Sabato 24 maggio 2008 si è tenuta la conferenza stampa per l'apertura di una mostra antologica del maestro Antonio Bueno, figura interessante e per certi versi radical-anarchica dell'arte del Novecento. Nato nel 1918, era di origine spagnola, ma italiano di adozione; divenne però veramente italiano solo nel 1970, dopo un lunghissimo iter burocratico: infatti, per ben due volte, nel 1956 e nel 1965, la sua richiesta fu respinta perché sull'artista gravava ancora l'assurda accusa del periodo fascista che lo aveva schedato come "sovversivo" e che gli impediva di godere dei diritti civili e politici fondamentali: dall'insegnare nelle accademie al partecipare ad esposizioni internazionali al fianco degli altri espositori italiani. Ha vissuto soprattutto in Toscana dal 1940 fino al 1984, anno della sua morte a Fiesole (per ulteriori note biografiche si rimanda al sito www.antoniobueno.it).
È stato un artista ribelle, che non ha mai amato il conformismo e che ha fatto della sperimentazione una ragion d'essere. Molti lo hanno definito "quello dei bambolotti" per via dei volti paffuti delle sue figure, dall'aria un po' imbambolata e dallo sguardo fisso e vuoto: ma questa esposizione vuole essere, oltre che un omaggio, la ricostruzione storica del percorso di questo artista che non ha avuto, se non in parte, i meriti che gli sarebbero spettati in vita.
La fortuna di vedere un'antologica ci aiuta a ripercorrere l'evoluzione del Maestro: l'allestimento nelle sei sale del Museo al Santo ci consente di accostare e percorrere le epoche fondamentali della sua opera, anche grazie ai pannelli che sintetizzano gli eventi fondamentali: 1935-1942, Da Parigi al primo periodo italiano; 1947-1949, I Pittori moderni della Realtà; 1952-1959, Il Periodo Metafisico delle Pipe di gesso; 1960-1968, Il Periodo del "Grupppo'70"; 1978-1984, I d'après. La mostra è stata fortemente voluta dal Comune di Padova e dall'Assessorato alla Cultura nell'ambito di una rassegna che la città sta facendo su alcuni grandi Maestri del '900.
Vedendo gli stupendi autoritratti e le nature morte degli anni '40, quello che rimanda di più, secondo noi, al suo amore per la pittura rinascimentale e fiamminga è il Ritratto di Sonia Bueno del 1948, che ricorda quella meticolosa, precisa pennellata, quella ricerca minuziosa ed infinita che vuol dire perfezione nei dettagli e dedizione al particolare. C'è una precisione che rasenta la perfezione, un modo di far pittura nuovo, ma usando modelli antichi, una rivisitazione del passato.
Gli anni 50' furono per Antonio Bueno la stagione delle "pipe"; scompare la figura umana, ma certe posizioni delle sue pipe possono evocare figure, spiriti umani, in una specie di compromesso tra figurazione e astrazione: come in Pipe del 1956, pipe non per fumare ma considerate "oggetti" da amare, toccare, scomporre, allineare in mille modi. Su un fondo rosso le pipe di gesso bianche spiccano eleganti e femminee.
Questa parentesi neometafisica finirà presto perché un altro aspetto della sua ricerca si impone: il suo è un continuo bisogno di rinnovarsi e di ricominciare tutto da capo; in questo senso significativo è il passaggio dal quadro Cimitero di pipe alla serie di Impronte degli anni '60.
Omaggio a Sylvano Bussotti del 1967 è una tavola di color indefinito, dall'ocra, al bianco, al rosa, raffigurante due donne identiche con la mano destra poggiata sul cuore-petto, con le bocche aperte in una specie di "Oh"; dalla donna di sinistra esce una nuvoletta dove, a mo' di fumetto, c'è scritto: un oh sempre rauco ! insieme a un pentagramma con note che scivolano giù. Questo ironico e divertente quadro è dedicato a quella figura originale che è Bussotti e che, nel panorama della musica contemporanea, ha assunto sempre un atteggiamento eccentrico. Forse proprio per questo Antonio Bueno ha visto in lui il tipo della personalità multiforme e poliedrica che vuol percorrere le molteplici e complesse strade dell'arte e della cultura. In questo quadro gli fa omaggio proprio perché sa che può farlo, perché solo lui è capace di intenderlo, per le affinità elettive che li legano.
Un altro quadro di questa sala che ci ha colpito è quello dal significativo titolo Contro il logorio dell'avanguardia moderna, del 1965. Qui l'ironia è alla sua massima potenza, ma è accompagnata anche da una cruda visione della realtà. Il quadro si può scomporre in due settori: uno superiore ed uno inferiore, divisi da una specie di riquadro o panca di legno, quasi a significare che la separazione non è altro che una simbolica rappresentazione del vivere quotidiano. L'artista fa dire alla terza delle tre donne raffigurate che la super-avanguardia fa sempre bene, ma bisogna anche conciliare, stare con i piedi per terra nel mondo reale, che è suggerito dalla parte sottostante. L'arte deve anche dare da "mangiare" all'artista e alla sua famiglia (rappresentata da "rosette" di pane farcite di salame): quindi se si vuol vivere si deve arrivare ad un compromesso.
