Introduzione
«Ogni storia ha una morale e la storia della Galleria d'Arte Moderna indica la sua con sufficiente chiarezza. Sono quasi duecento anni che Firenze desidera un organismo vitale per l'arte contemporanea. Non lo ha ancora avuto, o, se mai lo ha avuto, è stato soltanto agli inizi. Paradossalmente, l'unica promotrice di arte contemporanea è stata l'Accademia granducale. Valutare se è stato buono o cattivo ciò che è stato prodotto in quel periodo è certamente un'operazione storica legittima, anzi doverosa; non è stato invece legittimo misconoscere il senso di quella politica.
Dopo di allora infatti la storia è stata sempre tenuta fuori; sia per il presente cui si è, volontariamente o no, rinunciato; sia per il passato, accolto in una prospettiva platonica di modello, non rispettato come sistema di valori che la cultura sopravveniente ha il dovere di riconoscere e verificare , prima di passare ad elaborare il proprio.
Il risultato, dopo quasi duecento anni, è un museo che, non avendo mai osservato un comportamento "contemporaneo", tanto meno è in grado di osservarlo ora .
Ciò che può fare è soltanto di rappresentare se stesso; dare cioè testimonianza del suo difficile sviluppo e delle condizioni per cui l'arte contemporanea non ha mai potuto veramente potuto attecchire a Firenze.
La nostra responsabilità nei riguardi della storia passata è che tutto ciò venga documentato onestamente, senza complessi. E poiché ciò che ci qualifica non è di chi siamo figli ma chi siamo noi, la nostra responsabilità nei confronti della storia presente e futura è di ben altro peso: va assunta in un diverso organismo, in una diversa prospettiva, in una totale disponibilità non alla vana, necrofila lusinga dell' autoglorificazione, ma ai rischi ineluttabili però veramente gratificanti di tutto ciò che vive.»
Con queste significative parole Sandra Pinto concludeva la presentazione del piccolo catalogo della mostra Dieci opere di tradizione toscana ... 1, inaugurata a Firenze nel 1970, cioè ad un anno dal suo arrivo nella città toscana in qualità di Ispettrice della Soprintendenza Incaricata della Galleria di arte Moderna di Palazzo Pitti, carica mantenuta fino al 1979, al momento del suo trasferimento a Torino.
E proprio in queste parole possiamo leggere una sorta di manifesto, ideologico e metodologico, per quello che sarà il suo operato presso la Galleria nei nove anni successivi, ed in particolare nell'immediato, per la straordinaria esperienza che senza dubbio ha rappresentato una pietra miliare non solo per il futuro allestimento della galleria fiorentina, ma per tutta la museologia italiana: la mostra "Sfortuna dell'Accademia", inaugurata nel luglio 1972, dopo due anni di lunghe ricerche filologiche e assiduo lavoro.
In effetti, a più di vent'anni di distanza, la rigorosa operazione di rivalutazione di «quel vasto settore della cultura figurativa ottocentesca che, collocato all'insegna dell'Accademia, aveva rischiato di scomparire sotto il peso di pregiudizi secolari» 2, e l'intelligente allestimento pensato per presentare al meglio il materiale ottenuto, appaiono tuttora attuali e validi, e non a caso hanno costituito una falsariga consapevolmente accettata e condivisa anche dagli "eredi" della Pinto, Spalletti e Sisi, nel riordinamento dell'intera struttura museale, conclusasi solo di recente.
Il fatto che ad un'esposizione, concepita inizialmente come temporanea, sia stato invece universalmente riconosciuto un carattere così incisivo e determinante da trasformarsi in allestimento semipermanente, e tale da "rivoluzionare" anzi la facies (nella fattispecie alquanto debole e caotica) del museo-contenitore che la ospitava, deve far riflettere sulla portata storica degli orientamenti e dei nuovi criteri allestitivi adottati dalla Pinto, oltre ad essere diventato un po' il leitmotiv delle altre tappe fondamentali nella storia recente della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti e non solo 3: lo stesso meccanismo ha infatti contrassegnato le altre due grandi fasi "storiche" di sviluppo del museo, oltre a tutta la serie di interessanti mostre, via via documentate puntualmente dalla serie di relativi "Giornali" (attualmente consultabili presso l'Archivio della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti) , e cioè, rispettivamente, la mostra "Cultura toscana dell'Unità (1859-1879). Le collezioni Martelli e Banti", che nel 1974 ha finalmente riconsegnato a Firenze il nucleo di opere forse più amate della Galleria, quelle dei Macchiaioli, inserite anche in questo caso in sette sale appositamente restaurate del palazzo, e , nel 1979, la mostra "Ottocento e primo Novecento", che, con 12 nuove spettacolari sale e circa 700 opere tra dipinti, arredi e sculture, ha rappresentato un po' la conclusione del percorso fiorentino realizzato dalla Pinto, ma non della storia allestitiva della galleria, da lei immaginata fino alla conclusione 4.
Sarà allora questo importantissimo percorso avanguardistico, certo inserito nel clima impegnato delle riflessioni metodologiche e storiografiche degli anni '70 , ma in gran parte dovuto alle grandi capacità della giovane conservatrice, che cercheremo di ripercorrere, confrontandoci con le problematiche storiche, materiali e metodologiche ad esso connesse, e cercando, dove possibile, di far "parlare", attraverso le testimonianze vive, contemporanee e successive, la stessa protagonista di tale "avventura" museologica, Sandra Pinto.
I. l'eredità della Storia
Uno dei grandi meriti di Sandra Pinto è stato quello di non lasciarsi intimorire dalla situazione problematica e disastrata che "ereditava" dal passato, quella cioè della Galleria di Arte Moderna prima degli anni '70 5, inserita a sua volta in un complesso museale più ampio e articolato, quello di Palazzo Pitti, anch'esso denso di storia e di complesse dinamiche diacroniche; la giovane soprintendente anzi è stata capace di "rimboccarsi le maniche" e di affrontare tale realtà cercando in primis di studiarne le origini storiche, le radici, per comprenderne al meglio la natura, giungendo, forse inizialmente con un po' di amarezza 6, ad individuarne la vocazione prettamente retrospettiva nei confronti dell'arte regionale toscana e non solo tra fine Settecento e prima metà del Novecento e a cercare di valorizzarla al massimo per trasformare il museo non in una sterile "mummificazione" del passato, ma in una testimonianza viva e didatticamente valida della sua stessa storia, del suo farsi ideale e reale, separando una volta per tutte il ramo prettamente contemporaneo da Palazzo Pitti.
