La Campania è una terra fertile di talenti, spesso repressi da un sistema dell'arte affidato ad assessori all'Incultura e critici prezzolati, che operano secondo logiche clientelari. In un sistema così mediocre è impresa ardua segnalare e promuovere gli artisti di talento, imporre i loro nomi oltre gli angusti confini regionali. Esiste, tuttavia, una rete qualificata di operatori sensibili, i quali, con intelligenza e determinazione, portano avanti progetti d'ampio respiro culturale. Una presenza determinante, in tale contesto, è costituita dalla galleria "Il Pilastro" di Santa Maria Capua Vetere, che nell'autunno 2004 proporrà un'intrigante rassegna di artisti emergenti.
Segnalo in anteprima, per i lettori del Bollettino Telematico dell'Arte, alcuni degli artisti più interessanti e qualificati: Abramo Cantiello, Francesco Capasso, Domenico Napolitano, Rosanna Pezzella, Pasquale Sorrentino e Antonietta Vaia.
Abramo Cantiello è affascinato dalla pittura dell'immobile, della quiete, del silenzio, dell'atemporale che si carica simultaneamente di una vaga intensità. Cantiello delinea atmosfere tese, vibranti, in cui l'oggetto acquista un'aria evanescente. Le sue immagini austere, ambigue, ieratiche tendono all'astrazione. L'artista non aspira ad imitare la natura, bensì ne vuole afferrare l'intima essenza per immettersi nei suoi processi creativi.
Le sue nature morte hanno una severa dignità ed una purezza quasi geometrica, esaltata dal sapiente uso della luce, dall'accostamento di colori complementari, dalla nudità e dalla simmetria dello sfondo. Un marcato chiaroscuro esalta il carattere scultoreo della forma, la traduzione dello spazio attraverso l'impianto della scena. Chi contempla Vanitas, una delle nature morte più riuscite, vi può cogliere una vita spettrale soggiacente, che è immobile eppure animata. Le immagini dei fiori appassiti e del teschio di capra esprimono un'alta densità emotiva, uno stato di agitazione e sconforto per la bellezza sfiorita, la vita estinta, la luce sfumata.
In Pensiero verticale, intensa opera del 1995, Cantiello si rappresenta davanti alla tela, con la maglia sudata e il pennello abbandonato sulla sedia. L'inquietudine dell'artista, che sente la sua pittura inadeguata all'espressione delle idee, è avversata da un uomo in abiti orientali, che osserva la tela con interesse. Le due figure volgono gli occhi in direzioni opposte, come a voler sottolineare la divergenza di opinioni tra chi realizza e chi fruisce l'opera d'arte.
Un'altra opera significativa, alla quale l'artista ha lavorato dal 1993 al 2004, è l' Autoritratto con cavallo, in cui la figura umana scompare dietro la possente sagoma dell'animale. Il profilo del cavallo, il cui realismo è pari alla fermezza, si staglia su un ampio paesaggio collinare, trasfigurazione idealizzata della sua terra. Sorprende la gravità statica, la solennità del cavallo, che invade la scena e respinge in secondo piano l'autoritratto dell'artista.
Abramo Cantiello, con una sensibilità metafisica, coglie il flusso dell'immobile guardando la realtà con l'allucinata visione di un mistico e ne restituisce la fisicità con attento controllo tecnico, compositivo ed estetico. L'artista ha elaborato un linguaggio concreto ed icastico, memore di Piero Della Francesca e di Jean Fouquet, in grado di esprimere una sensibilità contemporanea in una forma classica.
La ricerca di Francesco Capasso tende alla sublimazione poetica dell'oggetto usato, logoro, abraso, di cui rivela la segreta spiritualità come residuo dell'esistenza non solo umana, potremmo dire cosmica. Le sue opere sono solcate da graffi, crepe, crettature, che comunicano una sensazione di sofferta precarietà. La materia, devitalizzata dalla consunzione, diventa elemento primordiale, residuo solido di una vita che si estingue.
Nelle elaborazioni dei primi anni '90, Francesco Capasso tende a nascondere il proprio intervento per suggerire che l'opera sia "fatta da sé". L'artista intuisce, attraverso la lezione di Burri e Kapoor, che il segno può nascere dalla colatura della ruggine o dall'impronta dell'acqua su una superficie. La trasformazione dei materiali attraverso l'azione del tempo e della natura lascia una traccia segnica, una testimonianza di vita che accende la sua sensibilità.
Alla fine del '95, Capasso sceglie l'uso sistematico della carta abrasiva, affascinato dalla sua proprietà di conservare l'impronta del colore asportato dagli oggetti. L'artista recupera, seleziona ed applica sul supporto minuti frammenti di carte abrasive, fissati con spilli e collanti naturali. L'opera assume un carattere di temporaneità, instabilità, transitorietà, perché i tasselli sono asportabili e componibili all'infinito. La carta usata ci parla del suo passato, ci sollecita a pensare all'uso che ne è stato fatto, prima d'essere fissata nell'immobilità dell'opera d'arte. I suoi colori rimandano ai muri di tufo, agli intonaci grezzi, ai campi assolati della Terra di Lavoro. Le carte abrase raccolgono i riverberi di una realtà degradata e confusa, che l'artista tende a ricomporre con estremo lavoro di sintesi.
