Un concetto tanto semplice, quello del "bello", quanto variabile con il passare del tempo. Soprattutto dal punto di vista semantico: per un uomo dell'antica Grecia, kalòs significava soprattutto "valoroso", "giusto", "buono", per noi oggi è un aggettivo riferito principalmente al campo estetico. Parlando di un'opera d'arte, invece, i parametri di bellezza sono rimasti simili nel corso dei secoli: una scultura, per essere "bella", dovrà rispondere a determinati canoni di proporzione, un ritratto dovrà avere invece la giusta introspezione psicologica, per fare qualche esempio.
La mostra in corso a Mantova si propone di ripartire dalla nascita di questo concetto, attraverso capolavori del mondo antico. Al centro di tutto c'è sempre la Grecia, anche e soprattutto quando è protagonista invisibile: sono pochi gli originali greci che sono scampati a distruzioni o saccheggi, mentre la maggior parte dei capolavori antichi a noi noti sono copie di età romana che dimostrano quanto Roma e il suo impero siano debitori dell'arte greca.
Il curatore, d'altronde, è Salvatore Settis, autore di importanti studi sulla rielaborazione dell'arte greca nelle epoche successive, come la collana in tre volumi Memoria dell'antico nell'arte italiana uscita per i tipi Einaudi ormai 20 anni fa, e il più recente Futuro del classico che esplora al contrario le possibili "diramazioni" che può intraprendere un'immagine classica in contesti moderni completamente diversi.
«Non ho rimpianti» è stato il primo commento "a caldo" di Settis all'inaugurazione della mostra. «Quello che non siamo riusciti ad avere è pari al 10% del totale di richieste. Tutti gli altri direttori dei musei, si sono convinti infatti della bontà del progetto». Progetto che sembrava "impossibile" agli stessi curatori, finché i tanti «no» si sono trasformati in «sì». Per il curatore «è una mostra che racconta, non è né un manuale, né una successione cronologica di opere. Vogliamo piuttosto capire perché l'arte greca è diventata classica, e perché quando diciamo "bello", la nostra mente corre subito all'arte greca. E non è un caso che un poeta antico come Marziale, quando dice "originale", usa il termine "archetypum"».
Anche il contesto espositivo è quanto mai pertinente. Mantova fu una delle capitali del Rinascimento grazie al mecenatismo dei Gonzaga: proprio uno dei pezzi in mostra è la copia cinquecentesca di una celebre scultura antica, l'Adorante, un bronzo greco scoperto a Rodi nel 1503. «Isabella d'Este fece di tutto per averlo - ha raccontato Settis - ma la scultura finì a Venezia. Dopo varie vicissitudini, nel 1604 arrivò proprio a Mantova, ma 25 anni dopo fu venduta al re d'Inghilterra con tutto il resto della collezione Gonzaga. Finita in Francia, si trova ora a Berlino. Vorrei che chi visitasse la mostra, si sentisse come quella grande collezionista che è stata Isabella, che non riuscì mai a possedere tante statue come quelle che possiamo ammirare oggi per una serie di motivi, soprattutto economici, e poi a causa della concorrenza di altri collezionisti».
E veniamo alla mostra: 120 pezzi scelti tra sculture, bassorilievi, affreschi staccati, vasi e ceramiche. Il percorso si snoda all'interno di Palazzo Te, progettato e costruito da Giulio Romano nel decennio 1525-'35 come esplicito richiamo alle architetture classiche, dal ninfeo che fa da sontuosa "chiusura" scenografica del giardino alle ampie sale interne decorate con grottesche o affreschi che rimandano alla mitologia greco-romana. La prima sezione documenta la presenza dei Greci in Italia dal VII secolo a.C.: nell'antica Magna Grecia, le principali testimonianze sono affidate a teste di kouroi e crateri (non sono pervenuti, per motivi tecnici, i due capolavori del Satiro di Mazara del Vallo e l'Auriga di Mozia). La seconda sezione si apre all'insegna del celebre passo di Orazio, «Una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori»: qui le opere esposte sono davvero famose, dalla Testa colossale di Atena prestata dai Musei Vaticani, alla Niobide del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, dal Volto d'Avorio recentemente scoperto, alle copie frammentarie di Discoboli e Dorifori. Nomi, questi ultimi, che rievocano immediatamente immagini divenute veri e propri archetipi dell'arte occidentale.
