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Il Giocoliere Elettronico. Nam June Paik e l'invenzione della videoarte Torino,
Palazzo Cavour
14 set. - 17 nov. 2002
Marco Enrico Giacomelli
ISSN 1127-4883     BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 9 Marzo 2003, n. 317
http://www.bta.it/txt/a0/03/bta00317.html
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Area Estetica

Grazie alla cura di Lucio Cabutti, Denis Curti e Marisa Vescovo, il Palazzo Cavour di Torino ha potuto dedicare a Nam June Paik un'esposizione assai ricca e ben orchestrata (14 settembre - 17 novembre 2002).

L'artista coreano è noto in primis per K 456: un robot realizzato nel 1964 secondo un'architettura molto distante dai modelli descritti e prescritti nella letteratura fantascientifica coeva e dotato d'una struttura fragile, la cui prima apparizione avveniva nel parco newyorkese di Washington Square. Quelle caratteristiche sono una metafora valida ancora oggi per riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia.

Paik ha il grande merito di aver contribuito a ridefinire la figura dell'artista, connettendo in maniera inedita comunicazione, interazione e flusso. Una sinergia che oggi può apparire banale, ma che mezzo secolo fa risultava spesso inaccettabile non tanto per il pubblico, quanto per le accademie. E tuttavia, in un certo senso Nam June Paik riattualizza l'autentico fare artistico: « Percorrere strade e incerti sentieri, cogliere discordanze e dissonanze. Sottolineare differenze, dichiarare identità, aggiungere diversità e recuperare spazi di confronto » (p. 15). Senza dimenticare il gioco che, come sostiene Mario Perniola (L'estetica del Novecento, Bologna 1997), caratterizza gran parte delle sperimentazioni del XX secolo: non a caso Paik dialoga spesso con John Cage, incontrato nel 1958 in Germania - una delle patrie dell'avanguardia musicale.

Il coreano è spesso citato per l'"invenzione" della videoarte - per « l'introduzione (...) delle immagini elettroniche in movimento nel mondo dell'arte » (p. 46. Ma non vanno dimenticate gli esperimenti di Wolf Vostell, inaugurati sin dal 1959 con TV-dé/collage). In questa veste, Nam June Paik esordisce nel 1963 con un'installazione intitolata Music-Electronic Television e allestita alla Galleria Parnass di Wuppertal: « 13 video-monitor, buttati a caso, che riempivano lo spazio con l'emissione di immagini ferme interagenti con gli spettatori » (ibid.).
Una vera e propria svolta avviene l'anno seguente, grazie all'incontro - mediato da Cage e Joseph Beuys - col lituano George Maciunas, fondatore di Fluxus.
Secondo la definizione dello stesso Paik, Fluxus è « la perfezione che diventa errore, che si trasforma in errore. Arrivare alla fine e dover ricominciare dall'inizio » (p. 32). Il gruppo-movimento trova in Paik una relativa smentita circa la negatività intrinseca dei mass media, mentre il coreano si confronta con le cifre essenziali dei newyorkesi: predominanza del processo creativo sull'opera, interdisciplinarietà e "culto" di sapore duchampiano della performance provocatoria (si pensi a Zen for Film (1962-64), pellicola trasparente di trenta minuti, analogon del celebre 4' 33'' (of complete silence) di John Cage e delle tele bianche di Robert Rauschenberg, in un comune quanto eterodosso riferimento alla cultura orientale).

Nel 1964, raggiunge Fluxus anche Charlotte Moorman, che doveva siglare un trentennale sodalizio con Nam June Paik.
Violoncellista dell'American Simphony Orchestra diretta dal celeberrimo Stokowski, l'americana aveva appena fondato il New York Avant Garde Festival. La coppia firma realizzazioni quali Opera Sextronique (1967), dissacrante riflessione sul ruolo della sessualità nei media, e TV Garden (1974), ove al centro dell'installazione sta la relazione complessa fra natura e tecnica.