La Pinto individua infatti la genesi ideale della Galleria nel 1784, anno della riforma, ad opera dell' "illuminato" Pietro Leopoldo, dell'Imperiale e Reale Accademia delle Belle Arti, da lui dotata, oltre che d'una Galleria di opere d'arte antica, di un concorso triennale di pittura e scultura per incoraggiare i giovani talenti, a cui attingere per costituire al contempo una collezione di opere d'arte contemporanea in continuo aggiornamento.
È un momento di aderenza tra valori riconosciuti e opere: "Classicismo, Romanticismo storico, Purismo, vengono documentati cronometricamente rispetto al loro svolgersi. Non traspare opposizione; è evidente che l'Accademia fiorentina produce in quel momento valori che la società le riconosce, anzi le richiede 7".
Sono gli anni di Nenci, Bezzuoli, Mussini, di un confronto serrato con la cultura francese e con il nuovo gusto nazareno-primitivo, il cui frutto è un nucleo di circa 150 opere che hanno una loro coerenza significativa.
Segue poi la fase risorgimentale, più tronfia e velleitaria, in cui alla Galleria confluiscono le opere premiate o comprate alle mostre annuali della Società Promotrice di Belle Arti, nata nel 1845, oltre ai quadri commissionati dal Governo di Toscana per il concorso su tema risorgimentale del 1859.
È a questo punto che si consuma la prima rottura tra arte ufficiale ed arte contemporanea, con l'Accademia ancorata a modelli ormai triti, e la ricerca naturalista e macchiaiola un po' scostante, lontana dal confronto con il pubblico.
Nel 1882 il complesso passa sotto la giurisdizione delle Regie Gallerie e Musei, come "Galleria Antica e Moderna", istituto in cui , prevalendo la norma storico-documentaria, avviene una prima selezione di opere all'insegna del ritardo culturale, con acquisizioni di pezzi inerenti a fenomeni già ampiamente apprezzati e "digeriti", come Hayez o Morgari.
Si giunge così alla famosa Convenzione del 1914 tra Stato e Comune di Firenze che costituisce la "Galleria d'Arte Moderna di Firenze", per riunire in un unico complesso le collezioni statali e quelle comunali, e inaugura il singolare meccanismo della Commissione mista per gli acquisti 8, che tuttora, con i dovuti aggiornamenti, rende così peculiare la struttura gestionale di questo museo fiorentino.
La Convenzione, che doveva garantire in teoria un continuo afflusso di opere contemporanee, entra però in azione solo dopo la guerra con il trasferimento delle collezioni all'ultimo piano di Palazzo Pitti, offerto dalla Corona dopo una prima inaugurazione nelle sale della galleria dell'Accademia il 4 marzo 1913, ma, oltre a dirigere la sua attenzione esclusivamente su opere destinate ad incrementare le collezioni già presenti, in particolare sui Macchiaioli, attua, in modo a dir poco discutibile, una drastica selezione delle opere degne di rappresentare la parte retrospettiva (della vecchia Galleria, restano solo 70 opere su 170 ), decretando, anche a livello materiale, la definitiva e spesso irreparabile sfortuna dell'accademia: "Invece di considerare il valore retrospettivo delle collezioni esistenti nel loro complesso, si provvide con deplorevole convinzione ad un'operazione che, volendo essere di selezione qualitativa, finì conseguentemente per essere di sgombero: quasi due terzi delle opere finirono frazionate o disperse al Museo del Risorgimento, al Museo Topografico, presso Enti pubblici in Italia e all'estero, in magazzino.
La base del museo nuovamente costituito fu perciò determinata da opinabili criteri di qualità e rilevanza storica, riducendo al massimo la documentazione del periodo accademico e concentrando il prestigio della raccolta sui Macchiaioli, documentati, molto più che nelle collezioni statali, dal legato Martelli al Comune." 9
In seguito, la fisionomia del museo muta ancora, arricchendosi di opere anche importanti con i premi del Concorso Ussi, con il lascito Trentacoste (1933), col dono Ambron (1949, 1956,1964), col lascito Banti-Ghiglia (1955) e ancora con l'immissione dei pezzi vincenti al premio "del Fiorino" istituito nel 1951, nonché, negli ultimi decenni, grazie alle importantissime acquisizioni ad opera della Commissione e del soprintendente Berti, volte a colmare le lacune riscontrate nel patrimonio otto e novecentesco e a salvare da vendite inopinate o da esportazioni spesso non troppo legali nuclei di importanza fondamentale .
Al momento del suo arrivo, la Pinto si trova quindi di fronte uno strano ibrido, in cui mancanza di spazio, affastellamento caotico di opere arte, collezioni inutilmente non smembrate, ambienti organizzati e stravolti in modo arbitrario non consentono al visitatore alcuna chiave di lettura sensata e chiara 10.
La Pinto comprende inoltre che non è possibile pensare alla Galleria d'Arte Moderna, senza considerarne parte integrante un aspetto completamente trascurato nella sua vicenda più recente, la sua ubicazione in un luogo, Palazzo Pitti, anch'esso ricco di storia, stracarico di testimonianze , palazzo residenziale, reggia granducale prima e reale poi, quindi denso di vissuti e soggetto a numerosissimi cambiamenti stratigrafici e storico-artstici da rispettare e anzi, evidenziare, soprattutto (e sarà questa la soluzione vincente) cercando di collegare strettamente la storia del palazzo a quella delle collezioni in esso contenute un tempo o da sempre, riannodando, laddove possibile, il filo spezzato della storia.
Il secondo piano del Pitti, luogo dove è attualmente collocata la galleria, presenta infatti una fisionomia quasi completamente ottocentesca, essendo un' opera non ultimata, ma accuratamente documentata da un meticoloso pro-memoria del suo autore, l'architetto P. Poccianti, che la eseguì tra il '25 e il '29 all'incirca per l'ultimo granduca Leopoldo IIº, anche se la commissione originaria risaliva all'epoca della reggenza di Maria Luisa di Borbone (1803); gli ambienti che davano sulla facciata furono divisi in appartamentini per le arciduchesse, mentre quelli che affacciavano sul cortile vennero organizzati secondo un percorso che, partendo dal lato dello scalone ammannatesco e attraversando varie sale, portava alla vera zona abitativa del granduca ("Quartiere Palatino"), cui però, a causa dei rigori del freddo, veniva preferita quella esposta dal lato opposto, il più accogliente "Quartiere d'inverno", oggi detto "della Duchessa d'Aosta", in onore della sua ultima abitatrice.
Da qui si arrivava direttamente alla palazzina della "Meridiana" (nel tempo soggetta a molti cambiamenti), a sua volta collegata al giardino.