Altra costante nell'opera di Capasso è l'oscillazione tra ordine e caso, rigore e poesia, che si riflette nella geometria del supporto e nella libertà del segno. Tale oscillazione si esprime compiutamente in Composizione n. 9, dove la geometria dell'impianto, basata sull'iterazione del numero 3, è turbata dal caotico disporsi delle carte abrasive.
Nelle ultime opere, l'artista di Sant'Arpino recupera in chiave concettuale la tecnica dell'affresco, intesa come immissione del pigmento naturale nella calce viva. Il colore, una volta catturato dalla materia, ne diviene parte integrante.
Nell'era della fotografia e del video, dell'iperrealismo e del postmodern, Domenico Napolitano sceglie la via dell'astrazione e riscopre la forza comunicativa del colore, attraverso le sue vibrazioni, le sue mutazioni di tono e di luce, il suo addensarsi o diradarsi in uno spazio ideale. Nelle sue tele, talora sospese in uno scenario onirico, sono compiutamente applicate le teorie di Kandinskij sulla spiritualità dell'arte e sul potenziale espressivo della linea e del punto.
Con una sensibilità visionaria, un fare istintivo e immediato, l'artista accumula e sedimenta i reperti emotivi che affiorano dall'inconscio. I suoi umori, pulsioni, ansie, trepidazioni precipitano sulla tela, in uno scenario mentale che sottende un sapiente equilibrio compositivo. L'apparente libertà del segno nasconde, in realtà, una trama coerente ed una sottile vena lirica.
Napolitano deriva suggestioni e spunti sia da eventi contemporanei, sia dalla propria intimità. In opere quali Conflitto e Scontro, l'artista rappresenta la guerra con intensa commozione, che si traduce nel tragico incupirsi della superficie, nella precaria inclinazione dell'orizzonte, nell'acceso espressionismo dei colori, nell'intrico di segni guizzanti e schegge luminose che si agitano nel vuoto. Nelle opere più recenti, si legge una graduale tendenza a stemperare i propri umori in una pittura più meditata, meno impulsiva. Il ritorno alla linea retta, orizzontale o verticale, è sintomo di una ritrovata stabilità, un ritrovato equilibrio interiore che si riflette anche nella liquidità del colore, nitido e lucente. Ad annunciare la nuova stagione artistica sono le ultime opere del 2003, come The window, in cui s'intuiscono note di paesaggio ed elementi figurali, che si sovrappongono a scenari informali in una duplice modalità di percezione. La tendenza a diluire, stemperare, placare le emozioni suscitate dalla guerra, si afferma compiutamente nelle prime opere del 2004, come Exploration, Sensuale, Mutamenti, dove i segni pittorici paiono galleggiare nell'acqua.
In antitesi alla stesura informale di Scontro, indifferenziata nell'ampiezza della tela caoticamente percorsa dai segni colorati, lo spazio della vita e delle passioni, nelle ultime opere Domenico Napolitano propone uno spazio di serena concentrazione emotiva, di uniforme luminosità, ordinato e sereno in una definizione quasi architettonica, a rappresentare uno stato di equilibrio raggiunto.
Rosanna Pezzella compone le sue opere con lastre e schegge di ardesia, tenute insieme da fili di juta o di lino. La lastra superiore è aperta da una crepa, una ferita lacerante che i deboli fili di sutura non possono rimarginare. Attraverso la crepa emerge un'ulteriore lastra di ardesia, una realtà parallela e più intima che l'artista vuole indagare, per capire se stessa e le proprie angosce. Le torbide cavità dell'inconscio si riflettono nelle fenditure della pietra. Il graffito, lo scabro, il levigato, l'opaco sono le pieghe dell'anima, che sfuggono ai nostri sensi, ma affiorano attraverso i sogni, le pulsioni, gli stati di agitazione.
I fili tendono a ricomporre, con estremo sforzo, i frammenti di una realtà lacerata e sconvolta, le schegge sottili e taglienti che l'uomo produce con la sua devastante attività. Con femminile sensibilità, l'artista esprime la volontà di ricomporre l'unità originaria, di superare i conflitti, di ristabilire l'ordine, di sanare le ferite e le divisioni.
Rosanna Pezzella riflette il suo riserbo, la sua umiltà, il suo spirito riflessivo in opere ermetiche ed icastiche. Con gusto sobrio ed elegante, l'artista ha basato l'estetica del suo lavoro sulla bicromia grigio-bianco, che suggerisce molteplici rimandi all'architettura napoletana. Come non pensare all'abbinamento di marmo e piperno, che conferisce al nostro Rinascimento una nota peculiare ? E come non pensare a talune chiese fanzaghiane, animate da intarsi barocchi in marmo bianco e bardiglio ? Il vissuto dell'artista ritorna nelle sue opere, inconsciamente, e si lega al suo spirito, alla sua terra, alle sue radici.
