Il termine cimitero deriva dal greco κοιμάω «metto a dormire, pongo a giacere», e appare in iscrizioni paleocristiane per indicare anche una sola tomba, ma presto passa al significato esclusivo di agglomerato sepolcrale.
A Roma dalla prima età del Ferro non si seppellisce più dentro la città; uniche eccezioni potevano essere i bambini. La tomba inserita di proposito nelle mura o sotto la soglia aveva un significato sacrale di espiazione alle divinità protettrici delle porte. Nell'antichità infatti i morti erano sì onorati, ma al tempo stesso erano temuti. Presso gli Ebrei, così come i Romani, i morti erano ritenuti impuri.
La più antica opera legislativa romana, la Legge delle XII Tavole, attribuita dalla tradizione al 450- 451 a. C., prescriveva che nessun morto fosse sotterrato o cremato in città: funeste - funestus significa in origine «contaminato dalla presenza di un morto» - potevano essere le conseguenze, dunque i cimiteri dei romani erano fuori città, o lungo le strade.
Con il Cristianesimo, che dagli usi ebraici aveva ereditato la pratica dell'interramento e la proibizione della cremazione, l'inumazione divenne regola per tutti. Dal II secolo d. C. il diffondersi della pratica dell'inumazione favorì il costituirsi di vaste aree cimiteriali a cielo scoperto, sempre all'esterno della cinta delle mura, secondo le prescrizioni della legge romana. All'epoca di Costantino iniziò l'uso di seppellire nelle chiese e nel terreno immediatamente circostante.
I primi cristiani condividevano gli usi dell'epoca, ma il loro atteggiamento mentale nei confronti della morte era talmente nuovo e diverso da portare inevitabilmente al cambiamento: la cristianizzazione dell'Europa portò al superamento della millenaria ripugnanza per la vicinanza con i morti.
Le inumazioni nelle basiliche cimiteriali iniziarono dal IV secolo d. C. Intorno al V secolo d. C., contemporaneamente al declino dell'escavazione cimiteriale, si andò affermando l'usanza della sepoltura subdiale (allo scoperto) entro e intorno alle basiliche dei martiri e alle chiese urbane: 1 i morti ormai non facevano più paura.
Per più di mille anni il suolo delle chiese è stato un mosaico di grandi lastre non cementate sotto le quali erano deposti i morti avvolti in un sudario: il sovraffollamento portò a sistemare le ossa - c'era un ricambio all'interno della chiesa, tra "nuovi" e "vecchi" - nelle gallerie addossate ai muri della chiesa, sotto le tettoie e nei portici dei chiostri attigui alla chiesa, i cosiddetti charnier, ossari o porticati dove le ossa erano depositate ed esposte 2.
Formalmente la linea teorica della Chiesa divergeva molto dalla prassi; per secoli, a partire dal VI, i concili hanno distinto tra sepoltura interna, che era proibita salvo illustri eccezioni, e sepoltura accanto alle mura della chiesa e al suo esterno. Il diritto antico affermava: «in ecclesiis vero nulli deinceps sepeliantur» e a più riprese i decreti conciliari - da Praga nel 565, ad Arles nell'813 fino al concilio provinciale che si tenne a Milano sotto l'Arcivescovo San Carlo Borromeo nel XVI secolo 3 - avevano ripreso questo principio.
In realtà il fenomeno della sepoltura dei morti all'interno delle città e più precisamente nelle chiese continuava ad essere diffuso e persistente, e anche se la maggior parte della popolazione veniva sepolta in forma anonima in grandi fosse comuni, la tomba nella Chiesa continuava ad avere un'importanza enorme per i fedeli.
Per secoli questa prassi diede vita ad un nuovo habitus: la brutale familiarità con la morte fece del cimitero un luogo pubblico di ritrovo.
