Recente la pubblicazione di un leggero - solo 28 pagine - libello di Antonio Negri dal titolo La differenza italiana. "Leggero" per modo di dire, perché in poche ma "pesanti" pagine Negri cerca di dare una giustificazione, la differenza del titolo appunto, dell'involuzione della filosofia italiana, « senza centro (...). Oltre il Risorgimento », periodo storico ritenuto apice, ma anche impasse evolutivo del pensiero italiano.
Tolti pochi grandi - Giovanni Gentile e Benedetto Croce in primis - tutto il resto per Negri è « zavorra universitaria, fracasso delle mode, sciocchezze dei nuovi strumenti mediatici » ed ancora filosofia ed intellettuali da "terze pagine", ma sarebbe meglio affermare, per attualizzare ancor di più il tutto, da talk show raimediaset.
Dobbiamo dire che, nonostante gli intenti programmatici, un po' riduttiva ci sembra la lettura di Negri sulla filosofia del Novecento italiano, riduttiva, anche forse in riferimento a tutto quel versante etico-estetico, legato perciò all'arte, di cui Negri non tiene minimamente conto.
Se da un lato infatti è vero che l'Italia è stata invasa da filosofi da "terze pagine", onnipresenti in tutte
le manifestazioni e gli eventi più stupidi ed effimeri possibili, ma che proprio lì, con il loro birignao cercavano di darci, propinarci, una cultura leggera - "molle" la considera Negri - ormai arditamente schivata sia dai nostri vacui giovani così come dai più annoiati intelligenti - non sempre più intelligenti - dall'altro lato esiste un mondo intellettuale sommerso, non schierato con il padrone e l'anchorman di turno, di cui Negri non considera l'esistenza.
Il massimo declino per l'autore nasce « quando alcuni autori, con un certo orgoglio, proclamarono appunto 'deboli' il loro pensiero e la loro definizione della filosofia del presente » e, dopo di loro il diluvio: « (...) la filosofia italiana non è neppure provinciale: è solo debole, è da sempre filosofia debole, debole davanti alla politica e ai padroni, ai dittatori e ai papi ». E l'Italia del Novecento, soprattutto della seconda metà, ne ha avuti molti di padroni, meno di papi, pronti a ridefinire il pensiero medium italiano mediante lo sfruttamento minimum di quello che poteva essere considerato, al momento e in quel periodo, pensiero maxi.
In teoria possiamo anche ammettere tutto questo, ma non sostenerlo pienamente, anche perché c'è tutta una genia di pensatori che non possono essere assimilabili al pensiero debole, anche se in definiva non hanno fatto niente per rendere il loro pensiero, soprattutto per il secondo, più pesante. Ma è anche vero il contrario - tesi/antitesi - e cioè che il pensiero, certo tipo di pensiero italiano contemporaneo, non ha mai tenuto molto conto di due fattori: il primo è quello che Negri fa risalire al « rinnegare la storia delle insorgenze e delle resistenze che avevano accompagnato la prima costruzione dal basso di uno spazio pubblico in Italia, la prima costruzione democratica dopo il fascismo. La potenza delle lotte e della nuova massificazione del discorso politico, dopo il '68, doveva essere soavemente chiusa in una, per nulla soave, rinnovata ontologia del fascismo ». La qual cosa ha portato Negri ad evidenziare la prima vera eccezione italiana: Gramsci, « il gobbo, il traditore dello stanilismo, quello a cui gli altri prigionieri politici tiravano, in carcere, i sassi. Gramsci ha reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune. Ha reinventato Gentile, tentando di fare dell'attualismo (...) la base di un pensiero e di una prassi dell'avvenire. Non era un'avventura entusiasmante, questa: un uomo di sinistra, un comunista che rimette sui piedi la filosofia di Gentile, resta da qualche parte un uomo dell'800 ... Gramsci lo fu, perciò rappresenta la vera continuità del Risorgimento nell'Italia del Novecento ».
Nostra l'aggiunta per quanto concerne invece il secondo fattore che riguarda proprio il pensiero, lo ripetiamo, etico-estetico che non prende le mosse dal '68, anzi in alcuni casi lo anticipa, e che rifiuta il post-moderno, poco amato anche da Negri, per rivalutare le forze estreme e culturalmente più vivaci e pesanti che hanno portato alla contestazione giovanile sessantottesca, da Foucault a Deleuze e Marcuse, riletti a fini artistici e di pensiero dell'arte. In questo senso partiamo, come esempio vivo, dalla Scuola di piazza del Popolo, ovviamente americanizzata in maniera impropria con l'etichetta di Pop-art italiana, con Franco Angeli, Fabio Mauri in primo piano e le loro opere-azioni sempre più politiche e culturalmente aggressive. Passando per sezioni locali, ma non provinciali, dell'eventualismo, con i primi Gesti tipici di Sergio Lombardo, letti però sempre mediante una cifra stilistica "minimizzatrice" data dai patemi della nascente, almeno in Italia, psicologia dell'arte e da una "eventuale" rimodellazione neo-metafisica che in seguito ha reso quasi nulla la forza politica e di pensiero politico dei Gesti, a nostro avviso, efficacemente presente, almeno in quel periodo, nelle opere di Lombardo fino al Veleno d'artista e perciò all'avvicinamento con il futuro pensiero debole che già in questo periodo, fine anni Sessanta-primi Settanta, proponeva i suoi iniziali vagiti.