Oggi l'insieme di questi ambienti , che, come si è detto sono stati restaurati ed ottimamente allestiti in un valido assetto museale, con un lavoro a dir poco imponente, nel corso degli ultimi vent'anni, è leggibile praticamente nella sua totalità; se ciò è avvenuto, però, il merito va in gran parte proprio al progetto della Pinto, concepito già nel 1970, di "prevedere una mostra temporanea di opere di magazzino riunite sotto il titolo 'Sfortuna dell'Accademia' per ripercorrere le vicende della dispersione di opere "moderne" nate intorno all'Accademia fiorentina riformata sotto Pietro Leopoldo".
Progetto apparentemente circoscritto, ma che presentava non poche difficoltà, vista la storia travagliata di molte di queste opere: commissionate direttamente o acquistate dal granduca per promuovere i giovani talenti toscani dell'Accademia, confluirono in una prima fase alla Galleria Palatina o nelle stanze dei reggenti, accanto ai grandi capolavori del passato; i quadri storici invece, a causa delle imponenti dimensioni, posero sempre problemi di spazio, e vennero generalmente collocati negli uffici della corte al pianterreno (il palazzo era già allora stipato all'inverosimile), fino a quando, essendo divenuto impossibile gestire l'imbarazzante mole di opere moderne, si decise di trasferirne l'insieme nel Palazzo granducale della Crocetta (1851-1854).
In seguito, con i vari mutamenti organizzativi già analizzati in precedenza, le varie opere prendono diverse strade : quelle considerate "migliori" tornano per fortuna, grazie alla loro presunta rappresentatività, a Palazzo Pitti, mentre la parte più cospicua finisce dimenticata in musei minori o periferici, accatastata in magazzini, esposta in uffici statali e ambasciate, o spesso, e non è un caso infrequente, va perduta per sempre o viene danneggiata dall'alluvione del 1966.
II. La mostra "Sfortuna dell'Accademia"
II.1. Premesse e intenzioni.
Lo stesso titolo scelto per l'esposizione del 1972, ne fa intuire il significato di momento di revisione storica nei confronti di un'esperienza ingiustamente trascurata fino a quel momento per un pregiudizio critico, ma basilare per lo sviluppo dell'arte moderna in Toscana e non solo: quella dell'Accademia riformata dai Lorena, sotto il duplice aspetto della committenza di corte e dell'insegnamento artistico; oltre a ciò, la mostra fa fronte alla più ampia necessità di documentare con la dovuta evidenza l'impatto del gusto neoclassico a Firenze, tra Impero e Restaurazione, nell'era cioè che vide avvicendarsi tumultuosamente Borbone, Elisa Baciocchi e Lorena ritornati da Würzburg : la Pinto quindi si muove su un doppio binario, ponendosi come obiettivi da un lato quello di riuscire a riportare a Palazzo Pitti, dopo più di un secolo di diaspora, l'insieme delle collezioni lorenesi ad esso legate direttamente o indirettamente, recuperando le opere ancora esistenti fuori sede e integrandole con il resto delle collezioni presenti nei magazzini o ab antiquo nel museo stesso , oltre che con le raccolte sabaude, non escludendo le comunali e le donazioni private; dall' altro quello di ricreare, mediante l'accurata ricostruzione storica di 12 sale della reggia (più un piccolo vestibolo) con arredi originali, restauri d'ambiente e suppellettili mirate, le atmosfere, il milieu e i cambiamenti di gusto di un'epoca, ponendo gli oggetti d'arte in un contesto pertinente, didatticamente valido e al contempo ricco di suggestioni .
Ciò che si inaugura è quindi un tipo di museologia moderna, in cui si cerca di "legare l'opera d'arte al passato del palazzo, ricostruire il giro delle committenze pubbliche o private, raccordare fatti figurativi apparentemente indipendenti" 11, e che, nel caso della Galleria d'Arte Moderna, avrà un enorme risonanza e notorietà anche a livello internazionale 12.
Scrive la Pinto: " Ciò che si propone oggi è di permettere al pubblico che visiterà le diverse sezioni museografiche di Palazzo Pitti di capire che ciò che si conserva nel palazzo è tutto ciò che è legato alla storia del palazzo stesso, non ciò che è improprio a tale storia.
Vorremmo, che tutto il problema museografico si riducesse all'indispensabile, cioè a ritrovare l'omogeneità storica del momento con le sue stratificazioni, ovvero le infinite testimonianze che gli si sono incrostate, e a leggere queste testimonianze correttamente.
Io temo che la parola 'museografia', che come disciplina abbiamo atteso per lungo tempo nella speranza che una scienza concreta ci aiutasse a liberarci dall'idealizzazione del 'capolavoro', oggi stia diventando al contrario una parola d'ordine al servizio proprio di ciò che avrebbe dovuto combattere: l'antistoricismo."
E ancora: "Non dovrebbe essere necessario ribadire che la distruzione indiscriminata di un ordinamento museale è scorretta come certi restauri troppo drastici; il nostro passaggio storico deve essere per così dire 'trasparente'; cioè dobbiamo compiere ogni sforzo per lasciare ai posteri integre tutte le testimonianze che abbiamo trovato.13 "
La mostra sarà la prima e fondamentale concreta realizzazione di queste idee.
II.2 La preparazione: ricerche e materiali
Per realizzare il progetto dell'esposizione "Sfortuna dell'Accademia", la Pinto si muove su vari fronti: organizza in primis un'equipe di ricercatori e collaboratori più o meno illustri, che, sotto la sua diretta supervisione, procedano in circa due anni ad un faticoso e meticoloso lavoro di ricognizione e censimento del patrimonio ottocentesco delle Gallerie fiorentine, in modo da poter presentare al pubblico un nucleo di materiali praticamente inediti, accompagnati dalla pubblicazione di un dettagliato catalogo a schede 14, ricco anche di notizie sugli artisti, che rimane tuttora uno strumento fondamentale per ogni studio sull'arte ottocentesca in Toscana; parallelamente parte la relativa campagna fotografica.
Il lavoro intrapreso è impegnativo ma avvincente: vengono "spulciati" i dettagliatissimi inventarii lorenesi dalla Restaurazione in poi, che testimoniano fedelmente tutti gli spostamenti d'arredo e i cambiamenti di gusto, le filze dell'Archivio delle Gallerie, l'Archivio dell'Accademia di Belle Arti e il più tardo Archivio dell'Accademia del Disegno.
Si passano al setaccio, nella Sezione manoscritti della Biblioteca Nazionale il fondo Palatino, le carte Viesseux, De Gubernatis; si consulta, almeno in parte, la stampa periodica, feconda di testimonianze interessanti.
In quanto alla ricerca dei documenti figurativi, principalmente concentrata sul patrimonio della Galleria moderna, essa giunge a toccare anche altri fondi di raccolte pubbliche, come quelli dell'Accademia delle Arti del Disegno e quelli del Comune di Prato, anche per motivi di restauro e per colmare delle lacune nelle presenze artistiche della mostra.
