Prima di attribuire una qualsiasi qualifica di livello agli artisti contemporanei, (sempre schematica, ovviamente, per motivi di chiarezza, perché non è detto che uno status, una posizione data, non possa trapassare nell'altra e viceversa) è, certamente, necessario mettere in evidenza la temperie culturale a noi contemporanea e fare anche i debiti raffronti con l'arte e il pensiero immediatamente precedente.
Non c'è chi non veda come nell'ultimo mezzo secolo i cambiamenti avvengano ad un ritmo vertiginoso grazie ai sempre più rapidi progressi della scienza e soprattutto della tecnica e come ciò che si evidenzi lampante sia la profonda divaricazione tra sapere umanistico e sapere tecnologico e scientifico.
Il primo, frantumando i linguaggi, da molto tempo non riesce più a dare risposte alle eterne domande che l'uomo si è sempre posto, e sempre si porrà, per attribuire senso ontologico al suo essere nel mondo : Chi siamo ? Da dove veniamo ? Dove andiamo ?.
Il secondo, invece, si compatta sempre più lasciando che la tecnologia, la computerizzazione, la velocità delle comunicazioni, ecc. ... procedano per loro conto.
Eppure, fino a qualche decennio fa, in quel clima di generale rinnovamento succeduto all'evento bellico, ci fu una sorta di convinzione fideistica nella possibilità della tecnologia e della scienza di convivere con l'umanesimo e che fu impersonata da quella singolarissima figura di scienziato e poeta che fu Sinisgalli con la rivista "Civiltà delle macchine", per mezzo della quale era miracolosamente riuscito ad aggregare personaggi come Ungaretti, Solmi, Turcato, Perilli, Fortini, Caproni, Burri, Mafai, ecc. ... e scienziati come Vaccarino, Wiener, Ceccato, Panaria, Somenzi ed altri, fiduciosi tutti che il progresso tecnologico fosse solo benefico.
Lo stesso titolo "Civiltà delle macchine", e non era o epoca o altro, fu una geniale intuizione che stette a significare come fosse la civiltà a creare le macchine e non viceversa.
Ma di lì a poco si vide anche il potere distruttivo della tecnologia: inquinamento, piogge acide, buco nell'ozono, Chernobil e molto altro ancora minarono la fiducia nel progresso tout court che avrebbe potuto rendere solamente confortevole la vita dell'uomo.
Dinanzi ai vari disastri il poeta, l'artista, il critico, insomma l'uomo di cultura umanistica si defilò, lasciando che fosse la tecnologia a creare la civiltà e a sommergerci con la sua messe di immagini estetizzanti ed accattivanti che mutano con la loro realtà virtuale la nostra percezione del mondo.
Nel frattempo le neo-avanguardie più o meno a noi contemporanee perdono lo slancio ideologico delle storiche. Le opere degli artisti, oggi, non esprimono più un linguaggio che è visione di un mondo da trasformare, non è condizione di un ordine futuro delle cose, non suscita giudizi e non condanna, semplicemente si ingloba dentro il sistema neo-capitalistico.
In sostanza il sistema ha fagocitato l'artista con vantaggio per entrambi. Ma il prezzo da pagare è che lui, l'artista, e la sua coscienza etica, in nome del dio mercato, si prostituiscono.
Il prodotto artistico è merce che deve essere smerciata e si deve servire di stilemi linguistici facilmente riconoscibili dalle masse che costituiscono il mercato. L'opera non ha più neanche potere di denuncia, di opposizione tragica, come era stata quella delle avanguardie storiche, al massimo può sfiorare l'ironia, la parodia, il sarcasmo.
Nelle nostre società i confini del visibile sono stati enormemente allargati dai potenti strumenti di comunicazione che hanno prodotto una moltiplicazione infinita di immagini determinando un effetto "blob", cioè una loro accumulazione quale non si era verificata prima.
Allora ogni trouvaille è gabellata per opera geniale, dal gallerista attaccato al muro con l'adesivo da imballaggio, allo sterco di elefante, all'artista legato al guinzaglio e così all'infinito.