Il cimitero in Europa infatti è stato per quasi mille anni anche qualcos'altro da sé, un luogo tutt'altro che macabro, anzi qualcosa che ricopriva un ruolo molto simile a quello del foro per gli antichi romani: una piazza pubblica che, peraltro, godeva del privilegio del diritto d'asilo: un autentico porto franco, e così se sotto terra si dormiva, sopra ci si riusciva spesso anche a divertire: in quali altri spazi il rigido controllo sociale si allentava permettendo così di ubriacarsi, ballare, avere incontri galanti, giocare o duellare ?
Se Lutero tuonava contro la costruzione di una fabbrica di birra nel cimitero di Wittenberg 4, in molti cimiteri sorgevano vere e proprie abitazioni nelle stanze sopra gli ossari; le stesse dove a volte per mancanza di prigioni i condannati a morte venivano murati vivi. Inoltre nei cimiteri avevano luogo i mercati e le fiere; operai e mietitori vi si riunivano in attesa dell'ingaggio, mentre alcuni documenti attestano l'esistenza di forni per il pane e di botteghe. Invano i sinodi vietavano le attività profane in questi luoghi.
Il concilio di Rouen del 1231 vietava, «sotto pena di scomunica, di ballare al cimitero o in chiesa», e ancora nel 1405 si vietava «di danzare al cimitero, di giocarvi a un qualunque gioco; divieto ai mimi, ai giocolieri, ai burattinai, ai musicanti, ai ciarlatani, di esercitarvi i loro ambigui mestieri» 5.
Il cimitero dei Santi Innocenti, già dopo l'anno Mille noto luogo di prostituzione parigino, era nel Sei-Settecento una specie di loggia mercato.
Lebrun descrive i cimiteri dell'Angiò come luoghi dove «i mercanti esponevano la loro mercanzia (...), piccoli e grandi correvano, giocavano, danzavano fra le tombe, dove non ci si scandalizzava di veder pascolare vacche e porci» 6.
Tuttavia la Chiesa, che aveva sempre condannato questo stato di cose, pur senza riuscire a cambiarlo, a partire dal XVII secolo effettuò un giro di vite energico in questo ambito: vennero innanzitutto fatti innalzare muri di recinzione intorno ai cimiteri per separarli definitivamente dalle attività quotidiane.
In realtà la situazione era iniziata lentamente a cambiare già nel Cinquecento con le Riforme; cattolici e protestanti - anche se questi ultimi non attribuivano alcuna sacralità alla terra del cimitero - vollero riportare questi luoghi ad una dimensione più civile e decorosa. Inoltre i paesi protestanti per primi rivalutarono i valori dell'individuo, da riconoscergli anche nella sepoltura.
Il Concilio di Trento portò profondi cambiamenti nella vita ecclesiastica, e non solo; vennero costruiti spazi per le nuove pratiche che, a svantaggio dello spazio della morte per quello dei vivi, portarono alla rottura del nesso chiesa-cimitero 7.
Il 1750 può essere fissato come spartiacque, "date large", ossia momento in cui appare una visione più moderna del problema. Il lavoro di «épuration de la religion» comune alle due riforme, l'esercizio dell'ordine monarchico e la fine del ruolo militare delle città sono fattori che portano, dalla fine del '500 circa, al progressivo recupero del ruolo originario dei cimiteri 8.
Intanto in Francia stava nascendo una concezione moderna di cimitero. Improvvisamente nel Settecento uno stato di cose plurisecolari diviene insopportabile. Tutto inizia con il dibattito sull'insalubrità dei cimiteri e sul decoro dei luoghi di culto, sostenuto in Francia da medici, parlamentari, intellettuali e da quella frangia più progredita dell'opinione pubblica, dibattito che anticipa un fenomeno che avrà luogo negli altri stati europei in tempi assai diversi, fino ad Ottocento inoltrato.