Ben presto però , le "scoperte" inaspettate, la mole di materiale che emerge dai magazzini, l'abbondanza della documentazione reperita, fanno comprendere il valore e l'infinita ricchezza delle collezioni lorenesi, imponendo, già durante la fase allestitiva, un punto di vista più lungimirante e "cosciente".
Come testimonia la Pinto: "Man mano che i risultati della campagna fotografica e della ricognizione inventariale e documentaria venivano affluendo, si rendeva evidente che il corpus delle collezioni lorenesi doveva essere necessariamente preso o respinto in blocco: la sua consistenza infatti era tale da rendere assai poco motivata storicamente sia la scelta dell'ordinamento esistente della Galleria d'arte Moderna sia ogni nuova selezione che si fosse basata su criteri essenzialmente qualitativi...[ ].........tale lavoro, perchè ne valesse la pena, sarebbe dovuto essere il più completo e oggettivo, il meno temporaneo e occasionale possibile.
Andava cioè metodologicamente evitato ad ogni costo l'errore di una seconda dispersione a mostra finita che, con l'alibi della solita mancanza di spazio, avrebbe reso astoricamente definitiva l'odierna e contingente revisione critica."15
Ed in effetti così è stato, tanto che già al momento dell'inaugurazione della mostra saranno previste in successione, a scadenze di due anni, tutte le tappe successive volte a completare il lavoro così intrapreso.
Quindi, una volta individuate, rintracciate e scelte le opere da inserire nell'esposizione, parte tutto un lavoro organizzativo e burocratico fatto di numerosissime notifiche di restituzione, veti di esportazione, lettere, preventivi per restauri di vario genere, previsioni di spese, contatti con artigiani e manifatture per ricreare gli ambienti allestitivi, progettazione di catalogo e inviti e richieste di consigli e consulenze a studiosi di fama internazionale.
Le testimonianze, le bozze delle conferenze-stampa, gli appunti, con i vari ripensamenti per gli allestimenti delle varie sale, i piani di lavoro, le scalette organizzative di questa lunga operazione, sono tuttora conservati presso l'Archivio della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti, e costituiscono un materiale senza dubbio molto interessante ed istruttivo per comprendere anche gli aspetti propriamente operativi del lavoro della Pinto 16.
Tra i collaboratori più illustri alla preparazione della mostra, ricordiamo in particolare Alvar Gonzales-Palacios, nominato consulente all'arredamento, Lorenza Trionfi Honorati, direttrice dei lavori e dell'arredamento, e, tra i numerosissimi studiosi coinvolti nel lavoro critico, Heikamp, Honour, Previtali, Rosenblum, oltre a moltissimi altri, che offrono pareri e consigli preziosi sui campi di loro maggior competenza.
Bisogna riconoscere quindi alla Pinto, oltre allla capacità critica, una notevole determinazione, capacità di organizzazione e coordinamento della risorse, che le hanno permesso, rispettando i tempi previsti, di individuare seguendone gli spostamenti e in molti casi restituire a nuova vita tutto il materiale artistico e di collocarlo, come vedremo, seguendo un disegno museografico preciso e sensato, nelle sale ottimamente restaurate ( un vestibolo e 12 stanze dell'appartamento dell'arciduchessa Luisa, sorella di Leopoldo IIº, composto di ambienti raccolti ed eleganti), secondo un criterio da "musée d'art et d'histoire".
II.3 La mostra
L'8 luglio del 1972 finalmente si raccoglie, con l'inaugurazione della mostra, il frutto di tante fatiche: il pubblico accorre numerosissimo ad ammirare le opere esposte, che, dopo anni di oblio, si prendono alla fine la meritata rivincita: per comprendere al meglio la ratio didattico-organizzativa dell'esposizione, conviene seguirne brevemente l'itinerario 17, che si snoda, seguendo il doppio filone tematico e collezionistico, attraverso le varie stanze; è anche possibile farselo "raccontare" proprio da Sandra Pinto, sfruttando un suo intervento di allora, in forma di conferenza con diapostive, pubblicato lo stesso anno sulla rivista "Musei e gallerie d'Italia" 18, che, oltre ad avere per necessità il dono della sintesi, ce ne fornisce con chiarezza e semplicità le chiavi di lettura .
"La prima sala è dedicata al Neoclassicismo: è arredata con mobili toscani sui quali sono collocati una coppia di grandi tazze biansate in bardiglio probabilmente romane e una coppia di candelabri francesi.
In fondo alla sala sono due giganteschi vasi in alabastro del periodo di Elisa Baciocchi.
I dipinti esposti sono due "Storie di Ercole" del Batoni, acquistate dal Granduca Ferdinando III al marchese Gerini, un gruppo di ritratti di Stefano Tofanelli, lucchese come il Batoni, dal quale egli dipende indirettamente tramite il Nocchi; poi i grandi quadri del Landi: "Le Marie al Sepolcro" donato dall'artista a Ferdinando III e "Vetturia supplica Coriolano" commesso da Maria Luisa di Borbone-Lucca; infine un quadro mitologico dell'inglese Wyatt, allievo del Lawrence, donato lo scorso anno dall'ingegner Leone Ambron alla Galleria. Le sculture sono marmi e gessi di Bartolini, Pampaloni, Pozzi, Consani, Obici, Freccia e Tenerani: di quest'ultimo in particolare è esposta la famosissima prima "Psiche" appartenuta alla marchesa Medici Lenzoni e celebrata in un libretto di Pietro Giordani. L'ambiente antecedente, ossia il vestibolo al termine dello scalone ammannatesco dal quale accede il pubblico, contiene opere neoclassiche toscane dei Benvenuti, padre e figlio, di Francesco Sabatelli, del Nenci e del Pierini."
Già da questa prima descrizione, emergono con evidenza gli aspetti fondamentali: l'attenzione per l'ambientazione, con la scelta di arredi intonati al "clima artistico" della stanza; la volontà di rappresentare tale clima, in questo caso neoclassico, attraverso una scelta variegata di oggetti, dal pezzo di artigianato al quadro alla scultura (proprio in occasione della mostra vengono recuperati e sottoposti a restauro i pregevoli pezzi della da tanto auspicata gipsoteca bartoliniana, rovinati dall'alluvione a causa della loro sistemazione di fortuna); l'intento didattico, confermato anche dal materiale preparato dalla Pinto per i visitatori, un opuscolo dettagliato per ogni sala, oltre allo studio di appositi percorsi tematici destinati alle scuole.19
"Nella seconda sala hanno trovato posto opere neoclassiche e romantiche tra il 1820 e il 1840 circa.
