Blosio Palladio
(1470 ca - 1550), erudito e poeta, costituì un riferimento culturale per oltre
un quarantennio nella Roma di Giulio II, Leone X, Clemente VII, Paolo III e
Giulio III. La stima di cui godeva presso tali pontefici è evidenziata dal
fatto di essere stato nominato secretarius domesticus, ovvero segretario
dei Brevi. Originario di Collevecchio in Sabina, ma residente a Roma da anni,
rappresentò l'uomo perfetto del Rinascimento, in cui le doti culturali si
abbinavano a quelle morali: Blosio erat summae doctrinae, lepidae
eloquentiae, morum amantissimus, atque omnis leporis candidissimus [1] .
Alla sua biografia la critica letteraria ha rivolto un certo interesse nei
primi decenni del secolo scorso, così da poterne seguire le tracce dalla
pubblicazione del Suburbanum Augustini Chisii, dedicato alla villa
Farnesina alla Lungara ed edito nel 1512, sino alla bolla d'indizione del Concilio
di Trento, o a quella di fondazione della Compagnia di Gesù, da lui redatte [2] ,
seguendo il percorso della cultura romana nei suoi compromessi tra il
classicismo del primo quarto di secolo e il nuovo clima instauratosi dopo il
trauma della Riforma e quello, certo più violento, del Sacco. Il nome del
Palladio ricorre nei più grossi eventi letterari del tempo: un suo carme apre i
Coryciana, raccolta di versi da lui stesso curata per l'umanista
lussemburghese Jan Goritz; l'artista portoghese Francisco de Hollanda, nei suoi
Dialoghi, gli riconosce il ruolo di introduttore alle dotte ed esclusive
conversazioni tenute da Michelangelo e da Vittoria Colonna a San Silvestro al
Quirinale.
Il Suburbanum Augustini Chisii, uscito
dai torchi di Giacomo Mazochi, libraio dell'Accademia Romana, il 27 gennaio
1512, è un componimento di 475 esametri, il cui oggetto è il nuovissimo
complesso che, tra il 1505 e il 1510 circa, Peruzzi [3] prima e Raffaello poi sono
chiamati a realizzare a Roma oltre il Tevere, alle pendici del Gianicolo, per
il gran mercante e banchiere senese Agostino Chigi: palazzo, stalle, padiglione
per banchetti [4] ,
corti, giardino, frutteto, con statue, fontane, vasche e un elaborato sistema
di adduzione, raccolta e distribuzione dell'acqua fluviale. In realtà la
descrizione s'intreccia, e si fonde in maniera inestricabile, con l'evocazione
di un ambiente fantastico carico di riferimenti alla mitologia e all'antico [5] . Ma il fine di Blosio è
proprio questo: suscitare con la parola l'ordito di immagini e sensazioni che
si capterebbero nel muoversi senza un programma prestabilito in un luogo che è,
allo stesso tempo, un'entità concreta e la proiezione di un ideale. L'Ars
rhetorica dell'umanista si salda con l'arte edificatoria rinascimentale. Il
componimento poetico vero e proprio è preceduto da un'introduzione dell'autore
che contiene la dedica dell'opera ad Agostino Chigi. Dalle parole di questa
dedica si potrebbe forse arrivare alla congettura che nel 1512 il complesso non
era finito: «In verità io vorrei che tu non ti meravigliassi neppure del fatto
che io abbia cantato molto delle cose che sono nei giardini, come la fonte e i
frutteti, cose che già sono cominciate e ormai attese, come se fossero
terminate…Ma non appena io compresi la tua grandezza e liberalità d'animo, non
esitai a inserire nella trama dei versi quelle cose che tu hai stabilito come
future, come se già esistessero…». Valida è l'ipotesi che Blosio stesso abbia
contribuito quindi alla formulazione del programma pertinente la creazione del
giardino, la cui derivazione letteraria è facilmente intuibile.