Nel Settecento, mentre si procede alla distruzione sistematica dei cimiteri di campagna, nasce una poetica delle tombe e di questi cimiteri. Il nuovo modello di cimitero che si andava formulando nell'Europa di fine secolo era frutto dell'avvento di una concezione laica del mondo, che stravolse l'iconografia stessa della morte, e che si riverberò sulla ricerca nel campo dell'architettura funeraria, nella scelta dei soggetti e nella sensibilità degli artisti dell'epoca. La repellente realtà delle fosse comuni prive di ornamenti vegetali o monumentali non induceva a riflessioni poetiche: per questo la nuova sensibilità si afferma nel momento stesso - e lì dove - la condizione reale dei cimiteri inizia a venire contestata e a mutare volto: la tomba di Rousseau nell'isolotto ad Ermenonville è l'antitesi della fossa comune e manifesto della trasformazione della coscienza religiosa del secolo, del resto proprio la nuova sensibilità e lo scetticismo religioso dell'epoca diedero vita all'idea sentimentale della tomba. Non a caso l'impulso iniziale a questa moda partì dall'Inghilterra dove, diversamente da quanto succedeva nell'Europa continentale, già nel XVIII secolo erano presenti cimiteri costruiti all'aria aperta, con le loro headstone che affioravano dal prato. Nei paesi della Riforma protestante il cimitero aveva perso questo carattere cattolico e latino di luogo consacrato, per diventare un luogo silenzioso di meditazione e preghiera.
L'estetica del sublime, l'impero della malinconia e l'attrazione per il sepolcrale: ecco gli ingredienti del cimitero acattolico di Testaccio.
Dallo scetticismo illuminista nasce una nuova immagine della morte, intessuta di rimandi filosofici al panteismo, allo stoicismo e alle nuove idee del secolo, e bisognosa di un nuovo scenario, che troverà nel giardino. Il riflusso religioso apre la strada alla nuova sensibilità estetica: nel momento in cui la condizione reale dei cimiteri viene contestata e cambiata, nasce l'idea sentimentale della tomba e il paesaggio pittoresco, derivato dai modelli letterari dei Campi Elisi e dell'Arcadia, sostituisce le terrificanti immagini dell'Aldilà tipiche della tradizionale iconografia cristiana. Per smorzare l'orrore della morte emerge la proposta del cimitero-giardino (la nuova cultura del giardino aveva già introdotto nel paesaggio frammenti di morte: urne, monumenti commemorativi fino alle tombe vere e proprie) che compie alla lettera l'idea di Et in Arcadia Ego, il quadro che tanto affascinò gli uomini del Settecento.
La moda architettonica delle tombe e delle rovine ha il suo corrispettivo in letteratura. Edward Young pubblica nel 1745 I pensieri notturni, mentre l'Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray è del 1751 (fu una delle prime composizioni poetiche europee che esprimesse il pathos del destino umano senza fare ricorso ad idee religiose 9): queste due opere segnano l'inizio di una specie di moda lunare, incline al lugubre, che stravolge l'iconografia stessa della morte, ora vista come una sorta di ritorno alla natura.
I cimiteri per acattolici praticavano l'interramento all'aperto, diversamente dalle pratiche cattoliche, e in questo senso il "vecchio recinto di Testaccio" fu il primo cimitero moderno (nel senso di un terreno extraurbano con sepolture individuali) di Roma.
Il cimitero acattolico di Roma si estende da Porta San Paolo e dalla Piramide di Caio Cestio verso il monte Testaccio, costeggiando un tratto delle mura aureliane. Esso nasce nella prima metà del Settecento per venire incontro alle esigenze degli aristocratici viaggiatori protestanti per i quali la prospettiva di una morte a Roma si trasformava nella certezza di una sepoltura infame, totalmente inadeguata al loro rango sociale. Infatti se i non cattolici erano tenuti a rispettare l'obbligo di non esercitare pubblicamente alcun culto eterodosso in vita, la morte per questi diventava una questione spinosa, che reclamava un minimo diritto alla decenza. A Roma in materia di sepolture non cattoliche vigeva una sorta di anarchia, non essendoci una normativa precisa a riguardo; l'unica prescrizione certa era che gli "eretici" non venissero interrati in luoghi consacrati.