Se queste sono operazioni artistiche di lettura articolata della realtà, allora l'arte è davvero fuori "misura", è, eticamente, totalmente inadeguata a confrontarsi con l'odierna civiltà cibernetica, che, con la sua esorbitante messe di immagini, derealizza il reale, lo estetizza, lo omologa, lo anestetizza e contemporaneamente anestetizza anche le coscienze.
In un momento in cui non esistono barriere spazio temporali, in un momento in cui i rapporti tra individui anche in guerra tra di loro possono agevolmente stabilirsi, salta evidente quel problema, di kantiana memoria: "Cosa posso conoscere" di questo mondo che colgo attraverso immagini che possono riprodursi all'infinito e che, pertanto, percepisco per mezzo di una infinità di linguaggi che dissolvono il reale in una pluralità di "mondi di vita" ?
In altri termini, se all'oggettività della rappresentazione si sostituisce la soggettività della interpretazione, che parcellizza il reale in mille rivoli già da più di un secolo, quale la funzione dell'artista e della sua opera in questo contesto ?
Essi, tradizionalmente, hanno avuto il compito di farci vedere la realtà con altri occhi, di intensificare la nostra esperienza di vita. E questo dovrebbe essere incontrovertibile anche oggi.
Certo, si ha perfetta consapevolezza che ciò è difficile da realizzare, per cui ci sono momenti di azzeramento, di vuoto, vuoi perchè non sempre lo spirito del tempo è facilmente decodificabile, vuoi perché la visione del reale, come nella nostra contemporaneità, si ferma all' "apparenza" delle certezze, vuoi perché altre branche del sapere, e quindi altri linguaggi, vedi la scienza e la tecnologia, prendono il sopravvento sui linguaggi umanistici, vuoi per altri infiniti motivi.
Quindi la stasi, la riflessione, forse in questo momento, sono necessarie per ri-definire il reale ossia ri-leggerlo alla luce del passato per re-intelligerlo, (etimologicamente da intus o inter: dentro e tra, e legere: raccogliere, scegliere) cioè leggere il reale per interiorizzarlo alla luce della cultura che ci ha preceduto (vichianamente siamo dei nani sulle spalle dei giganti) per proiettarlo poi nel presente. Ma oggi questo percorso non è lineare, ma spiraliforme.
Dice Steiner 1 che oggi il divenire storico ha perso la sua linearità in favore di un percorso spiraliforme. Una spirale che inghiotte e fagocita ogni cosa attraverso il kitsch e il trash esibiti, assimilati, goduti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, per cui più manifesta che mai appare ai nostri giorni la divaricazione fra linguaggio ed umanità, dialogo e speranza, proprio perché la gerarchia dei valori non è più quella dell'uomo col suo desiderio di "durare", ma quella delle scienze e della tecnologia col loro frenetico desiderio di evolversi.
Tenuto presente quanto sopra, al fine di attribuire all'arte quel senso di perennità per cui l'artista ha sempre vissuto, è possibile una speranza ?
Negli ultimi anni si è delineata una nuova visione del mondo: la globalizzazione.
Il concetto non è nuovo, le varie guerre da sempre hanno cercato di raccogliere sotto la bandiera del più forte più popoli, ma non se ne era mai avuta lucida coscienza come oggi.
La globalizzazione attuale comporta, innanzi tutto, l'omologazione di tutto e di tutti.
Per sottrarci a questa dimensione omologante e riappropriarci della nostra unicità di soggetti, la lezione del postmodern può essere ancora valida al fine di recuperare i valori più universali propri della cultura umanistica e che vedono (come sostiene ancora Steiner nell'opera citata) nella poiesis, e quindi nell'opera, la possibilità della speranza e nella dignitas la possibilità che il percorso esistenziale dell'individuo trovi una giustificazione, essendo l' odierna una fase di altissima estenuata ed estenuante estetizzazione della vita.
In altre parole, solo se si recupera la poiesis in uno con la dignitas e la capacità tecnica, che permette alla poiesis di essere espressa, si avrà la possibilità di resistere alla "civiltà dell'effimero", proprio perché, come si diceva, l'opera anela alla perennità.
Solo se l'opera d'arte è concepita in questi termini, può continuare ad essere un modo di fare esperienza del reale per metterlo in forma, quella forma cava, di cui parlava Focillon 2 che permette una lettura complessa e dinamica dello zeitgeist (spirito del tempo).