Le perplessità che con tanta chiarezza Erasmo
da Rotterdam avanza nel suo Dialogo Ciceronianus (scritto nel 1527 e
apparso nel 1528) [6] ,
in cui viene indicata la frattura insanabile apertasi tra il cristianesimo e la
classicità e si additano come follia l'attenzione esclusiva ai valori estetici
e il continuo riferirsi agli antichi, non vengono sentite con altrettanta
preoccupazione in molti dei circoli legati alla corte pontificia. La reazione
più diffusa alla terribile lacerazione del 1527 non sarà di ripensamento o di
abbandono della cultura classica, ma consisterà piuttosto nella ricerca di una
continuità, nel tentativo di riallacciarsi alla produzione precedente. Scrive
Pierio Valeriano In Blosij Palladij Symposium post Romam Restitutam:
“Reliquiae immanis Germani, immitis Iberi / Vivimus et nondum funditus
occidimus. / Extintas siquidem Blosius nunc suscitat aras, / Instauratque tuos
docta Minerva Choros” [7] .
I “cori di Minerva”, dispersi per la fuga o la prigionia dei loro membri, o
semplicemente resi inattivi dal senso d'incertezza seguito all'invasione di
Roma, risorgono quindi, secondo l'umanista veneto, proprio per l'iniziativa di
Blosio. Uno dei luoghi destinati alle conversazioni di soggetto letterario e
antiquario e, insieme, ai piaceri meno intellettuali del cibo e del vino, fu
certamente la vigna con il casino che i documenti nominano “Blosiana” [fig.1].
Situata nella zona della Valle dell'Inferno [8] alle pendici di Monte
Mario, sulla sommità di una collina aperta alla vista del Vaticano, la vigna
conservava ancora, all'inizio del Novecento, i segni della struttura
originaria. Dalle numerose lettere,
ancor oggi conservate [9] , scritte a Blosio Palladio
da un membro della sua familia, il “servitor” Pietro Paulo, si possono
ricavare utili informazioni circa le molteplici opere di sistemazione,
soprattutto pertinenti il giardino della stessa. Inoltre vi è una lettera di
Jacopo Sadoleto a Blosio Palladio che testimonierebbe il fatto che i lavori
della villa fossero iniziati sin dal 1531. Jacopo Sadoleto, pieno di nostalgia
per la propria vigna del Quirinale, scrive dal proprio vescovato di Carpentras:
«Tutto
il giorno mi vien detto delle vostre vigne e de vostri edificii e come voi
onorevolmente impazzate in essi: di che io godo molto perché mi veggo occasione
di vendicarmi di voi con ridermi de la vostra frenesia, si come voi vi ridevate
de la mia. Ma poiché altrimenti non posso venire a godere la parte mia, almen
vi prego che quando vi trovate li insieme con gli amici nostri comuni,
introduchiate a le volte ragionamenti di me conservando nell'animo loro la
ricordanza di me si come sono certissimo che voi la conservate nel vostro» [10] .
In una curiosa
lettera in versi, Raffaello, uomo di fiducia cui il Palladio affidava
evidentemente i suoi averi durante i frequenti viaggi, scrive, citando la
“Blosiana”, che “tien la vigna salva e la fontana” e ancora suggerisce in tono
scherzoso: “serbate un po' nella sacca per farne adorne poi le nove celle” [11] .
Questa lettera può far supporre che, alla data 31 agosto 1541, esistessero
nella villa delle stanze da poco costruite e che ci si proponesse di ornarle
con affreschi, i quali sarebbero quindi stati realizzati nel corso degli anni
Quaranta.