Il cimitero al Testaccio è caratterizzato dall'usanza anglosassone e nordica in generale di seppellire in terra, dalla fitta vegetazione e dal gusto sobrio e individuale con cui sono sistemati i luoghi di sepoltura. I vedutisti ottocenteschi ne hanno celebrato l'aspetto di romantico cimitero campestre; questo luogo incarnava perfettamente il topos del giardino settecentesco, che pizzicava le corde della malinconia e del gusto dell'epoca, ed attuava una brillante fusione di sentimenti classici e romantici.
Gli studiosi si sono chiesti quale motivazione abbia spinto questi uomini a scegliere la zona intorno alla Piramide, che era la forma più celebre di una classe di monumenti funerari in voga nel periodo. La scelta è rivelatrice delle immagini "correnti" della morte, di una sua "estetica" che in età neoclassica e romantica «trovava significativa corrispondenza nella misteriosa forma della Piramide» 10.
Agli spiriti liberi del Settecento questo posto non appariva un confino, una terra sconsacrata per eretici, piuttosto lo ritenevano un unicum melanconico dotato di una intrinseca qualità estetica, generata dall'unione dei seguenti fattori: la campagna rude e selvaggia, la presenza di un rudere pagano - in antitesi con la Roma cattolica - la malinconia che scaturisce dalla decadenza della magnificenza passata, il campo sepolcrale degli eretici al bando e gli alti pensieri morali stimolati dalla presenza di un cimitero.
Una celebre citazione del luogo in questione. Riflessioni intorno ad Elegia Romana (Doppio ritratto nel cimitero protestante di Roma, olio su tela, 62 x 74 cm, Brest, Musée des Beaux-Arts, 1791) di Jacques Sablet.
Questa conversation piece 11 è venuta alla luce poco prima della esposizione londinese sul neoclassicismo del 1972, ed è stata subito salutata come l'epitome dell'attrazione settecentesca per la morte.
Jacques Sablet è a Roma tra il 1775 e il 1793, e dipinge l'Elegia romana verso la fine del suo soggiorno in città. Il titolo del dipinto è tratto dall'opera poetica di Goethe che, in un disegno del 1788, riveduto dopo il 1810, situa la propria tomba proprio presso la piramide.
I protagonisti meditano su un monumento funerario ispirato a prototipi classici, senza alcun indizio sull'identità della persona ivi sepolta. Anche se un violento temporale imperversa alle loro spalle, c'è un'oasi di idillio pastorale ai piedi della piramide, come a mitigare l'idea della funzione funeraria del luogo 12.
La scena si svolge a Roma nel cimitero dei protestanti. Jacques Sablet era protestante; forse era anche massone, ma non ne abbiamo prove certe 13. Il tema principale dell'opera è la morte: si è giustamente sottolineato il riferimento alle scene di conversazione con i defunti dei bassorilievi antichi.
Alcuni studiosi hanno ventilato l'ipotesi di una lettura parallela, in chiave massonica 14, del simbolo della piramide, «fra le referenze massoniche dell'epoca» 15.
Il paesaggio è solo in parte realistico; infatti le tombe sull'altura in primo piano, sono una creazione fantastica dell'autore. La concezione romantica della morte domina la scena; il paesaggio e la natura con il cielo oscurato dal temporale sono un tributo al settecentesco culto della malinconia, assurta ormai a categoria estetica. Proprio dal nuovo gusto imperante scaturì un nuovo genere letterario destinato a grande fortuna, quel filone che Van Tieghem definì «la poésie de la nuit et des tombeaux».