I ritratti ( del Colzi de'Cavalcanti, del Ciardi, del Bezzuoli, dello Stürler, dell'Albèri) mostrano la circolazione di modelli francesi, dalla tradizione protoneoclassica del Fabre e Desmarais fino all'Ingrisme; le copie da Rubens, da Victoors, da Vernet rivelano il ritorno di un gusto secentesco realista e neobarocco; le grandi accademie del Bezzuoli (un "Caino") ed Hayez ("Sansone") si contrappongono ai quadretti di interni di genere del Minardi, della Malenchini, del Chialli, Liverati, Abbati, Berti. Un bozzetto di Géricault proveniente dalla collezione Sanminiatelli, un bellissimo ritratto del Piccio e un altro ritratto di scuola veneta permettono confronti, come d'altronde l'Hayez già detto, con la contemporanea pittura di scuole non toscane.
La scultura è rappresentata dai gessi originali di due famosissime opere del Bartolini, l' "Ammostatore" e la "Venere di Urbino" eseguita per il marchese di Londonderry; inoltre sono esposti alcuni gessi premiati di studenti dell'Accademia fiorentina pensionati a Roma: il Cambi e il Pozzi."
Anche in questo caso, un doppio filone, artistico-tematico (che potremmo definire a grandi linee "ritratto neoclassico e romantico"), caratterizza la sala, offrendo una panoramica diacronica del genere in rapporto ai tempi, alle singole individualità artistiche ed alla committenza: con questa sala, siamo, come per le successive fino alla sei, all'interno del " Quartiere dell'arciduchessa Luisa": da notare che in questo salotto, uno dei pochi che subì tutte le modifiche progettate, è stato rispettato l'assetto abbastanza sovraccarico nella disposizione delle opere esposte che rispetta il gusto dell'epoca, al contrario di altri ambienti che, mai completati dal Poccianti, mantennero sempre un aspetto più spoglio.
Per i restauri, oltre all'attenzione all'impianto di illuminazione e alla riverniciatura dei pavimenti, elemento costante in tutte le sale, si è cercato di ricreare in modo "soft" l'aspetto antico e peculiare dell'ambiente, detto "salotto rosso", con un parato di taffetà fiammato color rosso scuro fatto appositamente eseguire, come sarà per le altre sale ognuna caratterizzata da un colore differente, dal celeberrimo setificio di San Leucio di Caserta, sulla base dei campioni della guardaroba delle stoffe di Palazzo Pitti o di disegni originali.
"La terza sala raggruppa opere di soggetto letterario ispirato da Dante e da Goethe: Giuseppe Sabatelli, Andrea Pierini, Domenico Petarlini, Giovanni Mochi, Enrico Pollastrini, gli scultori Fedi e Bastianini e il nazareno Carlo Vogel von Volgestein."
Altra saletta "tematica" dunque, che offre un confronto a tutto campo con la cultura dell'epoca, imbevuta di ideali romantici tratti dal mondo letterario, con suggestioni medievali e sublimi, come avviene nel coevo dramma teatrale.
" La quarta documenta il Purismo tanto nelle sue componenti intelletuali e letterarie mutuate dallo Chateaubriand, quanto negli elementi più modestamente devozionali ispirate dalla copia di madonne quattrocentesche; le opere esposte sono di Cesare e Luigi Mussini, del Vogel, del Puccinelli, del Fanfani, del Martellini, del Marini, del Gozzini; le sculture sono del Bartolini, del Pampaloni e del Fedi."
Un movimento artistico caratterizza questo ambiente, mentre si torna al genere tematico con la sala successiva, dedicata stavolta al fenomeno del Romanticismo storico, in parallelo a quello più prettamente letterario della sala n.3; si tratta infatti di pezzi "ispirati essenzialmente alla storia e alla storia dell'arte toscana: vi appaiono storie di Giotto e di Cimabue (Gaetano Sabatelli), Benvenuto Cellini (Giuseppe Moricci), Boccaccio ( Giuseppe Fattori), Lorenzo il Magnifico (Martellini), etc. La scultura è rappresentata da un monumento in bronzo di Aristodemo Costoli a "Cristoforo Colombo fra le quattro parti del mondo" e da quattro terrecotte pseudoquattrocentesche del Bastianini."
In questa sala, stanza da letto della duchessa , il bel parato damascato bianco e azzurro in pessime condizioni, viene sostituito con un taffetà dello stesso colore a ricrearne la suggestione.
" Nella sala 6, l'ultima del cosiddetto quartiere dell'arciduchessa Luisa, sono esposti quadri di paesaggio romantico e accademico: Bezzuoli, Giovanni Signorini, Giorgetti, De Francesco, Camino, D'Azeglio, Carlo Markò padre, Ludwig Richter, Donnini.
La sala è arredata con una coppia di tavoli da muro toscani della fine del Settecento con piani d'appoggio in marmi e pietre dure a disegni geometrici; sui tavoli sono piccoli vasi in bronzo, francesi come l'orologio posto sul caminetto."
Con la stanza n.7, collegata anche al vestibolo iniziale, si passa alla zona del quartiere nuovo, che il Poccianti non riuscì a terminare, lasciando due sale molto spoglie e come di attraversamento, carattere che nella mostra viene rispettato, anche per fornire agli spettatori una sorta di momento di pausa nella fruizione del materiale esposto.
Inoltre, si ha a questo punto del percorso una cesura anche a livello tematico, essendo le ultime sale dedicate prevalentemente a momenti storico-culturali e storico-politici, più che a fatti artistici propriamente detti, con un'apertura verso orizzonti più ampi:
" La sala 7 documenta i rapporti fra la cultura francese e la cultura italiana durante la Rivoluzione e l'Impero: domina il famoso quadrone davidiano del Benvenuti, il "Giuramento dei sassoni"; vi compaiono poi dipinti del Gauffier, del Bouguet, del Fabre), un ritratto di Beatrice d'Este duchessa di Carrara del Lampi jr., etc. Sui tavoli da muro a mezza luna che arredano la sala sono poste due teste ideali in marmo, opere del Canova, e due rarissimi biscuits di Sèvres raffiguranti a grandezza naturale Napoleone e Maria Teresa d'Asburgo; davanti alla finestra è stata collocata la bella testa napoleonica d'atelier davidiano appartenuta a Luigi Bonaparte ed ereditata dal granduca Leopoldo II."
Ancora sullo stesso genere, " la sala 8 documenta l'iconografia dei sovrani della Restaurazione nel Granducato di Toscana e nel Ducato di Lucca.