A poco a poco prende corpo tutto il giardino
della villa con le peschiere circondate da alberi, i vialetti di ghiaia, gli
alberi da frutto, le spalliere odorose di rosmarino e di alloro a definire uno
spazio verde gradevolissimo, destinato ad accogliere gli ozi letterari di
Blosio e dei suoi dotti amici. Ad evocare lo stato originario della villa e il
giardino ci soccorrono le parole di un contemporaneo celebre che ebbe stretti
contatti con il Palladio: Girolamo Rorario [12] . Quest'ultimo si estende a
descrivere la “natura naturata” del giardino, attraverso un percorso
ascendente, non tralasciando di ricordare il “gallinaro, fatto di mattoni” e le
“invenzioni” funzionali adottate nella cantina e nelle sue attrezzature;
sicuramente vi è una volontà d'imitazione dell'antichità nei suoi caratteri più
originali del mondo latino, soprattutto in relazione al mondo che Marco Porcio
Catone ha descritto nel De Agricoltura e che più tardi Columella ha
“sistematizzato” nel De re rustica. Il giardino costituiva l'elemento
essenziale della villa di Blosio tanto nelle intenzioni del proprietario quanto
nei risultati. La natura viene
organizzata, ma con mano leggera: si attraversano sentieri soleggiati e larghi,
il boschetto odoroso di limoni, si giunge all'ombra fresca di un piccolo
ninfeo, si è accompagnati dal rumore dell'acqua, continuamente presente in
forme diverse. Non ci sono grossi interventi architettonici, rampe marmoree e
terrazze, le fonti non citano nessuna collezione archeologica, piuttosto
evidenziano la presenza di strutture integrate con discrezione al dato
naturale. Ma il giardino per Blosio è anche agricoltura: l'aspetto produttivo e
utilitaristico della villa ne esalta il valore di luogo destinato a colti e
giocosi conviti, ponendosi in consonanza con i concetti di ciclicità e di connessione
dell'uomo e delle sue attività alle fasi naturali, concetti cari all'antichità
classica. E il tema della natura, dei suoi elementi e della sua ciclicità,
viene considerato anche nell'apparato decorativo del casino [13] . Domenico Gnoli
testimonia l'esistenza, all'inizio del Novecento, di due stanze affrescate
all'interno dell'edificio, una con scene mitologiche e l'altra con i lavori
legati ai mesi [14] .
In realtà il corpus della decorazione originaria doveva essere più
complesso.
Al piano nobile
dovevano essere affrescati almeno tre ambienti, ma due di essi recavano come
unica traccia lo strappo dell'intonaco nella zona alta, operazione effettuata
in epoca imprecisata (probabilmente dopo l'ultima guerra) e per una altrettanto
imprecisata destinazione. Si può ricavare comunque l'idea di una decorazione
sviluppata a fregio, secondo una tipologia ben documentata a Roma, dagli esempi
della Farnesina in poi, qui organizzata in riquadri divisi da erme monocrome
raffiguranti creature silvane. Gli affreschi superstiti sono stati recentemente
oggetto di restauro [15]
e aspettano una ricollocazione che restituisca loro il senso e la continuità
con cui sono stati creati. Prima che gli affreschi venissero staccati per
essere restaurati, Daniela Pagliai [16]
negli anni Ottanta ha avuto modo di vederli e di studiarli nella loro
collocazione originaria: si trovavano in una delle stanze affacciate sul
prospetto ed erano costituiti da dodici scene, tre per ogni parete. La scena
principale è sempre definita da un bordo modanato e le scene laterali sono
inserite in eleganti cornici rosso scuro, pompeiano, orlate di giallo e
arricchite da motivi a grottesche, mascheroni, tralci, sirene. Vi sono
raffigurate le quattro divinità personificanti gli elementi, accompagnate da
miti connessi alla loro figura: Cerere, Nettuno, Giunone e Vulcano. Un tema,
quindi, come quello dei lavori stagionali di cui si ha notizia, legato ai cicli
agricoli, al recupero degli ideali bucolici degli antichi. Gli affreschi sono
stati genericamente attribuiti alla scuola di Perin del Vaga, negli anni Quaranta del Cinquecento,
decennio fortemente segnato dalla presenza dell'artista toscano e della sua
scuola [17] , equipe cui, dopo il
ritorno del maestro da Genova, si “allogavano tutti i lavori di Roma”, racconta
il Vasari [18] .
In effetti Perino passò gli ultimi anni della sua vita a correre da un cantiere
all'altro, sorvegliando il lavoro di schiere di aiuti. Tuttavia negli episodi qualitativamente più
alti del ciclo, come la figura di Giunone [fig.2], si potrebbe individuare la mano
di Prospero Fontana, anche in base a confronti stilistici con altri suoi lavori
contemporanei (Castel Sant'Angelo e camerino dei Continenti in palazzo
Firenze).