Pensiamo anche, tornando cronologicamente ancora più indietro, alla forza dirompente e di rottura delle opere di Burri che, suo malgrado, ha invece avuto un impatto politico - denunce, interpellanze parlamentari, ecc. - non indifferente e una forza di pensiero sulla quale ancora molti artisti sembrano vivere e proliferare.
In questo modo anche l'efficacia e la stimolante spinta a rafforzare il pensiero portato dal '68 francese nel settore etico-estetico italiano, ci sembra in qualche modo già anticipato ed in parte superato da molti artisti italiani nati dalle ceneri rivoluzionarie, ma anche un po' nichilistiche, delle avanguardie europee del Novecento, dai comunisti surrealisti ai socialisti del costruttivismo russo, senza dimenticare i primi socialisti futuristi italiani - meno la finale frangia fascista - e che vanno, in un brevissimo excursus nominale, da Piero Manzoni e la sua Merda d'artista, vero populista schiaffo estetico alla morale democratico-cristiana borghese degli anni Cinquanta, all'arte impegnata ed anti-borghese, ancora democratico-cristiana, degli anni Settanta, dal mega-politicizzato Vinicio Berti, all'analitico Ennio Calabria a Gianquinto, fino al profondo Nino Bibbò, solo per nominare, non a caso, i principali.
Lo stesso discorso non è possibile invece farlo per la critica d'arte, anche questa, per parafrasare Negri, da "terze pagine" se non "da seste" e/o "da settime". Del resto di arte si parla in genere in fondo alle pagine della cultura dei quotidiani o alla fine dei giornali televisivi, fra lo sport e il gossip, ma solo se fa audience e choc ovviamente.
Questa è stata, a nostro avviso, la quarta via italiana della differenza, quella appunto del pensiero etico-estetico, dopo le tre di Negri, quella per intenderci di Gramsci, già riportata, e le due, ancora analizzate da Negri, dell' « operaismo e femminismo della differenza ». Dall'altra appunto la nostra quarta via, quella dell'arte, di un certo tipo di arte che ha portato ad operazioni non di massa, ma nate appunto dalla massa e per la massa.
« É la resistenza che produce filosofia », afferma Negri, e la resistenza al pensiero critico/debole degli artisti degli anni Sessanta e Settanta ha portato a produrre arte, quella vera non finto azionista che degenera nel teatro, non divistico-pubblicitaria che tanto piace oggi alla critica "da sesta" e/o "da settima pagina" (Cattelan & Company s.r.l.).
Un'arte impegnata, forte e "contro" che, è vero, ha avuto poca proliferazione ma che ancora ripropone e può riproporre tutti i valori di una cultura "altra" rispetto a quello che ci propongono, impegnata (parola ormai obsoleta), contestataria (parola sparita anche dai vocabolari comuni), senza separatismi, nè barricate ma che essa stessa è "separata" e "barricata", anche se spesso dobbiamo prendere atto che anzi si è essa stessa barricata, già dagli anni della "Milano da bere" (durante lo sboom della politica culturale della coppia Craxi-De Michelis) e della politica spot dell'éra Berlusconi.
Ripartiamo da lì, da qui, per ricreare la differenza e per ricostruire, sulle radici del recente passato, in forma più attiva, senza bisogno di paradigmi pre-esistenti, verso una nuova epoché culturale e linguistica non basata sul niente, così almeno come sembra invece essere il nostro relativo presente e l'arte che gli va proliferando in tondo.
Se per Negri « è nel deserto dunque che nascono questi fiori fortissimi e nuovi: sta nel contrasto con l'orizzonte desertico, sta nel risalto potentissimo della loro espressione che le nuove forme di resistenza e affermazione filosofica si connotano », per la nostra quarta via non c'è stato deserto, ma solo tappa esistenzialista, fuga culturale (l'anacronismo e il citazionismo degli anni Ottanta) che spesso però covava i germi di una nuova rivolta, seppur intellettuale. Si veda in questo senso l'esempio della pittura "di pensiero" di Stefano Di Stasio, ed ancora le opere urbane, dalla forte connotazione politica, di Nunzio, Mimmo Paladino e/o di Giuseppe Penone.
Elemento comune, positivo e perciò costruttivo, al di là delle differenze linguistiche, è che questa "quarta via della differenza", quella appunto etico-estetica, dagli anni Novanta in poi ha riavvicinato l'artista, se non la sua azione artistica, al terreno bio-politico, facendogli cioè rivelare il senso politico immediato della vita - e perciò dell'arte - stessa. In questo modo, e qui ci riagganciamo di nuovo a Negri, « questa immediata tensione bio-politica spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione ».
Innovazione concreta, pragmatica oltre che ideologica, la quale però non deve passare più dalle Biennali/Quadriennali/Triennali/Annuali/Mensili ecc., ormai istituzioni sempre più inutili, omologate e dannose all'arte contemporanea. In questo senso intendiamo un'innovazione creativa che vive nel rigore ideologico della scelta della differenza, senza astrazioni culturali, ma nella lotta viva dell'arte per il pubblico (una volta avremmo scritto popolo); di un'arte impegnata e politica o bio-politica, come direbbe Negri, che nasce e si forma dalla vita per ritornare a questa stessa.
Del resto la forza della quarta via, snobbata anche da Negri, è tutta qui, ovviamente in una semplicizzazione estrema, nel pensiero e nell'azione della politica che trasmuta in azione creativa, nei molteplici linguaggi a cui l'arte stessa si affida e perciò in pensiero etico-estetico.
É per questo che continuiamo a crederci nella differenza - e non a sperare - ed a costruire per rafforzarla, in barba alle veline post-moderne di certa critica d'oggi, même.
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