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La spiritualità nell'arte  
Marco di Mauro
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 3 Settembre 2008, n. 504
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Relazione presentata all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, nell'ambito della conferenza Percorsi dell'arte contemporanea attraverso quelli dell'arte di ieri, organizzata da Teresa Leone e Mariella D'Elia in collaborazione con l'associazione culturale "Antares".

Vorrei aprire questa conversazione con un tema che mi è molto caro: la spiritualità nell'arte, che è anche il filo conduttore del mio ultimo libro, La giovane arte in Campania. La dimensione spirituale è da sempre connaturata all'opera d'arte, sin dalla Venere di Willendorf, tuttavia è difficile dire quando l'uomo ne abbia acquisito la consapevolezza. Probabilmente, il mito di Orfeo ed Euridice è la prima testimonianza di una concezione spirituale dell'arte, che acquista persino un potere iniziatico, quale veicolo per evadere dalla condizione immanente e ascendere alla dimensione dello spirito. È grazie ai suoi versi, cantati e musicati con la cetra, che Orfeo ottiene da Plutone e Proserpina il permesso di accedere all'Ade.

La consapevolezza del valore spirituale dell'arte viene esplicitata nel XII secolo da Suger, l'abate di Saint Denis, il quale descrive con accenti mistici gli oggetti della sua collezione e giustifica la sua passione per quelle cose materiali riconoscendo loro un potere iniziatico: attraverso la contemplazione della bellezza il fedele può accedere alla sfera spirituale.

Ora passiamo in rassegna alcune opere in cui la dimensione spirituale è più che mai rilevante. Ad aprire la serie è la celebre Testa di guerriero di Skopas, che proviene dal frontone ovest del tempio di Athena Alea a Tegea. Straordinaria è l'intensità della testa, dalla solida struttura, con i muscoli contratti, le labbra socchiuse, l'elmo che trattiene a fatica il movimento dei capelli, gli occhi profondamente incassati nelle orbite, come a voler accentuare il pathos attraverso il chiaroscuro. Lo scultore greco piega la descrizione anatomica alle esigenze di rappresentazione dello spirito, quale dominante nuova della forma di rappresentazione. L'opera di Skopas testimonia che l'arte greca non è solo mimesis - condannata da Platone in quanto copia superficiale dell'essere, situata nel gradino più basso della gerarchia ontologica - ma è in grado di esprimere valori profondi, che prescindono dal dato sensibile.

Se l'arte laica propone una verità immanente, che si manifesta nell'ardore di un guerriero, nella passione di un amante o nella tenacia di un atleta, invece l'arte cristiana vuol esprimere una verità trascendente, che esula dalla corporeità. In proposito vorrei illustrare due capolavori del Rinascimento: la Madonna del latte di Jean Fouquet e l'Annunciazione di Beato Angelico.

La Madonna del latte può quasi ritenersi un dipinto astratto, per la geometrica definizione dei volumi, l'uso innaturale del colore, la purezza del volto aristocratico, con le labbra brevi e serrate, le palpebre calate come a voler sottolineare l'interiorità dello sguardo, che si dirige non tanto al Bambino, quanto all'assoluto che è dentro di sé.

La sferica mammella della Madonna, che deborda generosa dall'abito e si mostra impudica all'osservatore, evoca i seni idealizzati delle matres capuane o quelli dipinti, nel XX secolo, dai pittori sintetisti o metafisici (si veda per esempio Le Luxe di Matisse). Anche gli angeli, dipinti di rosso carminio o blu oltremarino, come quelli del Maestro di Jacques Coeur, sono volutamente innaturali. Si potrebbe credere che Fouquet abbia ereditato dal Medioevo la tendenza a idealizzare le figure, ma la sua pittura - penso al Ritratto del buffone Gonnella o alle miniature del libro d'ore di Etienne Chevalier, in cui figura Parigi con la cattedrale di Notre Dame - ci mostra al contrario un'attitudine alla resa naturalistica di personaggi e ambienti. Allora dobbiamo concludere che il maestro di Tours, nella Madonna del latte, abbia voluto esaltare il lato spirituale dell'evento mediante la resa innaturale di forme e colori.