Nella villa vi è un altro ambiente decorato,
il cosiddetto padiglione [fig.3]: tutte le pareti e la volta sono dipinte con
una sorta di pergolato da cui discendono piante con uccelli e da cui si aprono
dei paesaggi limpidi e ariosi. Gli uccelli sono resi minuziosamente e traspare
anche un certo gusto narrativo, come nel pappagallo che afferra la lucertola
[fig.4] . Più rovinata è la porzione vicino alla finestra. Qui se ne propone
l'attribuzione, su basi documentarie e stilistiche, ai fratelli Ubertini: una
quietanza del 1544 [19] nomina appunto Antonio
Ubertini, fratello del più noto Francesco, detto il Bachiacca, lodato dal
Vasari soprattutto per la sua abilità nella resa naturalistica di piante,
uccelli e paesaggi, abilità dimostrata nello scrittoio di Cosimo I a Firenze.
Nel padiglione della villa di Blosio, finora mai oggetto di studio, emerge chiaramente
l'idea di voler ricreare negli interni un'ambientazione naturalistica, che ben
si addice all'ideale rinascimentale del piacere di abitare in villa [20] . La quietanza è la seguente:
«Io Feliciano di
Concorezzi [21]
confesso havere receuti da Monsignor Blosio scudi undici et iuli 4 a ragione de
iuli 10 [22]
per V quali sua signoria dieci ne ha rescossi da Messer Prospero de Ferentino
per la mia pensione del Natale del 1543 et juli 14 da Messer Antonio
Ubertini et in fede li ho scritta e sottoscritta la presente de mia propria
mano in questo dì ultimo di settembre 1544
Io Feliciano di
Concorezzi confesso ut sopra».
Antonio Ubertini
(1499-1572) era ricamatore e decoratore, fratello del più noto Francesco
Ubertini detto il Bachiacca (1494-1557), pittore del manierismo fiorentino [23] .
In lode dell'arte di Antonio vi sono dei versi di Benedetto Varchi:
« Antonio, i
tanti, così bei lavoriChe vostra dotta
mano ordisce e tesseLodi v'arrecan
sì chiare, e sì spesseChe piccoli appo
voi sieno i maggiori:chi è, non dico,
tra i più bassi cori,ma fra i più
alti ingegni, il qual credesseche poca seta e
piccol ferro avesseagguagliato il
martel, vinto i colori?Onde superbo, e
pien di gioia parmiL'Arno veder,
che se felice chiami,e dica: i figli
miei m'han fatto bello.I bronzi al gran
Cellin deono: i marmiAl Buonarroto:
al Bacchiacca i ricami:le pietre al
Tasso: al Bronzino il pennello» [24] .
Il padiglione
della villa di Blosio interamente dipinto con paesaggi, piante e uccelli fa sorgere una questione: il Vasari [25]
loda il fratello di Antonio, Francesco, specialmente per la sua capacità di
dipingere piccole figure, soprattutto animali, uccelli e piante («un singolar
talento che egli aveva di ritrarre al vivo ogni sorte di animali») [fig.5]. Per
il Duca Cosimo de'Medici Francesco decorò intorno al 1542-43 lo scrittoio, dove
realizzò una gran quantità di uccelli e piante di rara qualità, condotte a olio
meravigliosamente [fig.6]. Perché non ipotizzare, quindi, una collaborazione
non solo di Antonio, ma anche di Francesco, nella villa di Blosio Palladio? La
quietanza parla solo di Antonio, ma sicuramente l'artista si sarà consultato
con il fratello e aveva ben presente il lavoro di quest'ultimo presso il Duca
Cosimo. Da una parte i due fratelli collaborarono spesso [26] ,
soprattutto presso la corte dei Medici, dirigendo anche un team di
assistenti, dall'altra c'è da dire che Antonio non era soltanto ricamatore. La
France riporta che poco prima del 1529, quando Antonio aveva all'incirca
trent'anni, egli usò il titolo di pittore ( pictore) in un contratto
notarile, in latino, in cui testimoniava che il calzolaio Bartolomeo di
Giovanni di Francesco aveva ricevuto la dote di sua moglie Benedetta [27] .
Quando Antonio s'iscrisse alla gilda dei pittori con suo fratello Francesco nel
1532, egli definì la sua professione come merciaio. Trent'anni dopo, quando la
sua reputazione come tessitore era ormai consolidata, il censimento ducale del
1562 ricorda la sua professione come “dipintore” [28] .
