scrittori, pensatori: Oscar Wilde le dedica una scandalosa tragedia, Aubrey Beardsley realizza le illustrazioni per l'edizione del libretto. È proprio quest'ultimo ciclo di tavole a fornire un importante precedente all'opera di Klimt.
Beardsley realizza una sintesi formale attraverso l'uso del bianco e nero, la superficie bidimensionale è scandita dalle linee sinuose, allungate, la serpentina è ritorta in un arabesco estenuato: è il repertorio grafico dell'artista che in questo caso lavora in sinergia con l'atmosfera sensuale del testo.
Klimt non si sottrae al fascino della donna assassina, alla tentazione dell'atto gratuito: le due rappresentazioni di Giuditta, nonostante il titolo, sono assimilabili a Salomè. Nella prima opera Giuditta-Salomè è posta frontale rispetto all'osservatore, ha il corsetto slacciato, offre il seno nudo, sembra preda dell'estasi orgiastica, ha gli occhi socchiusi, le labbra frementi, la mano nervosa tiene la testa decapitata, ma non c'è odio, piuttosto un sadico tentativo d'amore. Klimt rende pittoricamente l'incarnato accostando sottili pennellate verticali, in questo modo percepiamo il respiro, il palpito della donna, associando il lieve trapasso chiaroscurale. L'uso della lamina d'oro non è limitato allo sfondo, ma ci sono delle applicazioni, delle bacche preziose sulla stoffa trasparente del vestito; è interessante osservare il pesante gioiello che stringe il collo di Salomè, un collare barbarico che interrompe nettamente la testa dal collo: è la "decapitazione simbolica", la vendetta dell'artista, che allude ad una sottomissione sessuale. Le pietre preziose, la luce artificiale da acquario sono la rappresentazione dell'universo minerale, della natura dalle profondità inesplorate di cui la donna è indiscussa padrona. Otto anni dopo Klimt riaffronta lo stesso tema, ma la Giuditta del 1909 ha uno stile più maturo, una sintesi formale che vede la perfetta integrazione tra corpo femminile e ornamento. Il volto della donna è scavato, smagrito dall'imperversare delle passioni, gli occhi bistrati, semichiusi sono quelli di una predatrice famelica, il seno freme e le mani febbrili, bellissimi artigli trascinano la testa dell'uomo. Salomè è rinchiusa tra la cornice dorata e la prigione del suo abito, l'artista la costringe a ripetere all'infinito il suo terribile gesto, c'è un legame masochista tra la vittima ed il suo carnefice che è obbligato in eterno ad infierire, senza possibilità di redimersi. Klimt sente nella donna la presenza malefica ed, insieme, l'artificio dell'innamoramento.
L'incontro di Klimt con la pittura espressionista è traumatico, la rivoluzione del colore selvaggio, della forma sofferta operata dal giovane discepolo Egon Schiele lo porta ad una crisi creativa, al rinnovamento di alcune sue caratteristiche.
L'artista abbandona l'uso dell'oro, si apre al colore puro, avvicinandosi all'esperienza francese dei Fauves, cerca la sintesi della forma, accentuando la fluida linearità, cambia gli elementi della decorazione, sostituendo al sistema di rispondenze del nomos matematico l'estrema vitalità del motivo floreale, del giapponismo. Con la maturità Klimt acquista una più serena visione del ciclo dell'esistenza; la donna fatale perde l'aggressività per diventare una creatura misteriosa, ma ingenua: una bambola vestita di colori sgargianti, un uccello raro in una scatola caleidoscopica; l'artista concentra le sue domande non più sul momento dello scontro fra i sessi, ma sull'attesa dell'incontro.
Si può confrontare il Ritratto di Friederike Beer (1914) eseguito da Klimt con la medesima rappresentazione che dà Egon Schiele. La Friederike klimtiana è costruita seguendo un andamento curvilineo, l'espressione del volto è pacatamente sensuale, l'incarnato pallido esalta gli occhi e il lungo collo; il vestito nasconde il corpo, ma l'assoluta mancanza si spigoli suggerisce le forme morbide, l'eros è finalmente circoscritto ad una dimensione tranquillizzante. Il piccolo cerchio formato dalle dita della mano è allusivo alla disponibilità sessuale. La donna ritratta da Schiele ha il corpo girato in una posa innaturale, volutamente squilibrata, l'abito descritto da tessere di colori contrastanti contribuisce a creare una dimensione claustrofobica: il rapporto sessuale è visto in modo negativo, sofferente, distorto; Schiele disseziona i suoi soggetti, racconta senza false mistificazioni l'orrore quotidiano dell'esistenza umana.