La formazione artistica di Pasquale Sorrentino si è svolta fuori delle accademie, attraverso la frequentazione di qualificate botteghe e laboratori artigianali. Nei primi anni '90 inizia a scolpire il legno e concepisce figure iconiche, totemiche, dal sapore ancestrale. Le sue sculture combinano l'espressionismo arcaico dell'arte africana e la sensibilità visionaria dei surrealisti in un linguaggio energico e fluido, animato da una cocente spiritualità.
Nella metà degli anni '90, l'artista avverte l'esigenza di ambientare le proprie sculture entro una sfera d'azione, che può essere un paesaggio o una visione astratta. Allora applica le figure lignee sulla tela dipinta e sperimenta la fusione di pittura e scultura. L'impasto cromatico, denso e materico, acquista un tono scultoreo che rimanda idealmente alle metope classiche.
Esemplare di questa fase artistica è il monumentale trittico dedicato ai continenti, che s'impone per la tensione delle forme e la temperatura dei colori, che sfumano nelle gamme cromatiche del rosso bruno e del blu marino. Nelle superfici increspate e smangiate, nelle rughe che solcano i corpi, nella distorsione di parti anatomiche, l'artista esprime le sollecitazioni del subconscio, il malessere sociale e l'angoscia esistenziale che logora l'uomo contemporaneo.
Nelle opere più recenti, la componente onirica e surreale prevale sulla radice espressionista e primitivista. Allora Pasquale Sorrentino individua una cifra lirica che, attraverso una linea sinuosa e avvolgente, ravvivata da cromatismi caldi e accesi, ricostruisce un universo vivo dell'immaginario. L'angoscia dell'artista non si estingue, ma si esprime attraverso una pittura visionaria, che alterna note d'amarezza e d'ironia. Questa fase del suo cammino artistico può essere rappresentata da Incontro furtivo, opera enigmatica e densa di significati. In primo piano vi sono due figure scolpite, dal profilo allungato, che tendono l'una verso l'altra. L'unione tuttavia è preclusa: un filo di ferro imprigiona i corpi e nega loro la possibilità di un contatto fisico, di una relazione intima oltre il gioco delle apparenze. L'ambientazione metafisica e l'assenza di prospettiva vincolano la scena in una dimensione astratta, che sfugge alle categorie spazio-temporali. L'intelaiatura della tela, dipinta al rovescio, assume una valenza architettonica e definisce il confine tra lo spazio reale e lo spazio pittorico. I colori lucidi e brillanti, che nascono dall'impasto di colle viniliche e colori acrilici, denunciano le trascorse esperienze di Sorrentino nei laboratori di ceramica.
Le immagini che l'artista cerca di fissare sulla tela nascono dal torbido agitarsi del suo inconscio, sono larve umane che non riescono a liberare la propria spiritualità, ad esprimere le intime pulsioni che implodono all'interno dei corpi. L'irriducibile opposizione fra la tensione dello spirito e la prigione del corpo si esprime con estrema sintesi in La sofferenza dell'ultimo Renoir, scultura icastica e straziante che si contorce entro la cornice libera.
Al centro dell'opera di Antonietta Vaia è l'espressione del subconscio, che si esplica nella fusione di realtà e sogno, figurazione e astrazione, contenuti onirici e visioni surreali. Con una sensibilità onirica, una forza visionaria, una spiccata accensione immaginifica, l'artista di Sant'Arpino stende sulla tela pennellate dense e materiche, animate da una vivezza cromatica che riflette uno spirito solare e ottimista. Le sue immagini sono l'iconografia dello spazio interiore, vivificato da pulsioni, fremiti, attese, palpiti, svincolati dall'indagine formale delle scienze e dal rigore delle categorie spazio-temporali. La dissoluzione della forma diventa matrice dell'invenzione creativa, come insegna Gianni Pisani, suo maestro all'Accademia di Belle Arti di Napoli.
Nelle ultime opere di Antonietta Vaia si legge l'inizio di una svolta, che tende ad abolire la figurazione per esaltare la materia, rivelare la sua forza espressiva ed evocativa. Granelli di sabbia, steli secchi, frammenti cartacei invadono la tela, amalgamati da un manto di colori acrilici. Sui brandelli di carta, estratti dai quotidiani locali, si leggono notizie di cronaca, storie personali e collettive che l'artista recepisce, filtra e traduce nella sintesi dell'opera d'arte. Oltre la materia, uno sguardo in cerca del vero. La consunzione, l'usura, i recuperi sono i segni del nostro passaggio, l'attuale che si tramanda.
L'artista incede nella sua ricerca con la costante volontà di rinnovarsi, consapevole che ogni risultato è solo uno stadio di un percorso infinito.
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