Veniamo adesso alla suggestiva Annunciazione di Beato Angelico, conservata nel Museo di San Marco a Firenze, che comunica una sensazione di poesia e di misticismo. La scena è inquadrata dai portici di una casa rinascimentale, eppure lo sguardo è assorbito dalle figure in primo piano. Gli archi e le colonne, lungi dall'essere fattori di distrazione, inquadrano le figure e definiscono la spazio rarefatto in cui si consuma l'evento. Le cromie delicate e opalescenti creano un clima di accesa spiritualità, di attutite vibrazioni interne, di silenzio colmo di una musica interiore, generando un senso di aspettazione e di intimità.

La Vergine genuflessa accoglie l'angelo con gli occhi trepidi, le mani incrociate sul petto, lo sguardo attonito e smarrito di un'umile fanciulla alle prese con un evento che le appare superiore alle proprie facoltà. Nella ritrosia della Vergine possiamo leggere il segno di una profonda umanità, mentre l'angelo dai boccoli biondi, avvolto nei panneggi della sua veste, incarna la dimensione del divino. Lo stesso panneggio - libero e scomposto quello della Vergine, ritmico e lineare quello dell'angelo - esprime l'incontro tra il finito e l'infinito, che si fondono nella materia soffice e nelle cromie delicate di Fra Giovanni.

Più tardi i pittori della Controriforma offrono una diversa interpretazione del tema. Vediamo, ad esempio, l'Annunciazione di Giovan Vincenzo Forli nella chiesa della Croce di Lucca a Napoli. Qui la spiritualità è congelata in una rappresentazione priva di tensioni, di spasimi, di slanci emotivi. La Vergine non sembra affatto sgomenta o impaurita dall'apparizione dell'angelo. L'evento si consuma in un clima sereno e pacato, senza alcun elemento che possa turbare o distogliere l'attenzione di chi osserva. La scena è occupata dalle figure monumentali della Vergine e dall'angelo, senza nulla che possa distogliere l'attenzione.

Nel rigore di questa iconografia sembrano rifluire i pensieri di Ignazio di Loyola, il quale, nei suoi Esercizi spirituali, scrive: «Chi propone un metodo per meditare o contemplare, deve esporre fedelmente il soggetto della meditazione o della contemplazione, limitandosi a toccare i vari punti con una breve e semplice spiegazione. Così chi contempla afferra subito il vero senso del mistero».

Adesso ritorniamo sulla produzione laica con due capolavori dell'impressionismo: Gelata bianca di Camille Pissarro e Rue Montorgueil imbandierata di Claude Monet.
In Gelata bianca - a suo tempo stroncata da Le Figaro per l'uso innaturale del colore - il paesaggio innevato sottende una rappresentazione interiore, che emana una sensazione di silenzio e di pienezza, di dolcezza e di intimità, ma anche di chiusura, di distanza tra sé e il mondo. La natura domina la scena, mentre la figura umana - un uomo solo, col suo carico di legna - passa quasi inosservata. La solitudine dell'uomo non allude a una condizione di isolamento fisico, bensì ad un bisogno di pace interiore, di ripiegamento in sé stesso, che si ritrova in molta pittura dell'Ottocento.

Nelle vibranti pennellate possiamo leggere una sincera proiezione delle vibrazioni dell'interiorità,  che scuotono da dentro la mano trepida dell'artista. In Rue Montorgueil imbandierata, Claude Monet restituisce il lato umano dell'evento, lo spirito di una lotta combattuta e sofferta dai parigini, fino alla vittoria del 30 giugno 1878. Nella concitazione della scena, animata da uno sventolare di bandiere sopra una folla festante, si può leggere una percezione intensa, commossa e risonante dell'evento, una percezione che da esterna si fa interna, diventa apprensione e comprensione della storia. L'artista "penetra" nell'evento, vi partecipa con entusiasmo e ci fa entrare non già nel luogo fisico e contingente, ma nella sua metafora umana. La partecipazione di Monet ai destini del popolo richiama la pittura napoletana nel '600, in particolare quella di Micco Spadaro. La differenza è nel contesto storico: il popolo francese di fine '800 vuole sovvertire l'ordine sociale e rivendica i propri diritti con piena consapevolezza; invece il popolo napoletano del '600, autore della rivolta di Masaniello, agisce in modo impulsivo, passionale, senza prefiggersi una meta. Il grido dei "lazzari" è: «Viva il re, abbasso lo malgoverno».