La seconda parte della mostra è allestita nelle fruttiere, e qui lo spazio si fa ancora più sontuoso e scenografico: tendaggi neri e luci apposite fanno risaltare le forme delle sculture esposte. Si possono ammirare, tra le tante opere, l'Afrodite Callipige dalla collezione Farnese del museo archeologico di Napoli, il celebre frammento di affresco che raffigura Medea da Ercolano, i busti di filosofi e scrittori (Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone e Aristotele) dai Musei Capitolini, fino alla doppia visione dei due Spinari. Il famosissimo ragazzino che si toglie la spina dal piede è stato raffigurato in due versioni: la più nota, in bronzo, è una delle opere più famose dei Musei Capitolini, mentre una seconda versione in marmo del primo secolo a.C. è conservata a Modena. Le due sculture sono state poste fianco a fianco, creando un effetto a specchio di grande suggestione per il contrasto tra il bianco candore marmoreo e il bronzo annerito. La mostra prosegue tra falsi antichi (non manca l'encausto con Giove e Ganimede, il celebre falso opera di Anton Raphael Mengs per ingannare l'amico Winckelmann) e importanti ricuperi: l'ultimo pezzo è il Vaso di Eufronio riportato in Italia l'anno scorso, a suggellare un percorso a ritroso nel mondo antico.
Qualche ultima, breve riflessione. C'è chi si è chiesto a cosa servano mostre del genere, ritenute compilative, o peggio, dannose per il trasporto delle opere stesse. In definitiva, di mostre archeologiche di questo tipo non se ne può più, come d'altronde analoghe esposizioni d'arte moderna (vedi le due, pressoché identiche, sull'ultima fase di Tiziano aperte l'anno scorso prima a Belluno poi a Venezia, ciascuna curata da un comitato scientifico diverso, con un catalogo a parte e un titolo differente). Settis troppo warburghiano o post winckelmaniano ? In effetti, l'arte antica viene filtrata dai nostri occhi moderni attraverso il bianco delle statue e la frammentarietà delle pitture, quando riescono a giungere ai nostri giorni. La nostra visione sarà - purtroppo - sempre parziale e incompleta: quello che vediamo e che ci è rimasto non è molto in confronto alle premesse (basti pensare a solo due meraviglie del mondo antico, come lo Zeus di Olimpia o il Colosso di Rodi !) Non ci resta dunque che piangere, come nel celebre disegno di Füssli ?
In fondo, di mostre così se ne sarebbero potute fare altre, con altri titoli e altre opere, che tanto nei nostri musei archeologici abbondano. Eppure, rimango dell'idea che iniziative del genere siano senz'altro necessarie. Oggi le esposizioni tendono ad essere o troppo settoriali - quando riguardano scavi o restauri - con un linguaggio da addetti ai lavori, o troppo generiche. La forza del bello parte invece da un'idea, giusta o sbagliata che sia, e la porta avanti con forza, attraverso una selezione di pezzi ovviamente parziale, ma che può fare tranquillamente a meno di un'opera come il Satiro di Mazara che ha fatto realmente il giro del mondo negli ultimi tempi. E può senz'altro servire a ricordare quali sono le radici dell'arte italiana ed occidentale: spinge anche a riflettere su come mai oggi alcune opere d'arte contemporanea valgano quasi il triplo rispetto a sculture realizzate oltre un millennio prima e pervenuteci quasi per miracolo, probabilmente per un generale disinteresse nei confronti dell'arte antica, oggi troppo difficile da reperire e quindi fuori dal mercato.
Bisogna sempre ripartire dalle radici, sembrano dirci i curatori. E uscendo da Palazzo Te, non si può non essere d'accordo.
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