Ma quali sono i codici linguistici a noi contemporanei, o almeno qual è il presente ? Quel presente spiraliforme di cui si parlava, su cui si dovrebbe innestare il passato, tenendo sempre presente che l'evoluzione del pensiero va a piccoli passi e non per rivolgimenti, che taglino i ponti con ciò che ci ha preceduto, nel qual caso saremmo davvero degli sradicati impossibilitati a vivere in un ordine di cose di cui non ri-conosciamo i nessi.
Sta sotto gli occhi quale visione fortemente estetizzata ed estetizzante della vita ci danno i mass media: corpo scolpito, forme accattivanti, luoghi lindi e perfetti, ecc. ...
Per comprendere la portata di questo rinnovato estetismo dobbiamo recuperarne la nozione come fu concepita da un Pater o da un Wilde e fare le dovute differenze e considerazioni.
Per questi artisti la forma esteriore era dimensione di quella interiore e si manifestava in ogni aspetto della vita quotidiana: «L'estetismo non è una forma di basso edonismo, un godere della vita in tutte le sue occasioni, ma una forma raffinata di piacere, che esige cultura, distinzione, applicazione» 3. Gli stessi comportamenti dell'esteta si distinguevano da quelli della massa per una ricercatezza ed originalità del vestire e dell'eloquio, insomma l'esteta faceva della propria vita un'opera d'arte e qualcuno di questi atteggiamenti è rispecchiato ancora oggi in artisti come Gilbert & Gorge.
Ora se confrontiamo questo modo di concepire l'esistenza con l'odierno, risulta evidente che quest'ultimo non è più dimensione interiore ma solo apparizione, superficie, omologazione a determinati standard estetici favoriti dalla percezione spazio-temporale virtualizzata: gli stessi edifici, gli stessi McDonald's, le stesse griffe in tutto il mondo, ecc. ... per cui risulta difficile distinguere la dislocazione materiale delle cose che è poi dislocazione spaziale. Non si percepisce più neanche la natura se non attraverso quella offerta dal "Mulino Bianco", dal vino "Tavernello", dalla pasta "Barilla" e così via.
In questo contesto, si cerca di omologare la realtà che si ha sotto gli occhi a quella estetizzante offerta dai mezzi di comunicazione: casa impeccabile, linea perfetta, palestre, automobili, griffe ecc. ... insomma ognuno ha perso la propria individualità.
Basta un banalissimo esempio per rendersene conto. Tutti andiamo in vacanza scegliendo "liberamente" il residence del nostro relax in modo da fare ciò che più ci aggrada. Goduto il meritato riposo, informiamo l'amico, che ha fatto la sua vacanza all'altro capo del mondo, su ciò che abbiamo fatto, inaspettatamente coincide tutto, dagli orari per il desinare, alla palestra, alle visite guidate, ecc, ... tutto fotocopia.
Ma non è solo il relax omologato, ogni altro aspetto della vita gode dello stesso "privilegio", per cui lo spazio del "privato" si assottiglia sempre più, così come lo spazio della comunicazione, perché non c'è più nulla da dire facendo tutti le stesse azioni. Pertanto il soggetto non è individuo, ma massa su cui "agire" per fini che il soggetto non deve conoscere.
Conseguentemente, se l'estetismo del secolo scorso era distinzione, quello di oggi è omologazione, massificazione.
Tutti obbediscono allo stesso input, quello del "Potentato del Superfluo", intendendo per "Potentato" tutto un sistema di poteri più o meno occulti che fanno capo al neocapitalismo post industriale e per "Superfluo" tutto ciò che esula dai bisogni primari dell'individuo. Esso fa sembrare necessario ciò che non lo è, proprio perché è la merce, il superfluo, che "ci" desidera, e che ha il suo deus ex machina nella pubblicità.
Non era mai accaduto in nessun'epoca che il superfluo fosse così necessario, e questo perché omologa dando la sensazione di appartenenza e l'appartenenza è quella ad un mondo che si ritiene il migliore tra i possibili.