Dunque Antonio praticò le professioni di pittore e di tessitore piuttosto che
comprava e vendeva merci, come tessuti, tinture, lana, seta e filati d'oro,
necessari a praticare queste arti. Egli probabilmente si occupò anche della
produzione di famiglia di tessuti pregiati. I documenti inoltre suggeriscono
che Antonio eseguì dei dipinti sia quando Francesco era in vita sia dopo la sua
morte, e questo fatto necessita di essere considerato attentamente, valutando
le diverse attribuzioni degli eterogenei dipinti al Bachiacca. Quindi Antonio,
a prescindere dalla collaborazione del fratello, probabilmente sarebbe stato in
grado di eseguire la decorazione del padiglione della villa.
Ma veniamo alla
formazione e alla produzione artistica di Francesco, utile a capire anche
quella di Antonio e fondamentale per l'inserimento di quest'ultimo nella corte
medicea. Il primo maestro del Bachiacca [29]
fu il Perugino, di cui era stato allievo già un altro fratello, Baccio, poi
lavorò presso il Franciabigio. L'apprendistato presso la bottega del Perugino
mise in contatto il Bachiacca anche con i modelli nordici, in particolare dei
Paesi Bassi. Insieme ad Andrea del Sarto, Pontormo e Granacci, Bacchiacca prese
parte alla decorazione dell'appartamento nuziale di Giovan Francesco
Borgherini, con le Storie di Giuseppe dell'Antico Testamento. Allora il
Bachiacca aveva circa vent'anni ed era specializzato nella pittura di
paesaggio. Nel 1525 il Bacchiacca si recò a Roma, dove divenne amico di
Benvenuto Cellini e dove ebbe la possibilità di conoscere Giulio Romano e
Francesco Penni, allievi di Raffaello. Ma apprezzò tantissimo anche le opere di
Michelangelo. Tornò a Firenze prima del Sacco e nel 1539 partecipò alla
realizzazione degli apparati per i festeggiamenti delle nozze del Duca Cosimo
con Eleonora di Toledo. Diversi dipinti del Bachiacca di questo periodo
sembrano impiegare le invenzioni di Michelangelo, in corrispondenza di
un effettivo incremento di ammirazione e di richiesta della produzione
michelangiolesca nella Firenze degli anni '30. Per esempio il Bachiacca,
conoscendo anche la predilezione del Duca Cosimo per le invenzioni di
Michelangelo, adottò dei disegni dell'artista di alcune teste divine
degli Uffizi [30] .
Bachiacca lavorava presso la corte dei Medici per 8 scudi al mese, come anche
il fratello Antonio, e le sue opere erano principalmente di carattere
ornamentale, come le Spalliere decorate a grottesche e i cartoni con i Mesi
per gli arazzi realizzati poi dal fiammingo Johannes Rost. Sarà un caso che
anche in una delle stanze della villa di Blosio furono realizzati degli
affreschi con i Mesi, ora perduti? Il Bachiacca inoltre realizzò degli
affreschi nelle grotte dei giardini di Palazzo Pitti [31] ,
la decorazione a grottesche del soffitto a capriate nella terrazza di Palazzo
Vecchio e il già menzionato scrittoio di Cosimo, particolarmente significativo
per il padiglione della villa di Blosio. Lo scrittoio [fig.7] fu decorato tra
il 1542 e il 1543, proprio negli anni in cui Cosimo fece realizzare anche un
orto botanico a Pisa, a ulteriore dimostrazione dei suoi interessi per i naturalia.
Lo scrittoio è stato ricavato dalla facciata di palazzo Vecchio, sotto la
Cappella dei Signori, ed è accessibile da una scalinata al livello del
mezzanino [32] .