L'analisi delle opere di Pissarro e Monet dimostra quanto sia errata quella visione romantica e superficiale dell'Impressionismo, quale pittura attenta ai valori cromatici e luministici, ma quasi indifferente ai soggetti e al loro sentire. La critica più recente ha capovolto questa percezione dell'Impressionismo, rivelando quanto la pittura di Monet o Renoir sia intrisa di spiritualità.

Il tema della spiritualità dell'arte assume un ruolo centrale nelle avanguardie artistiche del primo '900, a partire dall'Espressionismo. In proposito si ricorda il saggio Dello spirituale nell'arte di Kandinskij, ma anche il volume Thoughts Forms di Annie Besant e Charles Leadbeater che, nell'annuncio di una nuova età dello spirito, ispirò la poetica di Kandinskij.

L'ideale espresso dalle avanguardie storiche è messo radicalmente in discussione dal manifesto del 3 gennaio 1967 firmato da Toroni, Buren, Mosset e Parmentier in occasione del Salon de la Jeune Peinture di Parigi. Attraverso un metodo rigoroso e sistematico, i pittori "analitici" rilevano l'estraneità della pittura all'espressione della soggettività, la sua assoluta lontananza dalla narrazione di un'esperienza vissuta o dalla rappresentazione di una realtà esterna. Le impronte di Niele Toroni, ad esempio, esprimono unicamente la propria materialità e tendono al grado zero della sensibilità.

Oggi si assiste ad un'inversione di tendenza rispetto alle correnti artistiche degli anni '70 e '80. Si assiste al recupero di una concezione classica dell'opera d'arte, quale espressione di un contenuto alto, pregnante, universale, mentre la pittura analitica e la minimal art sembrano aver esaurito la propria carica innovativa. Questo ritorno al significante, che conduce ad una riaffermazione della spiritualità dell'arte, è ben rappresentato da noti artisti contemporanei, da Kapoor a Kiefer, da Weiner alla Horn.

Prendiamo ad esempio le due tavole di Anselm Kiefer esposte a Capodimonte: Mare nostrum e Hero und Leander. Sono due opere sconvolgenti, in cui l'artista tedesco esalta il valore di una vita spinta all'estremo, oltre i limiti dell'umano, con esplicito richiamo alle Odi navali di Gabriele D'Annunzio. Hero und Leander evoca il tragico episodio del naufragio di Leandro, travolto dalle onde torbide dell'Ellesponto mentre cerca di raggiungere la sua amata Ero. Le onde del mare sono le stesse che scuotono il petto dei due amanti, disposti all'estremo sacrificio per essere uniti fino all'ultima sorte.
Anche in Mare nostrum, le navi di piombo travolte dalla bufera esaltano la forza sublime delle onde, efficacemente resa con una pittura densa e materica. Il tema del naufragio evoca il superuomo di D'Annunzio o Marinetti, che «scuote le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli». Qui la pittura diventa pulsante, anima e corpo, fusi nella dimensione unica dell'opera d'arte.

Ma la spiritualità non appartiene solo alla pittura, può rilevarsi anche in opere concettuali. Ricordo l'installazione testuale di Lawrence Weiner, dal titolo If Silence Was, presentata nel 2006 alla galleria Artiaco. L'installazione era giocata sull'associazione di frasi incompiute e linee rosse, che invitavano il pubblico ad interrogarsi sulla natura e la bellezza formale del silenzio. Sul fondo della sala, la scritta «If Silence Was» inquadrata da rette orizzontali alludeva ad una condizione di silenzio assoluto e originario. Alle pareti, incroci di linee curve, simili alle ali di una rondine, alludevano a situazioni di silenzio costruito, prodotto dall'uomo con la sua incessante attività. Una chiave di lettura dell'opera fu data dallo stesso Weiner, che mi disse: «Prima che l'albero nascesse era silenzio, dopo che l'albero è stato tagliato è di nuovo silenzio, ma è un silenzio costruito, il risultato di un processo». La stessa metafora mi sembra che possa applicarsi all'uomo: prima che uscisse dall'utero materno era silenzio; quando la società gli ha imposto di tacere è di nuovo silenzio, ma non è più un silenzio naturale, è l'effetto di una costrizione.





 

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