I busti sono opera del Bartolini, del Consani, del Bonelli, del Pampaloni. Campeggia di fronte alla finestra, sullo sfondo di Boboli, lo straordinario vaso di Sèvres in porcellana verde cromo con parure bronzea di Thomire, uno dei doni napoleonici al granduca Ferdinando III, durante l'esilio."
Arrivati a questo punto, si comprende chiaramente l'elevato livello qualitativo e culturale dell'esposizione, volta appunto a documentare non solo da un punto di vista artistico, ma anche da un punto di vista storico, di costume, sociologico, un importante periodo della storia toscana, fino ad allora volutamente ignorato e in un certo senso sepolto ad ammuffire con le sue testimonianze materiali.
Proseguendo, "nella sala successiva sono stati collocati dipinti, sculture e mobili provenienti dalla villa Demidoff di Pratolino e prima ancora della più antica proprietà Demidoff a San Donato: vi campeggia il monumentino del Bartolini a Nicola, opera autografa del 1840, assieme ai ritratti di Ary Sheffer, K.P. Brjullov, Idda Botti Scifoni,
sculture di Giuseppe Girometti e Hiram Powers."
Con le tre sale finali, ci si avvia verso la conclusione : la nº10, mantiene il carattere che la connotava già nel precedente allestimento, essendo dedicata a quadri e sculture di dimensioni colossali :" oltre ai pezzi ivi tradizionalmente esposti ( il "Carlo VIII" del Bezzuoli, la "Battaglia di Legnano" del Cassioli, l' "Inondazione del Serchio" del Pollastrini e i celeberrimi "Caino" e "Abele" del Dupré), sono adesso esposti due grandiosi saggi accademici di scultura: il "Meneceo" del Costoli e il "San Sebastiano" del Fedi nonchè i ritratti di ciascuno degli artisti rappresentati: un autoritratto tardo del Bezzuoli e la sua erma sepolcrale opera del Santarelli, un ritrattino del Fedi, opera di Luigi Mussini, un bell'autoritratto del Costoli.
Due pezzi infine che testimoniano di una direzione naturalistica, neosecentesca piuttosto che realista, imboccata dalla scultura toscana dopo il '40 sono il bel " Ritratto del padre" del Dupré e la " Testa del Battista" di Vincenzo Consani".
Nelle ultime due sale, rispettivamente salotto privato e camera da letto del quartiere granducale, prevale un'impostazione di taglio monografico, che completa un pò la gamma di differenti proposte di lettura offerte dalla mostra, essendo dedicate a due grandi artisti, epigoni dell'accademia toscana, ricordati come i maestri "odiosamati" dei macchiaioli: Ussi e Ciseri. Grande attenzione viene dedicata al mobilio, composto da: "un set di divani e poltrone disegnati dal veneto Borsato, mobili neoclassici toscani di gusto egizio, orologi e candelabri francesi".
La mostra si conclude così, lasciando aperta la strada, gettando il seme per il suo stesso completamento temporale, rivelandosi dunque come intenso momento sperimentale, caratterizzato da una grande libertà di azione intelligentemente tagliata sui materiali disponibili, sulle situazioni storiche, sulla vita intera di un'epoca.
III. Conclusioni e confronti
Abbiamo già più volte ribadito con (spero) sufficiente chiarezza, nel corso di questo breve studio, il concetto che, a grandi linee, tutto il lavoro di allestimento della Galleria d'Arte Moderna di Firenze post 1972 si è svolto sotto l'egida dei criteri critico- organizzativi che abbiamo individuato come strutturanti la mostra "Sfortuna dell'Accademia", e che fino al 1979 è stata la stessa mano a guidare questo stimolante e faticoso processo: possiamo quindi dire che in questo caso la mostra ha plasmato il museo, anche se bisogna puntualizzare che nel corso degli anni si sono andati precisando nuovi percorsi, nuove idee interpretative, arricchimenti, che, pur mantenendo come struttura di fondo ciò che era stato fatto, hanno via via mutato l'aspetto anche di alcuni brani allestiti durante l'esposizione; tuttavia non è questa la sede per analizzarli a fondo: ciò che può essre invece utile, a mio parere, è confrontare questo tipo di avventura museale, con altre realtà analoghe e contemporanee, facendo anche in questo caso "parlare" persone che abbiano avuto un' esperienza e un compito molto simile a quello della Pinto, che abbiano cioè dovuto affrontare di persona, problemi analoghi e dilemmi simili.
A tal fine risulta utilissimo il dibattito svoltosi alcuni anni or sono, precisamente nel 1989, sulle pagine di una rivista che nel corso degli anni si è occupata più volte di monitorare la situazione museale italiana e le sue trasformazioni : "Osservatorio delle arti" 20, emanazione dell'Accademia Carrara; gli interventi, riuniti da Francesco Rossi sotto il significativo titolo Galleria d'Arte Moderna: esperienze; vedono confrontarsi su tematiche importanti, alcuni tra i nomi più importanti nel panorama museale italiano di ambito moderno e contemporaneo: Sandra Pinto, in qualità di Sovrintendente per i Beni Artistici e Storici del Piemonte (prima quindi dell'esperienza romana), Ettore Spalletti, allora Direttore della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze , Angela Tecce, per il museo Pignatelli di Napoli, Laura Saffred, Conservatrice del Civico Museo Revoltella di Trieste, Mercedes Garberi, Direttrice dell'importante Galleria d'Arte Moderna a Milano, e Rosanna Maggio Serra, Dirigente delle Raccolte d'Arte Moderna di Torino.
Quindi rappresentanti di realtà diverse, nate in ambito statale o comunale, ma comunque accomunate da aspetti comuni.
È il Rossi a tirare le fila del dibattito, nel senso di individuarne i "punti cruciali", le differenze e i problemi aperti: un aspetto peculiare della realtà italiana, che la differenzia da molte situazioni straniere, e che si riallaccia perfettamente all'esperienza fiorentina della Pinto, è che "la Galleria d'Arte Moderna svolga, innanzi tutto, una sua indagine sul proprio passato, recuperando le fila di un discorso con la città ed il territorio che, saldissimo nelle Pinacoteche d'Arte antica, si era andato disperdendo per ciò che attiene la più recenti esperienze creative"; altro problema, anch'esso affrontato più volte dalla Pinto, è quello della presenza attiva del Museo nella città, a cui si collegano tutta una serie di ulteriori scelte metodologiche, che vengono ben espresse in poche ma significative questioni:"Quali possono essere le funzioni e gli eventuali limiti di una sistematica organizzazione di mostre temporanee? Esistono anche altrove, oltre che a Firenze, incompatibilità strutturali che sconsiglino una continuità tra moderno e contemporaneo? Quali possono essere la funzione, la struttura giuridico-amministrativa, le finalità, le modalità d'azione di enti, Fondazioni, Associazioni o quant'altro che affianchino, dalla dimensione del privato, l'attività della Galleria? Esiste ancora uno spazio per la commissione diretta ad artisti ?"