Ma, attenzione, apparentemente nessuno impone nulla a nessuno ed è per questo che il "Potentato del superfluo" è più subdolo di ogni totalitarismo, perché lascia intatta la sensazione di compiere libere scelte laddove i mezzi di comunicazione martellano le stesse scelte e quindi gli stessi comportamenti, come evidenziato sopra.
Conseguentemente, in piena libertà, la coscienza del soggetto si omologa, si omogeneizza.
Le catastrofi umane, i problemi sociali, ecc. ... esibiti e sovraesposti nei mass media tra una pubblicità di automobili, una fiction, uno spettacolo di intrattenimento, assumono tutti caratteri virtuali, anestetizzano la sensibilità, in quanto il vero ha la stessa apparenza del falso, la realtà della metarealtà, perchè tutto può esistere e coesistere in un mondo globalizzato e virtualizzato.
Il tempo e lo spazio sono entità astratte appiattite nel qui ed ora. La campagna e la città non sono reali, sono spettacolo standardizzato che un viaggiatore può consumare allo stesso modo di un pacchetto di patatine fritte.
Così decostruito o meglio virtualizzato il mondo perde la sua realtà.
Già Platone, millenni prima della fortunata serie di Matrix, col mito della caverna, se il mito non racconta ma disvela in forma simbolica ed intuitiva l'esistenza e l'esperienza dell'uomo in rapporto con l'universo, aveva dimostrato come dei prigionieri chiusi in una caverna, vedendo passare le ombre degli uomini, le considerassero realtà.
Analoga è la situazione contemporanea.
Allora, in tale contesto, è ancora possibile uno statuto ontologico per l'opera d'arte ?
Ecco una domanda da cento milioni di dollari.
Ma oggi nessuno si pone domande, nessuno ha niente da raccontare, nessuna esperienza da esprimere, essendo tutte le esperienze omologate e per quel poco che si ha da dire ci si serve di un linguaggio povero lessicalmente, proprio perché povero è il pensiero sotteso.
Tutti avranno fatto l'esperienza di dire un concetto complesso con termini appropriati, e quante volte ci si è sentiti redarguire !!! Il parlare "semplice", leggi omologato, è la cosa più bella per comunicare qualcosa !
Ma si ha poi il desiderio di comunicare e di ascoltare la comunicazione ? Se qualcuno prima si pone delle domande, poi riflette e poi comunica qualcosa che non rispecchia lo standard comune di pensiero viene escluso dal "gregge" perché "anticonformista", perché incapace di adattamento e come tale affetto da patologia.
Se il conformismo oggi è feticcio esso si trasforma spesso in tabù, è necessario violarlo perché ci sia un progresso o almeno una alternativa.
In altre parole, la domanda che si impone è: può l'artista, un tempo anticonformista per eccellenza, sentirsi dèracinè in un mondo globalizzato in cui il processo di omologazione spaziale, culturale, comportamentale, ecc. ... ha il sopravvento sulla territorialità in cui l'individuo è radicato ? Certo se si guarda a molta arte contemporanea sembrerebbe di no.
Se come dicevamo il mito non racconta ma disvela, un'interpretazione soggettiva del mito di Narciso potrebbe consentire una semplice decodificazione relativamente alla riduzione del mondo ad immagini e farci trarre le dovute conclusioni.
Dunque, il mito racconta di Narciso, giovinetto bellissimo, che si specchia nell'acqua di una fonte, non su una superficie rigida, e vede la sua immagine riflessa, ma essa a causa della liquidità rimanda una immagine del giovinetto sempre diversa, cangiante, sfumante, accattivante, comunque irreale. E Narciso si perde tra la moltitudine delle immagini, sordo ai richiami della realtà rappresentata dall'amore della ninfa Eco, fino a perdere anche se stesso.
Quindi il perdersi tra le immagini di questa nostra realtà omogeneizzata, derealizzata, globalizzata, anestetizzata, ci fa dimenticare anche la stessa nostra soggettività, lasciando al "Potentato del Superfluo" di agire indisturbato, col suo imporre regole e comportamenti e quindi anche pensieri e concetti.
Alla luce di quanto detto allora quale ruolo dovrebbe avere l'artista nella contemporaneità ? Come dovrebbe "leggerla" ?