L'opera, se da una parte vuol dare un messaggio (in)diretto a quel commercio che gallerie e critici fanno dell'arte per cui un artista viene creato, portato ed imposto, dall'altra vuol dire che in qualche modo l'artista si deve piegare alle richieste del mondo, quello che dà grande importanza all'apparire, al mostrarsi. Ricordo che, non a caso, a Bueno mancò sempre un critico che si adoperasse fino in fondo per promuoverlo al grande pubblico; lasciò il "Gruppo '70 e così l'avanguardia. Significativa è la frase tratta da una lettera aperta, del dicembre del '68, indirizzata a Sergio Salvi: «[...] la mia attuale insofferenza nei confronti dell'avanguardia, insofferenza che mi porta, come sai, a definirmi addirittura "neoretroguardista", dimostra soprattutto quanto io sia in realtà - nonostante i miei trascorsi in mezzo a certe esperienze "di punta" - un incurabile romantico. Non è infatti soltanto la perfezione delle opere di tanti artisti "neosperimentali" che mi è venuta a noia, è il pensiero stesso che a produrle siano, appunto, in tanti».
Nel quadro la Maternità del 1969 spiccano due figure su un fondo nero lucente: una madre di profilo e una bambina che guarda avanti. Ci colpisce di più questo quadro che l'altra maternità del '76 raffigurante una madre, nella stessa posizione, ma con il figlio maschio vestito da marinaretto. Il fondo nero della Maternità del '69, forse perché dipinta per prima, la avvolge in quel mistero ed oscurità che solo il colore nero riesce a sintetizzare, e che può rappresentare le ansie ed angosce di una madre nel mettere al mondo una creatura: lo sguardo materno si perde in uno spazio e in un tempo che va oltre la figlia, che guarda al di là della genitorialità, verso un domani ancora da costruire.
Questo ritorno alla figurazione, con pitture dall'artista chiamate "neokitsch", "neopassatiste", "neoromantiche", lo riporta soprattutto al ritratto. Bueno vi si dedica incessantemente, con quel suo caratteristico ed inconfondibile stile che lo accompagnerà per sempre. Uno stile difficile da definire: gentile, garbato, fine, aggraziato, pulito, accurato; è forse un voluto ritorno alla semplicità, alla purezza ?
La moltitudine di personaggi, dal torero al carabiniere (e ci viene in mente subito che potrebbe essere il carabiniere di Pinocchio), dalla pianista, alla fanciulla bionda, all'indovina e il pompiere, e ancora il pompiere e la Venere di Tiziano, al marinaretto pel di carota, fino ad arrivare alle serie di minimuseo, ne sono una conferma.
Figura con cappello, serie minimuseo, 1980: tante "piccole" donne assieme in un unico assemblaggio, come a significare che l'opera non ha bisogno di grandi misure; anche un mini-micro quadro può rappresentare tutto un mondo ed è proprio vero quello che ha detto Philippe Daverio in conferenza stampa: I dipinti non hanno una dimensione fisica, ma mentale.
Ci sono poi i d'après, che sono delle rivisitazioni ora sfacciate, ora veri e propri omaggi ai "grandi": da Picasso a Klee, a Seraut ad Ingres d'après a Canova. Tra essi spicca il D'après De Chirico del 1978.
Nella presentazione Philippe Daverio, che ha curato la Mostra, ha ripercorso e allargato la presentazione di Bueno e ne ha parlato come di un fenomeno "bizzarro", perché insieme al fratello Xavier, ha creato una genia di personaggi, di "pennellate" interessanti. Ha definito Antonio come un artista "radicale", che non ha amato la pittura commerciale perché in lui ha sempre abitato uno spirito d'avanguardia, ribelle e in qualche modo precursore del tempo in quell'Italia piccolo-borghese postbellica in cui predominavano non i valori ma la banalità generalizzata (oseremmo dire: come nell'Italia di adesso ?). Ha anche aggiungendo con rammarico che i quadri hanno un "destino" e se un tempo c'erano principi e poeti oggi, purtroppo, i principi, coloro che dialogavano con la storia, sono estinti e i poeti sono tutti morti. Ma forse, per non lasciarci interdetti, Daverio afferma anche di intravvedere da poco una realtà sotterranea dove c'è ancora la passione per la sperimentazione.
LA MOSTRA
MOSTRA ANTOLOGICA di
ANTONIO BUENO
Padova, Museo al Santo, piazza del Santo
dal 25 maggio al 3 settembre 2008
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