Per questa lettura ho pensato che sarebbe stato utile raccontarvi come ho conosciuto Roberto e come questo progetto è stato ideato. Ho anche pensato che una simile descrizione, quasi un "esercizio riassuntivo", potrebbe essere il modo più adatto per iniziare una ulteriore discussione, una conversazione appunto, questa volta tra voi, l'auditorio, e noi, l'artista ed il curatore.
Al termine della mia lettura, Roberto leggerà a sua volta un brano in italiano tratto dalla nostra conversazione e Rebecca Rosewarne interverrà poi con la traduzione in inglese dello stesso brano.
Ho saputo per la prima volta dell'attività di Roberto da alcune riviste italiane d'arte, ma soprattutto da un'amica, Christiana Protto, artista e curatore che vive a Francoforte. Allora mi ero già trasferita a Londra: ero alla ricerca di una struttura concettuale e di un modo realistico per sviluppare i miei interessi nella cultura visiva contemporanea internazionale, mantenendo pur sempre il mio retroterra italiano, fatto di denso senso della storia, rispetto maniacale per l'antico e l'arcaico, "anarchia politica" e adorazione dei libri e della verità scritta. All'epoca, nel 1999, Annecchini era nel pieno della sua attività sperimentale ed aveva già avuto occasione di collaborare con artisti ed istituti stranieri come il Goethe Institut, l'Istituto Austriaco di Cultura, la British School. In un certo senso stava anche investigando modalità attraverso le quali eliminare i limiti imposti dalle mura bianche del suo studio-galleria, Change, situato a Roma, e possibilmente respirare un'aria diversa all'estero. Nel 1999 la mia amica Christiana Protto era già stata invitata diverse volte da Annecchini a partecipare a mostre collettive e personali curate da Annecchini stesso come pure dal critico d'arte Domenico Scudero - che, per vostra informazione, ha lavorato attivamente con Annecchini per la programmazione di Change. Christiana Protto aveva, inoltre, appena curato a Francoforte la prima collettiva della sua organizzazione "Home Abroad", invitando artisti dall'Inghilterra, dall'Italia e da altri paesi in uno di quegli oggi frequenti "scambi" europei. In quella occasione Domenico Scudero e Jacopo Benci furono invitati dall'Italia. Il work-in-progress di Annecchini, Abitare la Distanza, fu presentato al pubblico tedesco per la seconda volta in una delle sue varianti. Il progetto di Home Abroad, in generale, sembrava sottolineare l'esistenza di un network labirintico ed immateriale, le cui tracce, i cui complessi movimenti cominciai allora a seguire, ad osservare ed a "testimoniare" - adottando qui un'espressione particolarmente cara ad Annecchini e Scudero. Quando Christiana Protto mi invitò a partecipare al secondo progetto di Home Abroad, chiamato Vìa:tiko, ebbi allora la possibilità di entrare in questo network e farne temporaneamente parte.
Vìa:tiko era lo sviluppo di un progetto iniziato da Roberto Annecchini con Domenico Scudero e Patrizia Mania nel 1999-2000; tuttavia, mentre la versione italiana mirava a catturare i modi vari e transitori in cui la pratica d'arte incontra la teoria e viceversa, la versione tedesca mirava ad esplorare il concetto racchiuso nella parola "viatico", che affascinò il curatore Christiana Protto e fu interpretata da un vasto numero di artisti internazionali in tutti i suoi significati potenziali.
Fu a Francoforte, durante la mostra Vìa:tiko, che ebbi modo di conoscere personalmente Roberto Annecchini, insieme a Domenico Scudero, Antonio Tamilia e Alberto Zanazzo.
Dopo questo incontro a Francoforte, pensavo di intervistare Annecchini e scoprire meglio i diversi aspetti del suo percorso, le origini e le sue intrecciate vicende. Tuttavia, non sapevo bene come formulare un genere così diffuso ed iperconsumato come l'intervista; soprattutto non sapevo ancora che questa forma di scrittura era proprio la più vicina alle motivazione interne della pratica di Annecchini.