A nostro avviso, si potrebbero distinguere tre tipi di artisti ( ovviamente in relazione alla produzione delle opere che fruiamo nelle varie mostre, biennali, triennali, musei ecc ... ) e cioè a) artisti "copy and paste", b) artisti "blob" e c) artisti "strong", "forti" in italiano.
I primi, "copy and paste", sono quelli i quali producono opere che ricalcano fedelmente stili e tecniche del passato o del presente, variando solo figurazioni e immagini e possono essere anche piacevoli e gradevoli a fruirsi in uno con una tecnica abbastanza raffinata e consapevole, ma non aggiungono nulla al modo usuale di percepire la realtà, anzi dopo aver visto qualcuno di questi lavori percepiamo solo un senso di sazietà, di dejà vu. Ne vediamo a centinaia nelle gallerie e persino nei mercatini rionali.
I secondi, "blob", sono gli immaginativi che osservano la realtà e ne allineano, organizzano, scompongono, sovrappongono ecc. ... le immagini. Costoro cambiano solo la "tonalità" della realtà, fanno insomma arte di intrattenimento. E non c'è chi non veda come la massima parte dell'arte contemporanea sia di tal fatta, proprio perché si recepiscono meglio e prima immagini già viste e "mixate ad arte", perché ci fanno sentire come se ci muovessimo in un paesaggio conosciuto e quindi di facile lettura. Di questi ne vediamo una infinità anche nei musei.
Gli ultimi sono i forti , gli "strong", nell'accezione con cui li definì Baudelaire 4 quando a proposito di Hoffmann sosteneva che costui poteva essere considerato un "romanziere forte" per la sua "sensibilità originaria riflessa".
Questi artisti "sono in genere ben più sorprendenti ed originali dei semplici immaginativi che sono del tutto privi di spirito filosofico, e che accumulano e allineano gli eventi senza classificarli senza spiegarne il senso misterioso" , essi, i forti, «aprono brecce improvvise, e trovano vie di fuga in direzioni assolutamente personali» 5
per cui la realtà è riorganizzata in una nuova visione quasi creata ex nihilo. Furono artisti strong ad esempio un Braque, un Marinetti, un Pollock, un Fontana e tanti altri.
In altre parole questi artisti sono coloro che sono capaci di inventare, di trovare nuovi scenari simbolici con cui leggere la realtà diventando creatori di un metodo di indagine. Essi in tal modo danno, per mezzo della loro opera, una sensazione di spaesamento.
Insomma, questi artisti sono quelli che riescono a fare emergere un tratto dell'essere che ancora non era stato mostrato, scegliendo sia la forma che la materia e il mezzo formante.
In tale contesto l'esperienza, allora, è orientata verso la polivocità, per cui i rapporti tra le cose vengono sottratte all'automatismo della percezione e, di conseguenza, della visione, per essere riorganizzate secondo un nuovo punto di osservazione, che induce chi guarda a porsi delle domande, a riflettere sulla realtà, perché questa ci appaia con un "volto" nuovo proprio perché l'artista ha lacerato la sua superficie, spezzandone forme e formule con cui noi usualmente la guardiamo. Così dall'infinità delle possibilità che la realtà offre, l'artista "strong" ne trasceglie alcune per ricostruire un'altra superficie.
In ultima analisi, l'artista "strong", forte, coniuga in un'unica "nuova" visione la poiesis e la dignitas di cui parlava il citato Steiner nell'opera Vere presenze.
In queste condizioni di perpetua ricerca la vita dell'artista e la sua arte saranno un'unica cosa e pertanto tale artista attraverso la sua opera permetterà al fruitore di intensificare la propria visione della cose nonché la propria esistenza, costituendo appunto l'opera un arricchimento esperienziale.
NOTE
1
G. Steiner, Vere presenze, trad. it. di Claude Beguin, Garzanti, 1998.
2
Focillon H., Vie des formes, Paris, 1934, trad.it. Vita delle forme, S. Bettini, Torino, 1972.
3
D'Angelo P., Estetismo, ed., Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 203.
4
Baudelaire C., Opere, a cura di G. Roboni e G. Montesanto, Milano, Mondadori, 1996, p. 708.
5
Ibidem, p. 709.
|