Durante gli anni Settanta e Ottanta, Nam June Paik si distingue per lo strenuo impegno - a fianco, tra gli altri, di Cage, Moorman, Beuys, Laurie Anderson e Merce Cunningham - nell'evidenziare le possibilità di utilizzo alternativo del mezzo televisivo: « Paik punta dunque reiteratamente sulla trasformazione della immagine televisiva, e in particolare sulla sua distorsione o deformazione, come strada maestra per superarne l'influenza mediatica incontrollata » (p. 99). Fondamentale è in questo senso Good Morning Mr. Orwell (1984): per la prima volta, la tecnologia satellitare è utilizzata per fini non militari e una trasmissione televisiva viene diffusa planetariamente (New York, Parigi, Colonia, Locarno e Seoul figurano come luoghi di produzione), « contraddicendo l'assunto di Orwell sulla negatività [intrinseca] dei mezzi tecnologici » (p. 50). All'iniziativa partecipano a vario titolo un nugolo di artisti: da Allen Ginsberg a Philip Glass, da Yves Montand a Salvador Dalí.

È il nesso fra arte e tecnologia che Nam June Paik mette in evidenza con pionieristica genialità: insieme a Cage, Fuller, McLuhan, Rauschenberg e Billy Kluver, l'artista coreano partecipa al consorzio Experiments in Art and Technology (si veda Stephen Wilson, Information Arts, Cambridge (MA)-London 2002, pp. 388 e 681 e i links in calce a http://www.swif.uniba.it/lei/recensioni/crono/2002-12/index.html). « Attraverso un vorticoso gioco di metafore e sinestesie, estrapolazioni e interazioni, esperienze e invenzioni, la sua sperimentazione estetica guarda agli sviluppi delle nuove tecnologie audiovisive come a insostituibili quanto travolgenti fattori di innovazione per lo sviluppo dell'arte e per la fruizione della cultura » (p. 98). L'originalità di Paik sta nel non farsi affascinare dalle estetiche post-human dominanti l'arte più avanzata. Egli « non pensa al "corpo" come ad un residuo anacronistico, inadeguato ad abitare il nostro ambiente artificializzato » (p. 53); al contrario, per lui « l'estetica elettronica (...) costituisce il valore aggiunto al rilancio della corporeità catalizzato dai mezzi di comunicazione di massa » (p. 106): « D'altra parte, tutto il XX secolo è stato segnato da una grande competizione: quella tra la tecnologia dei media e l'arte. E gli artisti sono stati insieme i sacerdoti, le vittime e le antenne della sfida » (p. 95).

Certo si possono avanzare varie critiche all'umanismo sotteso all'operato di Nam June Paik. Tuttavia, ciò nulla toglie al valore di un'opera in cui « il video costituisce il linguaggio più versatile, celere e coinvolgente per condurre un libero gioco della intelligenza scientifica e della immaginazione estetica che si trasforma in conoscenza e coscienza » (p. 123).

In conclusione, un doveroso plauso va rivolto ai curatori dell'archivio AIAM (Accademia Internazionale Arti e Media, Torino): sfruttando il sistema DIVA (Digital Integrated Video Archive), interfacciato mediante uno schermo tattile, hanno permesso una fruizione intuitiva e in real time dell'intera produzione esposta di Paik.
Certamente un tale tool risulterà fondamentale per chiunque intenda approfondire lo studio della videoarte, e auspichiamo che l'esempio venga seguito dalle numerose istituzioni di arte contemporanea che prematuramente si sono monumentalizzate.




Indice

Nam June Paik: il video è noioso di Henry Martin
Nam June Paik di Denis Curti
Nam June Paik, Charlotte Moorman a reti unificate di Marisa Vescovo
La telecamera magmatica: Nam June Paik videoalchimista sottile di Lucio Cabutti
Opere in mostra
Schede video di Lucio Cabutti e Giuliana Centini
Biografia
Mostre personali e cataloghi
Mostre collettive e cataloghi
[Un lettore del Wall Street Journal (da una conversazione tra Nam June Paik e Antonina Zaru, New York, agosto 1992)]


L'autore

Nam June Paik (Seoul 1932) ha studiato composizione e storia dell'arte all'Università di Tokyo. Dopo aver conseguito il dottorato in Estetica in Germania, si trasferisce a New York e frequenta attivamente il circolo Fluxus. L'ultima grande retrospettiva, precedente a quella torinese, si è tenuta al Guggenheim di New York nel 2001.


Links

La casa editrice Hopefulmonster (Torino) http://www.hopefulmonster.net

Nam June Paik sull'ARTCYCLOPEDIA (in inglese) http://www.artcyclopedia.com/artists/paik_nam_june.html

Nam June Paik di Nina Müller (in tedesco) http://www.namjunepaik.de/






Nam June Paik
fig. 1
Nam June Paik

 

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