Le interviste sono un comunissimo strumento di tortura: direttamente associate agli interrogatori di polizia, mirano alla scoperta della "verità", non importa se si tratta di quella alla moda, sensazionale e "cool". Semplicemente deve trattarsi della "verità", alla quale comunque oggi si crede relativamente e che è più spesso goduta nella molteplicità dei suoi aspetti. L'unico modo per trattare con questo genere, senza rimanere bloccati in doppie identità, passaporti falsi e prove incongruenti, è attraverso un abbandono alla performance della ricerca, alle dinamiche della caccia e alla distanza che le interviste inevitabilmente predispongono ed autorizzano tra i due interlocutori. Perchè si può immaginare che da una parte si collochi un punto interrogativo, dall'altra parte un punto e tra questi due segni di interpunzione che definiscono due posizioni esiste un abisso di pensieri, osservazioni, opinioni, aneddoti, storie di vita che rendono i due interlocutori (nel caso specifico, me stessa ed Annecchini) ancora umani, vale a dire soggetti ad equivoci, dubbi, revisioni, approssimazioni, modifiche.
L'intero sviluppo dell'attività di Roberto Annecchini si basa su un semplice schema molto simile a quello descritto sopra, costituito da due soggetti e dallo spazio esistente tra di essi, spazio che Annecchini intende 'abitarè. La sua consapevolezza "filosofica", molto vicina all'idealismo che permea tanta cultura italiana tuttoggi, rinuncia tuttavia alla "staticità" della formula idealista più tradizionale, alla sua fiducia in entità immutabili e alla sua attenzione per la soluzione finale. Siccome i due soggetti non sono immobili, lo spazio tra di essi "cambia". Change: non ho mai chiesto ad Annecchini il motivo di questo nome per la sua galleria, ma sono pressocchè sicura che c'è qualcosa nella mia interpretazione che coincide con le ragioni dietro ad un tale nome. Sul concetto di cambiamento, di movimento e di sperimentazione ininterrotta l'attività di Roberto Annecchini è cresciuta ed ha preso le sue complesse direzioni, espandendosi anche al di là del contesto locale. A questo proposito il lavoro di questo artista è difficilmente un "assolo" - generalmente è reso dalla partecipazione di diverse voci come in un coro: si genera dalle collaborazioni con altri artisti, come nel suo lavoro più che decennale con Regina Hübner; richiede la partecipazione del pubblico, come nella sua versione di Abitare la Distanza per Home Abroad; è il risultato del rapporto tra il suo lavoro di artista e la sua attività di gallerista, come nell'intera serie di Abitare la Distanza. Domenico Scudero ha giustamente richiamato l'attenzione su questo aspetto primario del lavoro di Roberto Annecchini nel suo testo per la personale dell'artista a Francoforte nel 1998:
« Abitare la Distanza è quindi il titolo di un ciclo operativo che parallelamente alla sperimentazione dello spazio autogestito Change, chiarifica e sottolinea simbolicamente il nesso tra le due azioni, quella creativa dell'artista e quella più pragmatica ed organizzativa dello spazio espositivo ».
Così, quando ho avviato la mia intervista con Roberto, sapevo (come lui sapeva) che entrambi avremmo ascoltato ed avremmo puntato allo spazio esistente tra di noi, cercando di tradurlo nello spazio comune dove agivamo entrambi. Tuttavia, io sarei stata l'interrogatore e lui sarebbe stato l'interrogato: non esattamente lo stesso ruolo, dunque, ma con molto da imparare e condividere. Infatti, da un lato io ho esercitato la mia curiosità, la mia presenza testimoniale ed il mio interesse curatoriale nel sondare a fondo le pratiche d'arte. D'altra parte, Roberto ha rappresentato un esercizio di memoria, uno studio scientifico del suo lavoro, una replica rigorosa del suo impegno quotidiano, al quale tornerò in seguito. Non posso dimenticare il suo uso frequente di termini come "operativo", "strutturale", ecc. che tanto mi ricordano il Costruttivismo e l'avanguardia russa, Malevic in particolare, che di fatto rappresenta un riferimento innegabile per Annecchini.