Se le posizioni in proposito della Pinto sono già state esaurientemente analizzate, conviene allora soffermarsi sugli altri interventi, concentrandosi però in particolare, su quelli che, in modo diretto o più velato, in un certo senso polemizzano un pò con le sue scelte, specie sull'idea della separazione dei due rami, il moderno e il contemporaneo.
Ad esempio, la Tecce, a proposito della situazione napoletana afferma :
" l'obiettivo che ci si è posti non è un "tradizionale" Museo d'Arte Moderna, e nemmeno un più nuovo centro per l'Arte Contemporanea; una più vigile coscienza critica ci ha resi più cauti nella resezione del "moderno" dal tronco della storia: .....tale distinzione è resa estremamente complessa dalla dissoluzione dei confini tra antico e moderno, la cui opposizione, statuto teorico su cui si è retta tanta storiografia artistica recente, rischia oggi di appannare la nostra coscienza dell'arte e dell'esperienza che ne facciamo. Quello che pensiamo si debba costruire oggi è piuttosto una rete di riferimento, strumento duttile e acentrico che, ineccepibile come documentazione, proponga facce diverse della storia del moderno, delle sue "arti visive".
O ancora, Laura Safred, pensando all'esperienza triestina, in cui il progetto di Scarpa ha risolto con un intelligente escamotage architettonico il problema della continuità tra le opere antiche e moderne all'interno del museo Revoltella, auspica a livello metodologico :" un rapporto sensibile e attivo tra antico e contemporaneo, capace di attivare uno scambio sinergetico tra il carattere del museo e il ruolo della galleria d'arte moderna
" e aggiunge, lamentando la mancanza, in Italia, della volontà di acquisire definitivamente l'idea dell'apertura del museo di arte moderna verso le ricerche contemporanee che non bisogna più " risolvere la forma e la funzione del museo nei suoi spazi espositivi, pensati troppo spesso come quinte e fondali suasivi per l'ostensione dell'opera", parole che potrebbero quasi sembrare una frecciata nei riguardi della Pinto, ma che in realtà, credo vadano tarate sulle realtà da cui provengono: come si è già detto, è a malincuore che la Pinto decide di dover separare i due aspetti, e ciò forzata dalla struttura stessa di ciò che si trova tra le mani e dalla storia del museo, mentre a Trieste, come a Torino e Milano, l'acquisizione di opere d'arte contemporanea, da parte delle gallerie d'arte moderna, fino agli anni '60 o addirittura '70, pur con tutti i problemi relativi alle varie situazioni, è un fenomeno acclarato e che crea il vero discrimine rispetto a Palazzo Pitti, dove comunque sarebbe stato impossibile intervenire, come per le realtà milanesi o torinesi, con rinnovamenti edilizi o ampliamenti che in ogni caso avrebbero alterato in modo stridente l'aspetto di un nucleo storico e urbanistico "intoccabile" quale il centro rinascimentale di Firenze.
Credo quindi che l'esperienza fiorentina resti un punto fermo nella esperienza della museologia italiana, avendo avuto il merito di coniugare l'aspetto espositivo, con il suo carico di "novità", di vivacità culturale, di continuo aggiornamento culturale, ad un allestimento "fisso" sempre disponibile e coerente, ma pensato per essere flessibile, ri-aggiornabile e didatticamente valido, senza aver ridotto il ruolo della Galleria né a contenitore di esperienze effimere, né a rigido apparato di presentazione di vecchie, gloriose opere: il fatto stesso che ancora oggi la Galleria d'arte Moderna sia in gioco per la realizzazione del grande progetto che ha visto la luce negli anni '70, dimostra a pieno la sua vitalità e valore culturale, anche grazie alla definitiva apertura delle ultime sale, quelle del "mezzanino degli occhi" e la possibilità di ammirare nella sua completezza uno splendido patrimonio materiale fino ad oggi nascosto o non pienamente valorizzato .
Oltre ai riferimenti citati in nota, si offre qualche spunto bibliografico essenziale:
C. De Benedictis, per la storia del collezionismo italiano, Firenze 1991.
A. Lugli, Museologia, Milano 1992.
W. Prinz, Galleria, storia e tipologia di uno spazio architettonico, a cura di Claudia Cieri Via, Modena 1988 (ed. originale, Die Entstehung der Galerie in Frankreich und Italien, Berlin 1977).
F. Mazzocca, Il modello accademico e la pittura di storia, in La pittura in Italia. L'Ottocento, tomo IIº, pp.602-628, Milano 1990.
P. Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia. L'Ottocento dal Bello ideale al Preraffaellitismo, Messina-Firenze 1972.
S. Pinto, Garibaldi Arte e Storia. Arte, Roma 1982.
NOTE
1
S. Pinto, Dieci opere di tradizione toscana fra le recenti acquisizioni della Galleria d'Arte moderna, Firenze 1970.
2
F. Mazzocca, Il modello accademico e la pittura di storia, in La pittura in Italia. L'800, tomo II°, pp.602-628.
Nello stesso saggio il Mazzocca afferma che grazie al lavoro della Pinto era stata recuperata una tale mole di materiale «che sembrò allora straordinario e tale da creare un nuovo tipo di museo, basato non più sulla selezione ma sulla restituzione visiva delle complesse contingenze culturali della Toscana negli anni della Restaurazione».
3
Anche in ambito napoletano le imponenti esperienze delle mostre sull'Ottocento hanno cambiato e stanno cambiando tuttora l'aspetto dei musei più importanti della città, quello di Capodimonte e la Galleria Nazionale.
4
Nell''86 la mostra "Le collezioni del '900 e nell' '89 la mostra "Ottocento e Novecento", hanno definitivamente delineato l'assetto delle varie sale al secondo piano di Palazzo Pitti e quello delle nuove sale, dedicate all'arte pił recente, del "Mezzanino degli occhi", circoscrivendo quindi una volta per tutte l'ambito cronologico della Galleria al periodo che va all'incirca dal 1790 al 1945.
5
Non a caso, la Pinto viene portata ad esempio da A. Mottola-Molfino nel capitolo : Museo opera chiusa. Come usare e/o rinnovare musei antichi e intoccabili del suo Libro dei musei, Torino 1991, pp.105-128.