Klimt dipinge controvoglia soggetti maschili, l'uomo è un intruso, se è presente ha solo la funzione di esaltare la figura femminile: l'artista declina l'amore come solo elemento femminile; Le amiche (1916-1917) è una splendida rappresentazione dell'amore lesbico, il soggetto era già stato più volte descritto da Klimt, ma in questo caso egli elimina volutamente qualsiasi elemento misterioso per rappresentare la libertà gioiosa dell'amore. Le due donne sono vicine, una di loro è nuda, forse ignara, forse consapevole della presenza del voyeur, l'altra, vestita con un largo camicione, stabilisce il contatto con l'osservatore, lo guarda divertita; si crea un gioco di sguardi, una complicità tra le due figure femminili e l'uomo, inevitabilmente escluso dal gesto amoroso. Il colore è pastoso, caldo, i toni del rosso, dell'arancione ci suggeriscono l'idea di tepore, la decorazione, gli uccelli con il piumaggio iridescente evocano la fuga dalla realtà verso un mondo esotico, dove le convenzioni sociali non esistono.
L'eros di Schiele è crudo, reale nel descrivere la componente inevitabilmente dolorosa dell'abbandono, il suo quadro Le due ragazze che si abbracciano (1915) pur trattando lo stesso soggetto klimtiano non è serenamente accettato, perché svela la passione che i moralisti vedevano come sentimento negativo. Klimt aggira la facciata borghese presentando un eros addomesticato dalla decorazione, questa diventa una sorta di scudo, per rappresentare la reale crudeltà dell'atto d'amore, mentre i quadri di Schiele sono spesso accusati di pornografia, per l'eccessiva, scomoda durezza, per la mancanza di un benevolo compromesso.
La sposa (1917-1918) è l'ultimo quadro eseguito da Klimt, non è completo e questo ha permesso di osservare il particolare procedimento usato dall'artista: i corpi nudi erano via via ricoperti dalla fitta ornamentazione, progressivamente "vestiti" con quell'abito-prigione che, contemporaneamente protegge dall'orrore del mondo e soffoca dal respiro vitale.
La sposa è l'ultima grande allegoria klimtiana, l'epifania di un originario eros totalizzante, di un eterno femminino che diventa androgino, unione dei due sessi senza conflitto, prima della separazione del desiderio. Nel turbinare dei colori puri, la donna abbandona la spirale dei corpi (una gioiosa metafora per la ciclicità della vita) e si avvia, ancora innocente dormiente, guidata da un'enigmatica figura. L'androgino ha le gambe divaricate a svelarci il sesso femminile, ma la presenza di motivi fallici parte del vestito rivela il suo ruolo di principio unificatore; non sappiamo dove vada la sposa, dove sia diretto questo corteo dionisiaco, chiuso nel suo moto circolare, possiamo ipotizzare nella figura del misterioso ermafrodita il "doppio" cosmico della sposa.
La ricerca di Klimt, la sua personale poetica esistenziale si esaurisce, senza risolversi, ancora nella donna, unica vera vincitrice del dramma storico dell'uomo, lei, dea creatrice, sopravvive a sé stessa.
I disegni sono parte integrante della produzione pittorica di Klimt, alcuni fogli sono studi preparatori per successive rappresentazioni, altri sono schizzi, sono momenti, pose, movimenti delle modelle nell'atelier, fermati sulla carta, manifestazioni del continuo interesse dell'artista per il corpo femminile. Il segno di Klimt è inconfondibile, l'artista rielabora l'arabesco sinuoso di Beardsley, la serpentina manierista di Jan Toorop in una linea sottile e continua: non c'è intervento chiaroscurale, solo il tratto che individua la linea di contorno, che scorre individuando le curve. Klimt ritrae pose e atteggiamenti intimi, indaga l'erotismo femminile fornendone la rappresentazione come di un mondo "a parte", dove l'uomo è escluso; alcuni tra i nudi erotici di Klimt furono scelti come illustrazioni dei Racconti delle Cortigiane di Luciano, nell'edizione di Franz Blei: è interessante notare la corrispondenza tra testo e immagini. Anche se cronologicamente lontanissimi, essi esprimono l'interesse che la civiltà decadente nutre per la rappresentazione dell'oscuro mondo della sessualità femminile. I disegni dell'ultimo periodo risentono dell'influsso della pittura di El Greco: Klimt si era avvicinato alla pittura del maestro greco spagnolo e ne aveva colto i caratteri manieristi.
Klimt muore nel 1918, nello stesso anno muoiono Egon Schiele, Kolo Moser e Oskar Kokoschka, suoi compagni nell'utopia della Secessione, nello stesso anno crolla l'impero Austro-Ungarico.
Le donne di Klimt sopravvivono, sono dee abbandonate diafane con il corpo consumato dalle passioni, sospese in uno spazio senza tempo.
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