Nell'andare avanti, la nostra intervista è diventata poi sempre più una conversazione rappresentata, nella quale il testo faceva riferimento all'esperienza visiva e l'esperienza visiva implicava il testo. Sebbene sulle prime pensata per una pubblicazione che pure speriamo potrà essere realizzata a seguito di questo evento, i movimenti tortuosi di tale conversazione richiedevano uno spazio diverso da quello di un libro. La nostra conversazione stava diventando adatta ad una messa in scena. Ciò che si rendeva necessario era un campo tridimensionale dove ricordi di passate attività, risonanze di altre geografie, concetti e motivi sollevati attraverso le domande potevano essere liberati dal rigore regimentale del linguaggio scritto e "dispersi". Dispersi, dico, ma non persi e sprecati: il che implica una produttiva diffusione nel contesto circostante piuttosto che un potenziale abortito. Esattamente quello che speriamo di ottenere attraverso questa mostra/evento con tutti voi. L'obiettivo, infatti, non è quello della esperienza totale, autosufficiente e conclusa suggerita dalla più comune "retrospettiva". Questa non è una retrospettiva. Forse potrebbe essere meglio chiamata una "introspettiva", interessata com'è non tanto alla verità su un carattere ed una esperienza, ma piuttosto sul complesso processo attraverso il quale questo carattere, nel caso particolare Roberto Annecchini, si muove, cambia, prende direzioni.
Un simile processo, che appunto non è concluso, è fatto degli sparsi elementi che troverete in queste installazioni. Qui troverete materiali visivi provenienti dall'archivio di Change, che si riferiscono a passate mostre ed esperienze che non possono essere ripetute nè possono avvenire di nuovo. Qui troverete frammenti di testo il cui originale in italiano probabilmente rimarrà un mistero per la maggior parte di voi. Qui ci sono anche alcune traduzioni che potrebbero essere non completamente corrette, ma che sono state lasciate come erano, non solamente per pigrizia o per mancanza di rispetto nei confronti della purezza della lingua inglese, ma perchè riteniamo che proprio le discontinuità nel flusso della lingua ci rendono più consapevoli della doppia natura del linguaggio stesso, diviso tra forma e contenuto, tra il comunicare un contenuto e l'esprimere un'identità. Infine e semplicemente, non fingiamo di essere inglesi.
Per di più, c'è proprio qualcosa di non-inglese ed invece di piuttosto italiano nell'approccio di Roberto Annecchini - e spero di non suonare troppo vecchio stile in questi tempi di globalizzazione e di presunti cittadini del mondo. Devo ammettere che ciò che inizialmente mi ha colpito è stata la seriosità di Annecchini, che pure ha generato la mia curiosità sul suo lavoro e le sue ragioni. Solamente più tardi mi sono resa conto che ciò era dovuto al fatto che ho vissuto in Inghilterra troppo a lungo, più di quattro anni oramai, e che mi sono ormai abituata a quella ironia culturale che davvero non appartiene al mio paese d'origine. Ho dimenticato l'integrità italiana, il suo essere unici, coerenti e totali. Soprattutto avevo dimenticato la condizione dell'arte italiana contemporanea nel così detto sistema dell'arte, la sua solitudine, che solo di recente è stata in parte assorbita da alcune iniziative regionali e grazie a pochi illuminati galleristi e collezionisti.