6
Uno dei temi che immancabilmente è presente in ogni intervento della Pinto in questi anni , è quello del problema dell'arte contemporanea nella realtà fiorentina: resasi conto dell'incongruenza della presenza nella Galleria delle opere successive alla seconda Guerra Mondiale, e non solo, come vedremo, per problemi di spazio, la studiosa auspica comunque per esse, ma anche per un contatto vitale e continuo con l'arte contemporanea nel suo farsi, una destinazione diversa, di tipo aperto, dinamico, come organismo produttivo di cultura sul tipo della Kunsthalle tedesca.
In un dibattito svoltosi nel 1989 sulle pagine della rivista "Osservatorio delle Arti ", in relazione alla sua decennale esperienza a Palazzo Pitti, la Pinto dichiara:" e proprio l'interesse appassionato per l'arte contemporanea, mi ha fatto giudicare riduttivo trattarla come un'appendice di un organismo troppo diverso."
7
S. Pinto, Dieci opere.., op. cit., cfr. nota n.1.
8
Articoli 3-7 :
3. "Per il graduale incremento della Galleria il Ministero della Pubblica Istruzione ed il comune di Firenze si obbligano a stanziare rispettivamente la somma di lire 10.000 all'anno ... da devolversi in acquisti di opere d'arte di artisti nazionali e stranieri.
4. La dotazione così costituita servirà per gli acquisti di opere d'arte da farsi da una speciale Commissione composta dal Direttore delle RR. Gallerie e di due membri nominati dal governo, del Sindaco o di un assessore o consigliere da lui delegato e di due membri nominati dal Comune, e di un settimo membro da nominarsi dal collegio dei Professori della locale Accademia di Belle Arti tra i professori del collegio medesimo
5. La commissione eleggerà nel proprio seno il Presidente.
6. I rappresentanti del Governo saranno nominati dal Ministro di Pubblica Istruzione, quelli del Comune dalla Giunta.
7. I membri della Commissione, salvo quelli di diritto, rimarranno in ufficio per un periodo di tre anni e possono essere rieletti."
In realtà tale meccanismo si è trasformato nella pratica in un incremento incentrato sul settore retrospettivo, delimitato sulla tradizione toscana.
Attualmente la Commissione (che ha subito nel corso degli anni vari aggiornamenti) è stata rinnovata nel 1984 dopo un decennio di stallo : Soprintendente, Sindaco, due membri eletti dal ministro ai Beni Culturali, due rappresentanti del comune e uno dal collegio dell'Accademia di belle arti, gestiscono ed organizzano donazioni e deliberano acquisti di opere d'arte.
Nel corso degli anni personaggi quali Ojetti, Tarchiani, Ragghianti etc.ne hanno determinato gli indirizzi.
9
S. Pinto, Dieci opere ... op. cit., cfr. nota 1.
10
A titolo di esempio per illustrare questo tipo di situazione, la Pinto, in una conferenza tenuta nel 1975, cita due casi: il primo, come necessità del superamento del criterio monografico a tutti i costi, è quello del Fattori, "che ha una lunghissima attività, piuttosto differenziata nei vari periodi e, a seconda di essi, egli rivela contatti più o meno vivi con altri artisti: è probabile che un tipo di ordinamento cronologico e per ambiti di ricerche simili risulti storicamente più valido e chiaro"; il secondo è l'affastellamento delle collezioni novecentesche: "ciò che rispettiamo nella quadreria Palatina, perché provenutoci da una tradizione, dobbiamo inversamente rispettare anche per la pittura moderna che esige tradizionalmente larghe pause tra un'immagine e l'altra." S. Pinto, La galleria d'arte moderna, in Atti della Società Leonardo da Vinci, III, 6, 1975, pp.7-17.
11
E. Spalletti, in Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti: riordinamento delle sale del tardo '800 e del primo '900, in Prospettiva, 21, 1980, pp. 96-99.
12
Nel '73 A. Gonzales-Palacios, peraltro coinvolto nel progetto in prima persona, come vedremo, descrive in toni entusiastici la mostra dalle pagine di "Apollo" (May 1973) , titolando la sua "Letter from Italy": New Pleasures at the Pitti.
Nel gią citato saggio (cfr. nota n.2) il Mazzocca adotta addirittura il titolo della mostra del '72 come motto per la generale rivalutazione dell'arte accademica e della pittura di storia ottocentesca, riconoscendo alla Pinto un ruolo pioneristico; nella presentazione del catalogo Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti, Ottocento e Novecento. Acquisizioni 1974-1979, Firenze 1989, Paolucci elogia la mostra per la « raffinata eppure rigorosamente storica eleganza del collegamento tra opere, ambienti ed arredo ».
13
S. Pinto, La galleria d'arte moderna, in Atti della Società Leonardo da Vinci, III, 6, 1975, p 9.
14
Cultura neoclassica e romantica nella Toscana Granducale, Collezioni lorenesi, acquisizioni posteriori, depositi, Firenze 1972.
15
S.Pinto, Sfortuna dell'Accademia, in Cultura neoclassica e romantica nella Toscana Granducale, Collezioni lorenesi, acquisizioni posteriori, depositi, Firenze 1972, p.11.
16
Il materiale è così suddiviso:
a. Una cartellina gialla, con la dicitura "Storia della G.A.M.", che contiene una piccola rassegna stampa relativa alla mostra.
b. Una cartellina, con la scritta "Anno 1972, Mostra "Sfortuna dell'Accademia", a sua volta contenente vari fascicoli:
1. 2/972, che contiene tutti i verbali per le richieste dei vari pezzi e relative risposte (ad es. la Questura di Firenze, di La Spezia e Pistoia), oltre ai preventivi dei restauri.
2. Cartellina arancione "Mostra", contenente tutte le ricevute delle spese affrontate.
3. "Varie non protocollate": note e appunti della Pinto sull'allestimento, lettera a Ragghianti sull'organizzazione del lavoro di schedatura per il catalogo da affidare a specializzandi in storia dell'Arte, lettera a H. Honour sulle scoperte canoviane, planning dei lavori suddivisi tra i vari addetti fino alla scadenza dell'inaugurazione.
4.Ringraziamenti: contiene lettere di ringraziamento delle persone o enti invitati alla mostra o che hanno ricevuto in omaggio il catalogo.
5.7/972, "Corrispondenza con gli Enti": vuoto.
17
Per una descrizione esaustiva, si rimanda al già citato catalogo Cultura neoclassica e romantica ...
18
S. Pinto, La mostra Sfortuna dell'Accademia, in Musei e gallerie d'Italia, anno XVIII, n.47, 1972, pp. 11-20.
19
Anche questo tipo di materiale è consultabile presso l'Archivio della Galleria di Arte Moderna di Palazzo Pitti.
20
Galleria d'arte moderna: esperienze, a cura di F. Rossi, con vari interventi, in Osservatorio delle arti, 1989, 3, pp. 4-21.
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