È una camera con volta a botte di modeste dimensioni, con una alcova di lettura
illuminata da una piccola finestra che affaccia su piazza della Signoria. La
decorazione del Bachiacca, eseguita con
la tecnica dell'olio su muro e che ricopre l'intera volta, le mura laterali e
l'alcova, è in condizioni precarie, come la maggior parte del colore che è
caduto nel corso dei secoli. Le aree dipinte rimanenti, tuttavia, mostrano
immagini sorprendentemente naturalistiche di piante e animali affiancate dalle
poche scene di paesaggio rimanenti, tutte riconducibili decisamente a uno stile
fiammingo. Sul lato sinistro dell'entrata, entro un medaglione, vi è un
cinghiale selvatico che cammina sulle sue zampe posteriori in un paesaggio,
completamente equipaggiato con un tridente da cacciatore, corno e cane. Questo
ironico capovolgimento di ruoli, con la preda dipinta come un cacciatore,
definisce il tono dell'intera camera come un ambiente in cui il fantastico
incontra il naturalistico. È la sede sia dello studio che dell'immaginazione, e
la pittura di paesaggio di Bachiacca la rende un'ambientazione silvana per le
Muse all'interno del cuore della città di Firenze. In breve lo scrittoio di
Cosimo era uno studiolo rinascimentale basato sulla poetica di Orazio, Virgilio
e l'ultimo Petrarca, in cui viene dato largo spazio alla forza della fantasia,
unita all'amore per la natura, per vivere lo scrittoio anche come un “rifugio”,
locus amoenus. È da notare che vi è la stessa concezione anche in
Blosio. Le lunette della parete più piccola dimostrano reminiscenze dei
paesaggi in stile fiammingo, il loro cielo blu e le loro distanti montagne sono
ancora visibili in alto a destra. Le pareti dell'alcova mostrano una serie di
erbe, pesci, uccelli e insetti minuziosamente resi. Piccole parti rimanenti di
decorazione nelle pareti laterali e nella volta permettono un'incompleta
ricostruzione dell'insieme. Essi mostrano parti di un albero verdeggiante
costituito da festoni popolati con frutti e puttini, dipinti meticolosamente.
Decine di uccelli si nutrono da cornucopie, tutti accuratamente dipinti e
identificabili secondo la loro specie d'appartenenza. L'illustrazione altamente
accurata della flora e della fauna, specialmente ad olio, è stata ampiamente
riconosciuta in Italia come una caratteristica della pittura fiamminga. Oltre
al loro valore estetico, le piante e gli animali del Bachiacca furono anche
riconosciuti come modelli di studio. Benedetto Varchi lodò la decorazione per
questa ragione e ne ha sottolineato la sua utilità per la scienze naturali.
Questa volontà di riprodurre all'interno
un'ambientazione naturale esterna è evidente anche nel cosiddetto padiglione della villa di
Blosio Palladio, dove tutte le pareti e la volta sono dipinte con una sorta di
pergolato da cui discendono piante con uccelli e da cui si aprono dei paesaggi
limpidi e ariosi. È probabile che la quietanza si riferisca a questa
decorazione, che quindi andrebbe datata intorno al 1544, subito dopo la
realizzazione dello scrittoio di Cosimo I. Successivamente, circa un decennio
dopo, il papa Giulio III fece affrescare il portico a emiciclo di villa Giulia
con pergolati popolati da numerosi uccelli, opera di Pietro Venale [33] [fig.8]. Il chiaro intento
era quello di richiamare i giardini della villa [34] . Quindi il padiglione
potrebbe rappresentare una tipologia decorativa fiorentina esportata per la
prima volta a Roma che avrà larga fortuna nella seconda metà del secolo.
Ulteriore dimostrazione di come Blosio fosse a passo con i tempi e seguisse con
interesse le mode e gli sviluppi artistici che si accordassero con la sua
concezione di vita e di arte.
RINGRAZIAMENTI
Ai proff. Alessandro Zuccari e Stefano Colonna, per
avermi seguita con interesse e costanza e per avermi sempre sostenuta e
incoraggiata. Alla dott.ssa Daniela Pagliai per i suggerimenti e
il materiale fotografico relativo agli affreschi prima del restauro. Alla dott.ssa Alda Spotti del Centro Nazionale del
Manoscritto della Biblioteca Nazionale di Roma per la sua disponibilità e per
avermi guidata nella lettura del materiale d'archivio. A tutto il personale della biblioteca dell'Accademia
Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, per la loro cortesia e serietà. All'ing.
Claudio Baldani della Soprintendenza ai beni architettonici di Roma per avermi
messa in contatto con i proprietari attuali della villa, che si sono dimostrati
disponibili a farmi accedere più volte. Ringrazio, in particolare, l'ing.
Giovanni Capece Minutolo del Sasso, persona squisita.