è un dato di fatto: le pratiche d'arte contemporanee in Italia non sono particolarmente seguite e sono lasciate al loro destino, in un atteggiamento diffuso che comincia nelle scuole e nelle accademie. Gli artisti italiani contemporanei portano con sè il carico di una tradizione artistica protetta, rispettata ed adorata che rappresenta un tesoro indiscusso e attorno alla quale tutte le energie politiche ed economiche sono rivolte e concentrate. Di conseguenza gli artisti non possono contare come all'estero su infrastrutture (musei di arte contemporanea, centri d'arte, scuole d'arte aggiornate) nè su un programma di finanziamenti consistente e razionale. Questo problema, sul quale in Italia tanto si è discusso, è stato sollevato di nuovo da Francesco Bonami nel suo intervento all'interno del catalogo per la mostra sull'Arte Povera tenutasi alla Tate Modern di Londra questa estate. è stato studiato a fondo da uno specialista in economia culturale, Walter Santagata, nel suo libro Simbolo e Merce. I Mercati dei Giovani Artisti e le Istituzioni dell'Arte Contemporanea (Il Mulino, 1998), ed è stato rivisto da Riccardo Caldura nel volume Espresso. Arte Oggi in Italia che ho notato in alcune librerie anche a Londra (e che sembrerebbe essere la risposta italiana al progetto Cream di Phaidon).
Naturalmente, questa situazione influisce sulle generazioni più giovani e su coloro i quali sono interessati alla cultura visiva contemporanea: semplicemente rende la vita difficile, diffonde un negativo cinismo sulle possibilità di un effettivo cambiamento, rende le energie intellettuali artificiose ed astratte, infine costringe ad una seriosità, come ad autorizzare e garantire il valore delle opere d'arte.
Non nasconderò il fatto che durante la nostra conversazione i commenti di Annecchini sulle strutture pubbliche disponibili a Roma per la promozione delle pratiche d'arte non sono stati granchè positivi. Mentre il suo lavoro si basa e si arricchisce dalla relazione con gli altri ed il pubblico in generale, la totale assenza di un sostegno alla programmazione della sua galleria ha frequentemente rischiato di condurre la sua esperienza ai limiti dell' isolamento e della invisibilità.
Quale reazione ad una situazione tanto precaria, Roberto Annecchini non solo ha guardato al di là dei confini nazionali, dove tentativi ed atteggiamenti simili a quelli che lui veniva esplorando potevano essere rintracciati. Ha anche invitato gli artisti italiani ad "assumere una responsabilità" e perciò una posizione in un ambiente tanto statico, decidendo attivamente sul proprio futuro attraverso iniziative indipendenti. Ed ecco una di quelle storie di spazi progettuali gestiti dagli artisti stessi, storie che sono diventate luogo comune all'interno della scena artistica inglese, ma che sono ancora piuttosto rare in Italia, soprattutto nelle regioni a sud di Firenze. Change come spazio d'arte indipendente rappresenta un modello nella Roma degli anni '90, indifferente a motivazioni commerciali, aperto al dialogo ed alla sperimentazione. Se ne sente già la mancanza per la sua formula unica, per le sue connessioni con il resto dell'Europa, per la sua intensa ricerca sulla scena contemporanea ed il suo originale approccio. In ogni caso l'esperienza di Change non si è completamente esaurita. Si tratta solo di un intervallo, un breve periodo di revisione e di attenta considerazione su "cosa fare" adesso. La conversazione non si è fermata qui, c'è molto di più da dire e molte più esperienze da tracciare e di cui scrivere.
Lascio adesso la parola a Roberto Annecchini con una lettura in italiano di un brano tratto dalla nostra conversazione, seguita dalla lettura dello stesso in inglese, eseguita da Rebecca Rosewarne. Spero potrete assorbire non solo il contenuto del testo ma anche il suo suono, vale a dire il suono di un diverso linguaggio.
Dopodichè, sarà il vostro turno, perciò sentiatevi pure liberi di chiedere domande e suggerire commenti: saremo lieti di sentire, come Roland Barthes diceva, "la grana della vostra voce".
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