Due tombe sono rappresentate con chiarezza nel quadro: quella a destra è stata individuata come la tomba di Reitzenstein, maestro di scuderia del conte Von Ansbach, morto nel novembre 1775. Allora i monumenti funerari ai piedi della Piramide Cestia erano poco numerosi - come peraltro risulta dalle rappresentazioni coeve - ed il luogo era ancora usato come terreno da pascolo. Si vedono due pastori in lontananza, uno di questi è appoggiato alla tomba di Reitzenstein mentre suona il flauto, ma è ancora una citazione colta, che riecheggia il modello arcadico di Poussin.
Le eleganti silhouettes nere dei vestiti indossati dai due uomini in primo piano, il "camaïeu" delle rovine, l'atteggiamento meditativo e la classica compostezza del loro dolore: tutto, dalla composizione generale al più piccolo dettaglio, ricorda le figure di pianto dei vasi antichi; infatti è proprio in questo tipo di ritratto di colloquio con un defunto che Sablet ritrova le origini della scena di "conversazione".
Infine c'è lei, la piramide, elemento tipologico e matrice simbolica delle sepolture, che rafforza questo intento ammonitivo 16.
BIBLIOGRAFIA
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NOTE
1
Cfr. P. TESTINI, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Cappelli, Bologna 1966, pp. 179-181; 231; 258.
2
Cfr. ivi, pp. 52-69.
3
Cfr. L. ANGELI, Dell'antichità de' cimiteri e de' loro vantaggi, Imola 1821, pp. 25-28.
4
Cfr. W. KROGEL, All'ombra della Piramide, storia e interpretazione del cimitero acattolico di Roma, Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell'Arte in Roma, Roma 1995, p. 6.
5
P. ARIÉS, L'uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari 1980, p. 79.
6
M. RAGON, Lo spazio della morte, Guida, Napoli 1986, p. 152.
7
Cfr. P. ARIÉS, op. cit., 1980, pp. 364-370.
8
Cfr. D. LIGOU, L'évolution des cimetières, pp. 61-77, in "Archives de Sciences Sociales des Religions", 39, 1975, p. 65.
9
Cfr. J. MC MANNERS, Morte e Illuminismo. Il senso della morte nella Francia del XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 466.
10
A. MENNITI IPPOLITO e P. VIAN, The Protestant Cemetery in Rome. The "Parte Antica", Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell'Arte in Roma, Roma 1989, p. 42.
11
Inizialmente questo dipinto portava il titolo di Les frères Jacques et François Sablet près de la tombe d'un ami devant la pyramide de Cestius à Rome, finché non venne fatta notare la differenza tra la fisionomia dei due uomini raffigurati e quella dei fratelli Sablet. Il tema della rassomiglianza gemellare è comunque capillare in quest'opera, data la similitudine dei tratti somatici dei due uomini e degli abiti neri. Cfr. G. BELLI, A. OTTANI CAVINA, F. RELLA, P. ROSENBERG, P. SCHIERA, a cura di, Romanticismo. Il Nuovo Sentimento della Natura, catalogo della mostra (Trento, Palazzo delle Albere, 15 maggio-29 agosto 1993), Electa, Milano 1993, p. 215.
12
Cfr. A. WILTON e I. BIGNAMINI, a cura di, Grand Tour. Il fascino dell'Italia nel XVIII secolo, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 5 febbraio-7 aprile 1997), Skira, Milano 1997, pp. 128-129.
13
Contrariamente al fratello François, iscritto dal 1777 alla loggia della Céleste Amitié du Grand Orient de France.
14
Giuliano Briganti, Hélène Toussaint e Anne Van de Sandt hanno ventilato la presenza di simboli massonici quali la piramide, la notte e la luce, le piante di acacia o di fico sulla piramide. Cfr. A. VAN DE SANDT, Les frères Sablet. Dipinti, disegni, incisioni (1775-1815), catalogo della mostra (Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi 21 maggio-30 giugno 1985), Edizioni Carte Segrete, Roma 1985, p. 65.
15
Ivi.
16
Cfr. ivi, pp. 65-66.
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