FONTI
MANOSCRITTE
Archivio di
Santa Maria in Aquiro (SMA) presso la biblioteca dell'Accademia Nazionale dei
Lincei e Corsiniana di Roma Tomo n.7- Eredità
di Mons. Blosio Palladi dall'anno 1511 al 1590 Tomo n.8- Lettere
d'interessi diversi di Mons. Blosio Palladi dall'anno 1507 al 1575 Tomo n.9- Ricevute,
conti e quietanze a favore di Mons. Blosio Palladi dall'anno 1513 in poi Tomo n.10- Matrici
d'istromenti rogati da Blosio Palladi allorché esercitava l'ufficio di
scrittore dell'archivio romano, dall'anno 1515 e 1516 al 1518 Tomo n.265- Atti
riguardanti la suddivisione e vendita dei beni del medesimo
Archivio di
Stato di Roma (ASR) Archivio
dell'Arcispedale di San Giacomo degli Incurabili (b.209 t. VIII, f. 6): Eredità di
Blosio Palladio Elenco di tutti
i parenti e familiari di Mons. Blosio Palladio Misura dei
terreni et vigne del q. Mons.or Blosio Palladio (1550) Istrumenti
originali 1551-1554 Catasto
1510-1632 Catasto
Gregoriano, Suburbio Disegni e
piante, collezione I Notai della
Curia di Borgo
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NOTE
[1] Dai diari di Angelo Massarelli, segretario
del Concilio di Trento, riportato da MARINI 1784, II, pp.273-274 e da GARAMPI
1766, p.255
[2] DE MAIO 1978, pp.374-375
[3] La composizione del Suburbanum
probabilmente costituì l'occasione della conoscenza, che poi diventò amicizia,
tra Blosio e Baldassarre Peruzzi.
Quest'ultimo infatti fu direttore dei lavori della casa di Borgo di Blosio e
contribuì al progetto della villa e del giardino a Monte Mario. Cfr.
BENTIVOGLIO 1987, RICCI 1994, RICCI 2005
[4] Il padiglione, straordinaria opera perduta
di Raffaello, sorgeva sulle rive del fiume e già nel 1531 era semidistrutto a
causa delle inondazioni. Cfr. Stefano Ray, La loggia della Farnesina, in
AA.VV. Il disegno di architettura, Milano 1989, pp.191-198
[5] «Anche Pigmalione preferirebbe queste
immagini a una sposa d'avorio»
[6] Erasmo da Rotterdam, Dialogus cui titulus
Ciceronianus, sive optimo dicendi genere, in Scaliger Julius Cesar,
Tolosae Tectosagum 1621, pp.1-101; cfr. CHASTEL 1983
[7] Pierio Valeriano, Hexametri, odae et
epigrammata, Venezia 1550, p.110
[8] Attualmente la Valle dell'Inferno,
annullata dall'espansione edilizia, può individuarsi tra via A. Emo e via
Anastasio II. Circa nel 1910 Domenico Gnoli temeva che, per scavare l'argilla
ad uso delle fornaci ivi impiantate, la villa di Blosio Palladio fosse
“condannata a sparire insieme al monte che la sostiene” (D. Gnoli, Orti
letterari nella Roma di Leone X, in “Nuova Antologia”, 16 gennaio 1930,
pp.28-29 scritto postumo, e nuovamente in D. Gnoli, La Roma di Leone X,
a cura di A. Gnoli, Milano 1938, p.161). Oggi un breve piazzale separa la villa
dal precipizio argilloso. La villa si trova in via Domizia Lucilla.
[9] La maggior parte dei documenti riguardanti
Blosio Palladio si trova nell'archivio di Santa Maria in Aquiro presso la
biblioteca dell'Accademia Nazionale dei Lincei a Roma (tomi 7-10 e 265)
[10] ASV, Lettere di Principi, vol.6,
c.241. Cfr. FERRAJOLI 1915, p.444. La lettera è datata 29/7/1531 ed è
importante per confermare l'inizio dei lavori della villa di Blosio Palladio.
[11] Archivio di Santa Maria in Aquiro, t. 8,
f.252, Lettera di Raffaello a Blosio Palladio del 31 agosto 1541
[12] Girolamo de Rinaldis (1485-1556), di Rorai
grande (Pordenone) da cui il cognome Rorario. Educato da Francesco Amalteo e
dal Sabellico, si addottorò all'Università di Padova. A seguito della guerra
del 1508 con cui Venezia tolse Pordenone all'Austria, la famiglia del Rorario
rimase fedele all'imperatore Massimiliano il quale utilizzò Girolamo per alcune
missioni diplomatiche.
[13] Per ulteriori approfondimenti sul rapporto
tra arte e natura e sulla concezione del giardino nel Rinascimento cfr. LAZZARO
1990. La natura, in quanto riflesso dell'ordine cosmico divino, era concepita
come microcosmo. Conoscere la natura era come conoscere Dio. La dialettica tra
arte, intesa proprio come cultura, come capacità dell'uomo di “manipolare” e
controllare alcune forze della natura, e natura appunto si esprimeva al meglio
proprio nei giardini, nella loro composizione e decorazione, ma anche nella
coltivazione e nella costruzione di condotti idrici e fontane.
[14] GNOLI 1938, pp.160-161
[15] Il restauro è stato condotto dal prof.
Giuseppe Moro già Restauratore Capo dell'Istituto Centrale del Restauro. Alcune
scene sono ancora in restauro (quelle che riguardano Vulcano e la Contesa
dell'Attica).
[17] Cfr. DAVIDSON 1966; ARMANI 1986; AA. VV. Perino
del Vaga tra Raffaello e Michelangelo, 2001; BRUNO 1970
[18] G. Vasari, Le vite…, (1568), Newton
editori, Roma 2007, p.908
[19] Archivio S.M.A. t.9 f.44
[20] Non è una probabilità da scartare il fatto che
l'architetto Andrea Palladio, che nel 1541 e nel 1547 venne a Roma e conobbe i
membri dell'Accademia, incontrò Blosio e magari conversarono sul piacere di
abitare in villa, su quell'ideale di stile di vita sereno e armonico, a stretto
contatto con l'ambiente naturale. A proposito dell'architettura della villa di
Blosio a Monte Mario si è detto come non forzasse la natura e il paesaggio,
anzi come l'assecondasse, e Andrea scrive: «Dico adunque, che essendo
l'Architettura (come ancho lo sono tutte le arti) imitatrice della Natura;
niuna cosa patisce, che aliena e lontana sia da quello, che essa Natura
comporta» cfr. PALLADIO 1570, I, XX, p.51
[21] Feliciano era un cameriere di Blosio
[22] 10 giuli d'argento, monete emesse dal papa
Giulio II, corrispondono a uno scudo d'oro
[23] Cfr. TICOZZI 1818 in Microfiches SAUR.
Recentemente è stata pubblicata un'esauriente monografia sull'artista (LA
FRANCE 2008).
[25] Il Vasari menziona il Bacchiacca nelle vite
del Perugino, Pontormo, Granacci, Franciabigio, Tribolo e Aristotele di San
Gallo.
[26] I due fratelli collaborarono per esempio
per dei costumi di carnevale, per diversi spettacoli teatrali e per il letto
nuziale del principe Francesco I e Giovanna d'Austria. Inoltre sposarono due
sorelle, Tommasa e Dorotea Prolaghi.
[27] Cfr. LA FRANCE 2008, Doc. 35, p.329
[28]
Ivi, Doc.130, p. 373
[30] Cfr. LA FRANCE 2008, p.75
[31] La cosiddetta Grotticina della Madama
[32] Per la struttura e la decorazione dello
scrittoio vedi SIGNORINI 1993, TONGIORGI TOMASI 2002, VOSSILLA 1993
[33] Pietro Venale da Imola è un pittore di
grottesche e stuccature e lavorò con Perin del Vaga
[34] Cfr. AA.
VV. Villa
Giulia. Oltre Raffaello, aspetti della cultura figurativa del cinquecento
romano, catalogo della mostra (Roma, maggio-luglio 1984), Roma,
Multigrafica editrice, 1984. È interessante notare che gran parte della
decorazione delle sale e del grottino si deve a Prospero Fontana, citato come
una delle probabili mani negli affreschi della villa di Blosio. La decorazione
di villa Giulia è dedicata a soggetti mitologici con esplicito riferimento alla
fertilità naturale, all'acqua e alla ciclicità, come quella della villa di
Blosio: tematiche e artisti che ritornano.
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